di Tullio Kezich
Da «Borsa film», supplemento del «Giornale dello Spettacolo» in data 21 novembre 1964: «Diamo atto alla produzione italiana degli ottimi risultati che un gruppo di film nazionali stanno conseguendo nelle prime visioni delle sedici città capozona: la rivelazione della stagione in corso è Per un pugno di dollari che si trova in testa alla graduatoria dei “best-sellers” italiani e stranieri con oltre 256 milioni d’introiti, cioè un risultato senza precedenti: le “punte” d’incasso più rilevanti nelle varie città sono: Lire 48 milioni 953.000 a Milano, Lire 35 milioni 333.000 a Roma, L. 38 milioni 730.000 a Firenze, L. 31 milioni 303.000 a Napoli: crediamo che nessun western americano degli ultimi anni si possa paragonare a Per un pugno di dollari». Nel numero del 28 novembre dello stesso giornale il «western» italiano continua a guidare la classifica degli incassi con un introito passato a 310 milioni e 45.000 lire (da ripartire su 15 città e 498 giorni complessivi di programmazione). A sfruttamento ultimato è probabile che il film, costato non più di 100-150 milioni, supererà largamente il miliardo.
I generi non esistono, esistono le opere. Fino a qualche anno fa solo nominare i generi era considerato un errore gravissimo, come scrivere «squola» con la «q». Ma il pubblico, che non ha letto il «Breviario di estetica» di Croce, continua a frequentare il cinema per generi. Il cinema italiano ha dato vita negli ultimi anni ad alcuni filoni di successo: i «film delle parolacce» (la definizione l’abbiamo trovata in un’intervista di Vittorio Gassman, autorevole esponente della sessuocomicità), la fantastoria (ormai un po’ affaticata), il documentario sadomasochista (che invece continua a funzionare) e il film sexy (recentemente ferito a morte da un provvedimento amministrativo) e le comiche della coppia Franchi-Ingrassia. Nel corso del ’64 si è scoperto anche il «western». Avevano cominciato i tedeschi girando in Jugoslavia certe fortunate versioni dei romanzi di Karl May (Il tesoro del lago d’argento, La valle dei lunghi coltelli): ma il western europeo ha una tradizione che risale a Joe Hamman e conta qualche esempio anche nella produzione italiana degli anni quaranta. I nostri produttori, strozzati dalla crisi, hanno colto l’idea al balzo e si sono dati al «cappellone» ambientandolo in Spagna quando il film è ricco, alla periferia di Roma se i quattrini sono pochi. Il successo di Per un pugno di dollari ha dato ali alle loro speranze più rosee: perciò aspettiamoci una valanga di «western» autarchici di livello sempre più scadente.
Per un pugno di dollari, nei suoi precisi limiti di prodotto commerciale ai limiti del plagio e della frode, non si può dire male eseguito. Abbiamo parlato di plagio perché i realizzatori hanno ricalcato un film giapponese, Yojimbo (La sfida del Samurai, 1961) di Akira Kurosawa: proprio come è già stato fatto in America per altri trasferimenti dal genere «chambara» al «cappellone» (The Magnificent Seven, I magnifici sette, di John Sturges, L’oltraggio di Martin Ritt). Lo sviluppo della sceneggiatura di Kurosawa e Ryuzo Kikushima è seguito passo per passo: lo scaltro soldato di ventura, che si divide fra due frazioni in lotta spingendole a massacrarsi reciprocamente, diventa nel film italiano un misterioso agente federale. La trovata di La sfida del Samurai, che consisteva nell’apparizione di un «cattivo» armato di pistola fra gente abituata a combattere solo con la spada, è riferita con qualche sforzo a un «bad man» che oppone alle «sei colpi» un fucile a ripetizione.
Si può anche parlare di frode perché il regista che si firma Bob Robertson, per far credere al pubblico di avere davanti un prodotto americano, si chiama in realtà Sergio Leone. E se Clint Eastwood è proprio Clint Eastwood, cioè un divo minore della TV americana, protagonista della serie Rawhide, dietro esotici nomi di battaglia non è difficile riconoscere attori nostrani come Gian Maria Volontè, Umberto Spadaro, Bruno Carotenuto e altri. E diremo, fra parentesi, che il bravo Volonté si muove sciolto ed efficace, senza le preoccupazioni che l’attanagliavano come interprete di film intellettuali: chissà che questa palestra del «western» casalingo non gli sia utile.
Nulla da eccepire sotto l’aspetto professionistico: il film è realizzato con competenza, il paesaggio spagnolo non è diverso dal New Mexico, gli effetti valgono quelli degli specialisti hollywoodiani. C’è tuttavia qualcosa di eccessivo, che denuncia la mancata appartenenza a un filone originario. Abbiamo visto western violenti e cruenti di marca americana, ma in Per un pugno di dollari si esagera: stragi salgariane, torture sadiche, sangue che imbratta tutto il film. E nessun legame, ormai, con i miti della giustizia, della fantasia e della libertà così vivi nel «western» classico. Dall’avventura donchisciottesca dello sceriffo senza macchia siamo passati a un catalogo di efferatezze senza giustificazione poetica o narrativa. I ragazzi vanno tenuti lontani da questa scuola di violenza; ma gli adulti che cosa possono trovarvi all’infuori di uno sfogo dell’istinto di sopraffazione? Se ci deve essere una via italiana del «western», vogliamo che sia proprio caratterizzata dai calci nelle costole e dai pugni sul naso?
Bianco e Nero, n. 11-12, Novembre-Dicembre 1964, pp. 113-115