CANNES – Immaginate Il grande Gatsby di Scott Fitzgerald, la più principesca figura di gangster della letteratura americana, in caduta verticale dai cieli del suo romanticismo: altro che guardare la luce verde della casa di Daisy al di là delle baia, Jay Gatsby modello anni Ottanta acchiappa la donna dei suoi sogni e la violenta. La scena chiave di C’era una volta in America si svolge proprio così: è l’unica serata in tutta la vita (e in tre ore e trentacinque di film) in cui a Noodles, piccolo malavitoso ebreo del Lower East Side, viene concesso di accompagnare a cena Deborah, di cui è innamorato da sempre. Nel Grand Hotel sul mare il salone delle feste è riservato alla coppia, i camerieri scivolano deferenti, i violini suonano Amapola (copyright 1924, fu un cavallo di battaglia dell’indimenticabile Rabagliati). Noodles e Deborah si parlano sussurrando, ballano soli in mezzo alla pista, continuano il duetto sulla spiaggia alla luce delle torce; ma al ritorno, sul sedile posteriore di una limousine con autista, Robert De Niro salta addosso ad Elizabeth McGovern in uno degli stupri più agghiaccianti e dettagliati visti finora al cinema. Mentre la poverina si difende come può, lui tira diritto con la brutalità che ha imparato lottando per la sopravvivenza nei vicoli del ghetto. È tipico di Sergio Leone questo ricamare sul mito con la credulità di un cinefilo d’altri tempi e poi immediatamente sconciarlo in preda a delirio iconoclasta. Dalla finzione più finta all’iperrealismo; dall’amore cortese alla sessualità misogena; e anche dall’Europa all’America. Perché non sfuggirà all’occhio esperto che le scene dell’albergo sono girate nella cornice moresca dell’Excelsior di Venezia, ma quando Noodles scende dalla macchina è nell’alba livida di Long Island che sbollisce i suoi furori.
Per niente inferiore all’aspettativa, anche se una pubblicità da capolavoro coatto ha rischiato di provocare a Cannes un minimo di delusione, C’era una volta in America è un rompicapo da trentacinque milioni di dollari, attraversato in tutta la sua lunghezza dal tema della contraddizione perpetua. Che è anche un modo per raccontare la schizofrenia del protagonista: cervello fino e uomo di coltello, sognatore e bandito, vincitore e vinto. Film su New York? Film sull’Europa, sul nostro modo di guardare l’America. Film su Hollywood? La convenzione del “City gangster movie” vi appare addirittura pantografata, ma anche smentita da un puntuale riscontro cronachistico. Film su un eroe? Ma Noodles rappresenta soprattutto un anti-eroe svergognato in ogni possibile bassezza: assassino, sporcaccione, traditore degli amici. Film sull’amicizia? O piuttosto film sull’odio che lega gli amici dall’infanzia alla morte? Film-favola o addirittura film-sogno? Però congegnato come una implacabile macchina narrativa, con anelli e richiami di perfetta tenuta. Film che guarda la storia americana del Ventesimo secolo con occhio disincantato? Sì, ma anche delirio del personaggio, memoria di un amnesiaco, diario di un fumatore d’oppio. Immaginate una storia di gangsters girata da Fellini, l’ottica di Amarcord applicata al tema di Scarface. Con in meno l’umorismo che in Leone è quasi assente. Però il funerale burlesco del Proibizionismo, con i gangsters in smoking dietro la cassa da morto mentre la Jazz band suona St. James Infirmary potrebbe essere di Billy Wilder; e dalle parti di Viale del tramonto potrebbe stare quel cimitero di lusso a Riverdale, ambigua trappola per i vivi più che luogo di pace per i morti. Ma il sabato a Hester Street, tutto un lieto formicolare di ebrei neri con lo scialle bianco, non l’ha filmato con tanto affetto nessun regista “casher”. E in mezzo alle rivoltellate, alle torture e al sangue, spunta una scena proprio felliniana: il ragazzo Noodles che guarda dalla finestrella del cesso Deborah alle prese con i suoi passi di danza sul disco di Amapola.
Parlando di un’impresa così fuori misura bisogna citare gli associati: dall’operatore Tonino Delli Colli, allo scenografo Carlo Simi, dalla costumista Gabriella Pescucci, al montatore Nino Baragli e al musicista Ennio Morricone. Dire che sono bravi è poco, sono gli ultimi maestri di un sublime artigianato forse destinato a scomparire. Per i serials televisivi, girati in fretta e a buon prezzo, basta molto meno. Non a caso C’era una volta in America arriva in gran parte da Cinecittà, l’ultima vera fabbrica dei sogni dell’occidente. C’è una folla di attori attentamente scelti, bene in parte: spiccano la McGovern, Tuesday Weld, James Woods acre antagonista di livello. Ma De Niro, con la sua vocazione trasformistica, testimonia qualcosa di più: sulle sue spalle, nell’avanti e indietro del racconto che i distributori americani vogliono riordinare con il rischio di distruggere ogni suggestione (mettereste “in fila” Il sangue di un poeta di Cocteau?), C’era una volta in America diventa un film sulla senilità, sullo sgretolarsi del fisico secondo le leggi imperscrutabili dell’esistenza. L’interprete le evidenzia sulla cavia Noodles in una serie di rilievi di un naturalismo fra virgolette, tutto interiore ed allusivo. Dovremmo dire, secondo la legge leonina della contraddizione perpetua, un naturalismo antinaturalistico? un realismo surrealista? Abbiamo davanti un kolossal messo insieme a furia di piccoli dettagli maniacali, che tende continuamente a dilatare i tempi, le reazioni e il campo visivo. La cronaca evanescente di una fantasia concreta, la versione fantastica di un dato cronachistico. Non sapremmo dire se Sergio Leone ha voluto raccontare con le sue parole il romanzo-ricordo Mano armata di Harry Grey o se si è confessato per libere associazioni come dallo psicoanalista. Certo il film, alla fine di un caleidoscopio di immagini, lascia un sapore forte e amaro. Sull’ambiguità prevale una visione della vita non certo lieta, ancora contraddetta dal vigore della rappresentazione. Chissà quante volte torneremo a girare intorno a C’era una volta in America cercando la chiave dell’enigma che si chiama Sergio Leone.
La Repubblica, 22 maggio 1984