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Recensione | Palm Springs

Nel nuovo film di Max Barbakow due invitati ad un matrimonio si ritrovano intrappolati in un loop temporale

di Anthony Lane

Non passa un giorno in cui non penso a Groundhog Day [Ricomincio da capo], un film in cui lo stesso dannato giorno si ripete continuamente. Quando il film di Harold Ramis uscì, nel 1993, ebbi una premonizione, quella che sarebbe potuto rimanere rimanere nel nostro flusso sanguigno, e così è stato. Ciò che conta del concetto principale della storia – di un tipo chiamato Phil (Bill Murray), intrappolato in un loop temporale – non è la sua novità, o la logica cristallina con cui viene elaborato, ma il fatto che risponde a qualcosa di permanente nel nostro modo di essere. (Le migliori commedie, di tanto in tanto, possono farlo con una facilità che fa impazzire i tragediografi.) “Groundhog Day”, la gente dice, quando gli viene chiesto del loro lavoro, o il terzo anno del loro matrimonio, o la prospettiva dell’infinito in un vuoto insignificante, o la scelta di insalate al banco del pranzo. Possiamo combattere il circuito; possiamo scavarci dentro, possiamo prendere il sentiero karmico, versare un’altra birra e proseguire con il flusso. Non fa differenza. In fondo, tutti noi siamo Phil.

Groundhog Day, sebbene impeccabile, non è inimitabile, e gli imitatori sono sempre stati in agguato. C’è una gustosa ironia nel sedersi di fronte ad un nuovo film e, dopo mezz’ora, aggrottare le sopracciglia nel buio e dire a te stesso: “Aspetta un attimo, questo mi ricorda qualcosa” Nessuno è stato abbastanza stupido da rischiare una nuova versione del film di Ramis, saggiamente, dal momento che il semplice tentativo creerebbe un buco nel continuum spazio-temporale. Gli assiomi del film sono stati applicati a vari generi. Edge of Tomorrow (2014), un film di guerra in cui Tom Cruise continua a essere ucciso in combattimento per poi a svegliarsi la mattina dopo, in perfetto stato di agitazione. Happy Death Day (2017) inserisce il film slasher nel loop, a beneficio di quegli esperti che amano ripetere i loro tagli. Il riff più intelligente è quello di Source Code (2011), in cui otto minuti pieni di azione, anziché ventiquattro estenuanti ore, si ripetono continuamente nel tentativo di sventare un crimine.

Ora ne abbiamo uno dal titolo noioso ma vivamente ispirato, Palm Springs. Il regista è Max Barbakow, lo sceneggiatore è Andy Siara e l’eroe messo alla prova dalla cronologia è Nyles (Andy Samberg), che all’inizio del racconto è già bloccato nel circolo vizioso. Qualunque cosa faccia, comunque muoia, con chiunque dorma, e indipendentemente dalle sue buone azioni o dalla sua grave cattiva condotta, è condannato ad aprire gli occhi, da capo, all’inizio di una bella identica giornata in un hotel di Palm Springs. E indovina un po’? È un giorno di nozze. Nyles non è quello che si sposa, grazie al cielo. È lì solo perché la sua ragazza, l’ottusa e infedele Misty (Meredith Hagner), è una damigella d’onore. Quale affascinante visione del purgatorio: un deserto di immensa eternità, cosparso di tartine così così, maldestri discorsi e balli ancora peggio. A Sisifo era andata bene a confronto.

Nyles ha un compagno che condivide la stessa sorte, un altro ospite di nome Roy (JK Simmons), il quale non è affatto contento di questa maledetta condizione e sfoga la sua collera colpendo ripetutamente Nyles con arco e frecce, ovviamente senza alcun effetto duraturo. Presto, un’altra ospite, Sarah (Cristin Milioti), la sorella della sposa, viene inconsapevolmente risucchiata nella mischia. (Barbakow fa l’errore di cercare di scoprire le origini del circolo vizioso, offrendo un po di stupidaggine paranormale in una grotta mistica. La scelta più furba di Ramis è stata quella di lasciare le cose senza una spiegazione.) Nyles da’ voce alle leggi della perpetua ricorrenza. “La cosa migliore è solo imparare a sopportare l’esistenza”, le dice, trasformandosi brevemente in Schopenhauer, ma l’opzione migliore, come lui e Sarah procedono a dimostrare, è concedersi agli eccessi senza doverne pagare le conseguenze: bere, guidare troppo ad alta velocità, rubare un aeroplano e scatenarsi in una bettola indossando gli stessi denim e foulard rossi.

Pensate quindi che tutte queste bravate segnino un certo progresso nei confronti di Phil? Non proprio; anche lui alternava comportamenti da nichilista a quelli da cavaliere, e la maggior parte di Palm Springs, direi, fu prefigurata alla vista di Bill Murray che lentamente spinge un’intera fetta di torta nelle sue fauci, guardando una disgustata Andie MacDowell e poi dicendo “Cooosa?” Inoltre, i suoi lineamenti sempre contorti raccontano del taedium vitae che si accompagna al circolo vizioso, mentre Andy Samberg – presenza estremamente allegra sullo schermo, come possono attestare i fan di Brooklyn Nine-Nine – preferisce affrontare l’esperienza in modo nitido e rapido, senza l’espressione da cane bastonato.

Ciò che distingue questo film è la presenza di Cristin Milioti, un esempio di goffaggine e grazia. Sebbene interpreti la parte dell’ingenua, sa fin troppo per esserlo. Probabilmente la ricorderete in The Wolf of Wall Street (2013) mentre urla a Leonardo DiCaprio che fuoriesce da una limousine di fronte alla Trump Tower, e le urla persistono nelle prime scene di Palm Springs, con Sarah che esclama: “Che cazzo?” per mancanza di qualcosa di più arguto. Urla persino sott’acqua, in una piscina. Ma a poco a poco, grazie al lavoro della Milioti, il personaggio sboccia, non solo nelle ingegnose bricconate ma in pathos; la felice nebbia di lacrime che scende su di lei nella bettola è improvvisa e avvincente come il primo piano di Ginger Rogers, in Shall We Dance (1937), che a stento trattiene il pianto quando Fred Astaire dice addio con una canzone. Innamorarsi è grandioso, ma prova ad immaginare di innamorarti ripetutamente. Nyles è un ragazzo fortunato.

[Traduzione di Chris Montanelli]

The New Yorker, 20 Luglio 2020

 

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