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Perfect Days (2023) di Wim Wenders | Recensioni

Un uomo sereno. Un lavoro importante: pulire i gabinetti. L'ultimo Wenders è un concerto di dettagli. Che celano un segreto
Perfect Days (2023) di Wim Wenders

Hirayama, in un’esistenza intessuta di semplicità, segue un rituale quotidiano impeccabile. È immerso con dedizione e ardore nelle sue attività giornaliere: pulisce i bagni pubblici di Tokyo, si perde tra le pagine dei libri, cura le sue piante, e si lascia trasportare dalla musica su audiocassette mentre guida verso e dal lavoro. Anche la fotografia e le piccole gioie della vita trovano spazio nel suo mondo, regalandogli sorrisi spontanei. Nella routine di ogni giorno, incontri casuali ed inattesi si rivelano, offrendo squarci inediti sul suo misterioso passato.

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Elegia del bagno pubblico

Un uomo sereno. Un lavoro importante: pulire i gabinetti. L’ultimo Wenders è un concerto di dettagli. Che celano un segreto

di Fabio Ferzetti

Non tutti i grandi registi sono sensibili all’arte altrui. Wim Wenders sì, come ha dimostrato più volte (i Buena Vista Social Club, Pina Bausch., Salgado, Anselm Kiefer). Anche Perfect Days nasce da una proposta esterna: girare di versi corti sulle toilettes di Tokyo, capolavori di architettura oltre che monumenti alla filosofia di vita giapponese. Ma perché invece dei corti non fare un film? Detto fatto: ecco un protagonista potente, una storia tenuta sottotraccia e un film che procede per piccole epifanie, o – come dicono i giapponesi – “komorebi”.

Il sorridente Hirayama (Koji Yakusho, palma come miglior attore a Cannes), casa semplice ma impeccabile, ogni mattina si alza, piega il materasso, bagna le piante e va al lavoro ascoltando capolavori anni 60-70 (Lou Reed, Patti Smith, Otis Redding, Nina Simone, i Kinks…), rigorosamente su cassetta. Un lavoro che altri troverebbero umiliante ma per lui è un’arte. La pulizia dei bagni pubblici. Secchio, stracci e attrezzi fabbricati in parte da sé, Hirayama lava, lustra, strofina, con tanto di specchietto per gli angoli nascosti. Nessuno sembra rendergliene merito, non il giovane collega lavativo né i clienti di quei luoghi più simili a templi che a toilettes. Ma Hirayama non ci fa caso. Per lui conta altro, la luce che danza tra i rami, il germoglio che brilla sotto un albero. quel senzatetto che nessune sembra vedere.

Naturalmente un’esistenza così monacale nasconde qualcosa cui Wenders saggiamente accenna appena, preferendo giocare su variazioni di luoghi, incontri. momenti, per mostrare quanta libertà e quanto amore celi una vita a prima vista così limitata. E lo splendore del film, che perde smalto appena “racconta” troppo, sta proprio nel nitore dei gesti, nel ritmo delle ripetizioni, nella grazia con cui Wenders estrae dall’ombra luci, voci, apparizioni perse nel flusso incessante della metropoli. Che poi è un modo per trasformare il tempo in spazio e viceversa, come ha sempre fatto. Oggi, del resto, nulla è più sacro del lavoro manuale. Wenders non è il primo a ricordarcelo. Né l’ultimo.

L’Espresso, 5 gennaio 2024

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Wenders, un “cesso” di film. Che (in realtà) è bellissimo

Il settantottenne regista tedesco esce con “Perfect Days”: pellicola ambientata nei gabinetti pubblici di Tokyo. In lizza agli 81esimi Golden Globes e candidato all’Oscar

