Caino persuade Abele annoia
di Ennio Flaiano
Parlando di Monsieur Verdoux, la scorsa settimana, ho dimenticato di riferire quest’episodio, ora utilissimo per il film di cui dovrò occuparmi. Mi trovavo dunque a vedere il film di Charlot e vicino a me sedeva una matura e impassibile signora, che non mostrò minimamente di gradire quelle amenità: anzi, non mostrò nemmeno di sgradirle, restava del tutto indifferente. Non perdeva un quadro o una battuta, ma non rideva né azzardava commenti; e quando il pubblico scoppiava a ridere, ella volgeva lo sguardo attorno, cercando il motivo dell’ilarità, non sospettando nemmeno che ne fosse causa la pellicola. Riaccesesi le luci, il severo marito della signora osservò che, dopotutto, il protagonista della vicenda era un cinico e volgare assassino e la sua fine, dunque, meritatissima/Soltanto allora la signora fece sentire la sua voce. Era una vocetta da gallina casalinga, di quelle che vivono sul terrazzino della cucina. Scuotendo il capo, rispose al marito: «Perché? Dopotutto non faceva mancare nulla alla famiglia».
Ecco, quest’episodio m’è tornato alla mente vedendo il film I prigionieri dell’oceano. Si tratta di un film tratto da un romanzo di Steinbeck, un film girato nel periodo della guerra, quindi un film di propaganda antitedesca, pieno di effetti e di sorprese, drammatico e forse commovente. Eppure io mi sentivo nella poltrona come la brava gallina di cui ho riportato la battuta: estraneo a ciò che succedeva sullo schermo, deplorevolmente insensibile a quella parata di buoni sentimenti, e di giuste ragioni. Anzi, debbo precisare: simpatizzavo un pochino per il personaggio «cattivo», e mi spiace che questo personaggio risultasse di nazionalità tedesca. Perché, mi chiedevo, questa parzialità? Forse perché il tedesco, bene o male, «viveva». Tutti gli altri non riuscivano a convincermi della loro esistenza o forse avevano un solo torto, quello di essere dalla parte della ragione e di esserne fieri. Il tedesco si macchiava di misfatti, ma «non faceva mancare nulla alla sua famiglia», cioè alla sua natura di personaggio subdolo e spietato. Caino eccita la fantasia, Abele la deprime. E i film di propaganda di Abele sono molto meno interessanti dei delitti di Caino.
C’è di più. Sembra che l’italiano non sia lo spettatore più adatto pei lavori di propaganda, benché gli si muova l’accusa di faziosità e lo si rimproveri di affezionarsi tanto ad un’idea da non essere più capace di giudicarla. Tutto lascia credere che la colpa di questa indifferenza non è della sua scarsa immaginazione o dei suoi spesso vaghi ideali politici, ma piuttosto della sua ben nota incapacità ad accettare qualsiasi affermazione senza essere tentato di discuterla. Sensibile a tutto ciò che è umano – pregi e difetti, eroismi e viltà – resta freddo coi personaggi dimostrativi. Non ama i bassorilievi, ma le statue a tutto tondo, vuol girarci attorno. Egli sa che in ogni eroe sonnecchia la canaglia, e che ogni canaglia ha una mamma. Il ladro non è mai irrimediabilmente colpevole se fa tanto di portare un fiore alla fidanzata. L’Assassino non è mai perduto se all’ultimo momento trova il gesto nobile. Anzi, all’Assassino si chiede proprio questo. Se il Traditore sa affrontare con fermezza il plotone d’esecuzione, la simpatia dello spettatore lo raggiungerà assieme alle pallottole. La Critica, diceva Oscar Wilde, è autobiografia. Lo spettatore italiano vuol vedersi com’è o immagina di essere.
Quel che vale per i personaggi cattivi vale per i buoni. E di qui, ci sembra, le difficoltà che incontrano i lavori di propaganda, perché essi in genere si servono di personaggi dimostrativi, precisi, buoni o cattivi, anzi di tipi.