di Federico Pontiggia

Un cesso di film. Però bellissimo. È Perfect Days del settantottenne Wim Wenders, regista così visionario e temerario da dedicare 123 (centoventitré) minuti a un uomo che pulisce i gabinetti pubblici a Tokyo. Hirayama, questo il nome, è incarnato dallo strepitoso attore premiato a Cannes Koji Yakusho, e all’apparenza non dovrebbe fare proseliti: una vita fin troppo semplice, una routine quotidiana molto strutturata, la passione per la musica (Otis Redding, Patti Smith, Van Morrison che ascoltiamo in musicassetta), i libri e gli alberi che fotografa, i gabinetti che meticolosamente – l’inizio senza guanti è invero preoccupante…– rende immacolati. La nipote affezionata, la sorella estraniata, alcuni incontri svelano un po’ del suo passato, ma Wenders si accontenta del presente, votandosi al pari di Hirayama alla bellezza e al bene comune: se volete, una toeletta dell’anima. Nelle nostre sale con Lucky Red, in lizza agli 81esimi Golden Globes – nella notte tra domenica e lunedì la premiazione – e candidato all’Oscar per il miglior film internazionale dal Giappone, Perfect Days reitera l’interesse del cineasta tedesco per il Sol Levante, manifestato nel cult del 1985 Tokyo-Ga, nel successivo peana filmato allo stilista Yohji Yamamoto e nella predilezione per Yasujiro Ozu: “L’abbiamo girato sessant’anni anni dopo che Ozu aveva realizzato la sua ultima opera, Il gusto del sakè, a Tokyo. E non è un caso che anche il nostro eroe si chiami Hirayama”.

Minimalista e trascendente, pochi dialoghi e tanta empatia, Wenders accede a uno stato di grazia che non gli apparteneva da qualche lustro, e tra un water-closet e una pezzetta trova la poesia: “Non è qualcosa che puoi programmare in un film, bensì una bella scoperta, un dono che ricevi dagli attori, i luoghi, la luce, tutto ciò che deve unirsi in un componimento, appunto, poetico”. Piedi per terra e, ehm, brache calate, l’autore de Il cielo sopra Berlino assume “il forte sentimento di ‘servizio’ e ‘bene comune’ in Giappone” e fotografa “la pura bellezza architettonica di questi luoghi sanitari pubblici”, rimanendo “stupito da quanto i ‘servizi igienici’ possano far parte della cultura quotidiana, e non soddisfare unicamente una necessità persino imbarazzante”. Wim e la poesia del WC, Hirayama e la soddisfazione personale che si traduce in beneficio pubblico, entrambi finalizzano piccole cose e grandi speranze, portando sullo schermo un sodalizio a lungo trascurato epifania poetica e atto politico.

Sì, Wenders sta benone. La Cannes scorsa l’ha riconsacrato maestro, e dal 4 al 6 marzo porterà nelle sale italiane il secondo titolo battezzato sulla Croisette: il documentario stereoscopico Anselm, dedicato all’amico artista Kiefer, anche questo eccellente. Al cinema del reale ha già ascritto la celebre coreografa tedesca Pina Bausch (Pina, 2011), il grande fotografo brasiliano Sebastiào Salgado (Il sale della terra, 2014) e Papa Francesco (Un uomo di parola, 2018), con un minimo comune denominatore incerto, fatta salva “la mia curiosità su di loro. Bergoglio come fa a vivere quella missione, quella responsabilità? Pina perché mi ha fatto piangere come mai prima per un film? E ora Anselm, che ogni cosa che conosco può dipingerla? È veramente uno scienziato pazzo: se qualcuno domani se ne uscisse con una nuova teoria sul Big Bang, Kiefer la dipingerebbe dopodomani”. Il documentario, ricorda Wenders, ha richiesto trent’anni per realizzarsi: “Nel 1991 Anselm mi disse: ‘Wim, hai sempre voluto essere un pittore e sei diventato un regista. Mentre io ho sempre voluto essere un regista e sono diventato un pittore, facciamo un film insieme’. Gli risposi di sì. Poi la vita cambia, lui si è trasferito in Francia, io in America e…”. Il processo creativo, il fascino del mito e la fascinazione per la storia, il pittorico che sdilinquisce nel filmico, Anselm è un’altra sorprendente epifania poetica, in cui riecheggiano gusto e sostanza del cineasta classe 1945 di Dusseldorf.

Quest’anno festeggerà i quaranta della Palma d’Oro a Paris, Texas, che accolse nel 1984 al Palais des Festivals di Cannes in lina serata memorabile: “Alla fine erano rimaste solo due persone, John Huston e io, e un premio, la Palma d’Oro. Huston mi guarda e dice, “che succede Wim?”. Io: “Non lo so”. E poi Dirk Bogarde ha chiamato il vincitore, ed ero io. Ho guardato John: “What the fuck?”. Lui si è alzato e mi ha applaudito. Nessuno lo sapeva, dopo di me Huston ricevette la Palma alla carriera”.

Il Fatto Quotidiano, 6 gennaio 2023

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