Detto ciò, poco resterebbe da aggiungere su I prigionieri dell’oceano. Ma il film di Hitchcock è notevole per altri versi. È un capolavoro di precisione, il frutto di un’organizzazione implacabile e di una sapienza cinematografica che potrebbe sbalordirci, se avessimo tempo. La trama del film è molto semplice: una nave americana diretta in Europa viene silurata da un sottomarino tedesco. Si salvano poche persone: una giornalista, un grande industriale, tre marinai, un negro, una crocerossina. Si salva anche una donna col suo bambino: ma questo muore e la donna quindi si annega. Per ultimo, si salva anche il capitano del sottomarino tedesco che è affondato nello scontro. E su questo capitano si accentra l’attenzione di Steinbeck. Cosa rappresentano gli otto naufraghi se non l’umanità in guerra? Ci sono tutti, approssimativamente. L’industriale e il marinaio comunista, che si odiano cordialmente e finiranno per giocare a poker. La crocerossina che si innamorerà di un altro semplice marinaio. La giornalista che rinnegherà il suo passato mondano per unire il suo destino a quello del marinaio comunista. Tutta brava gente, insomma. Il tedesco, invece, è un vero e proprio tedesco. Gli scampati sulle prime vorrebbero gettarlo in acqua: finiscono poi per subirlo, per ubbidire ai suoi ordini: è difatti l’unico che sa condurre una barca e conosce le regole della navigazione. Ma quando si macchia dell’ultimo nefando delitto (l’uccisione di un ferito, che egli reputa ormai inutile), gli altri lo linciano. Cosa faranno ora, senza guida, nell’oceano? Per fortuna, a questo punto arrivano soccorsi.
È evidente che Steinbeck, non avendo provato gli orrori di cui narra, scivola nell’accademia e la sua fatica appare programmatica, nient’affatto suggerita da un’urgenza poetica: eppure la «situazione» poteva offrire molti appigli. Steinbeck è lo Hemingway dei pigri, uno scrittore che nasconde assai bene la sua pigrizia sotto il manto di uno zelo eccessivo e puntualissimo. Egli ha lavorato per la propaganda, ma ad orecchio, per un pubblico dozzinale. Ha scritto La luna è tramontata senza farci vedere la Norvegia, senza credere alla sua esistenza, come invece Hemingway seppe fare a proposito della Spagna. Sarei curioso di assistere ad una rappresentazione de La luna è tramontata in un teatro norvegese. Probabilmente gli spettatori norvegesi non riuscirebbero a chiudere in quello schema gentilmente predisposto a loro gloria e per la loro commozione un bagaglio pesante e vivo come la loro esperienza, forse ancora inadatto alla manipolazione artistica. Ricordiamo qui per inciso come, a descrivere con più disinvolto distacco la prima guerra mondiale sullo schermo, furono proprio gli americani, che gli orrori della guerra avevano sofferto molto meno degli europei. I prigionieri dell’oceano (titolo originale: Lifeboat), è stato tratto da un romanzo.* Steinbeck scrive i suoi romanzi tenendo già presente la versione cinematografica e la versione teatrale. Non vuol perdere un minuto di tempo, né una lira di diritti d’autore. In questo caso la versione teatrale era esclusa, per colpa dell’oceano che è un personaggio indispensabile. In compenso la versione cinematografica ha risentito molto del romanzo, ed è questo il suo massimo torto. Steinbeck, stavamo per dire la Ditta Steinbeck, non ha fornito a Hitchcock che della cattiva letteratura, che dei surplus di guerra. Hitchcock (si scrive proprio così?), glieli ha restituiti molto ben cotti, ma senza assumere responsabilità. Melanconico destino di questo regista veramente sottile e beneducato, che si trova sempre a dover scusare le grossolanità altrui.
*In realtà da un soggetto originale.
Bis, a. I, n. 6, 20 aprile 1948