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Past Lives (2023) | Recensioni

Nora e Hae Sung, due amici d'infanzia profondamente legati, si separano quando la famiglia di Nora dalla Corea del Sud emigra in Canada. Due decenni dopo si ritrovano a New York...

Past Lives (2023)
Regia di Celine Song

Nora e Hae Sung, due amici d’infanzia profondamente legati, si separano quando la famiglia di Nora dalla Corea del Sud emigra in Canada. Due decenni dopo si ritrovano a New York, dove vivono una settimana cruciale in cui si confrontano sul destino, l’amore e le scelte che segnano il corso della vita.

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L’amore ai tempi del(la) Corea: poesia purissima

di Federico Pontiggia

Se anche voi trovate detestabile la formula discotecara “ingresso libero con consumazione obbligatoria”, questo film fa per voi. Malgrado una valente colonna sonora, firmata dal batterista Christopher Bear e dal cantautore Daniel Rossen dei Grizzly Bear, non parliamo di musica bensì d’amore: qui non si consuma, e in duplice accezione. Presentato al Sundance 2023, quindi in concorso alla 73esima Berlinale, pluripremiato e candidato a due Oscar, film e sceneggiatura originale, è Past Lives, opera prima della drammaturga newyorchese Celine Song, prodotta da A24. E un periodo felice per il cinema d’autore in sala, e questo film sentimentale s’accoda senza sforzo: sostiene moti, aneliti, perseveranza e astinenza con una misura aurea, un’empatia preziosa, un non detto che rivela assai. Non vorremmo, ma dobbiamo stigmatizzare: un’opera così alle latitudini del cinemino italiano è semplicemente impossibile, nella sostanza e nella forma. Un nitore narrativo, una quiete drammaturgica, una elegia delle piccole cose commendevole, anche per come sa trasformare l’evenienza autobiografica in valenza universale: di cosa parliamo quando parliamo d’amore, e Carver avrebbe assai gradito.

Minimalista senza sciatteria, Song, classe 1988, sceneggia in solitaria il passo a due della tosta Nora Moon (Greta Lee, come non innamorarsene?), al principio Na Young, e del sensibile Hae Sung (Teo Yoo): amici per la pelle in Corea del Sud, vengono separati dall’emigrazione della famiglia di Nora, padre regista, madre artista e sorellina, in Canada. Dodici anni più tardi si ritrovano su Skype, immancabilmente si piacciono, e progettano di vedersi: lei insegue una carriera da drammaturga a New York, lui ha fatto il servizio militare e poi Ingegneria. Malgrado il desiderio, decidono – decide lei – di non sentirsi più. La vita non li aspetta: Nora sposa uno scrittore ebreo americano, Arthur (John Magaro), Hae si fidanza, per poco. Altri 12 anni, ovvero 24 dal distacco, e l’indugio ha fine: lui vola a New York per rincontrare lei.

Portatevi i fazzoletti, ma Past Lives non sventola bandiera bianca: amore e reincarnazioni, scelte e destino, l’una di fronte all’altro, e noi con loro, Nora Moon e Hae Sung inseguiranno fantasmi, sentimenti e desii. Non c’è nulla di nuovo, è della schiatta di Prima dell’alba, la saga cult di Richard Linklater, e sodali, ma ha qualcosa di irrinunciabile per lo spettatore: la spietata dolcezza del sentire, l’astinenza gravida di possibilità, l’ironia che macera il tutto. E, debitamente condito di autodeterminazione femminile, solleva un interrogativo da far tremare i polsi, e figuriamoci le fedi nuziali: quali sacrifici, d’amore in primis, per realizzarsi? Il richiamo allo in-yuan, provvidenza o destino in coreano, lo spleen senza superfetazioni, l’arrendevolezza dolente e il libero arbitrio, tutto nella scrittura per immagini di Greta Lee rinvia a un’eccezione culturale, un triangolo considerato e considerevole da piccola antologia. La scia produttiva e antropologica di Minari, la temperatura emotiva di Drive My Car e un’originalità di tono, persino di cura che fa proseliti: è in sala, non perdetelo Past Lives.

Il Fatto Quotidiano, 17 febbraio 2024

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di Chiara Borroni

Chi siamo? Chi siamo stati? Chi avremmo potuto essere se le strade non si fossero divise? L’opera prima della drammaturga Céline Song (candidata all’Oscar per il Miglior film e la Migliore sceneggiatura originale), riflette in modo non banale su una questione esistenziale tanto basica da rappresentare un grande rischio. La sua scrittura, in cui emerge evidente il mestiere del testo teatrale, e un pensiero formale molto consapevole riescono però a conferire a Past Lives un’apparente naturalezza che lo rende un film in cui è facile riconoscersi e al quale, proprio per questo, ci si abbandona con un piacere ovattato e malinconico.

Le intenzioni di Song sono chiare fin dalla prima inquadratura, quando mette in scena frontalmente i tre personaggi del film seduti al bancone di un bar, avvolti in una luce calda e soffusa. Li si vede scambiarsi alcuni sguardi, senza sentire cosa dicono. Al contrario sono due voci fuori campo, spettatori della scena, a fare ipotesi sul legame tra i tre e sulla natura della situazione. La sequenza funziona esattamente come un’apertura del sipario: un’introduzione che attiva la posizione dello spettatore e che dichiara quanto la questione del punto di vista diverrà fondamentale.

Con un salto indietro nel tempo, ci viene allora presentata la storia di Na Young – emigrata appena dodicenne dalla Corea al Canada al seguito dei genitori artisti – e della sua relazione con il compagno di scuola Hae Sung. Le ricadute di questo primo amore innocente e fanciullesco lungo gli anni sono la strada che Song sceglie di percorrere per riflettere sui rapporti, sui sentimenti, sugli accidenti e sulle scelte della vita. Non senza riferimenti autobiografici, il ritratto di Na Young  (che Song confida alla magnifica Greta Lee) diventa anche il modo che la regista sceglie per interrogarsi su cosa costruisca l’identità di chi appartiene a più culture, di chi si scopre intimamente guidato da sollecitazioni e retaggi non sempre concordi, non sempre facili da conciliare, non per forza pacificati. Una molteplicità che è una preziosa ricchezza ma anche un’ipoteca complessa da gestire.

Con i toni pacati ma mai anodini della sua scrittura e con le forme eleganti e contemporanee di un cinema estetizzato ma tanto intelligente e misurato da non suonare artificiosamente leccato, Song riesce a trasmettere la complessità di una condizione emotiva, psicologica e culturale. Una complessità che ci parla della memoria atavica ma anche, molto, del nostro tempo, dell’essere fatalisti o al contrario (a volte ottusamente) concentrati nell’azione; di quanto la tecnologia diventata quotidiana possa riscrivere i tempi e gli spazi delle nostre vite e dell’infinità di sguardi che su di esse potremmo portare.

Elaborando l’artificio narrativo classico della molteplicità dei punti di vista e una scrittura che intreccia i tempi e le prospettive in modo mai meccanico, Song si interroga e ci interroga su come si possa diventare spettatori della propria vita – e delle vite degli altri – quando ci si comincia a fare domande. E soprattutto di quali e quante possano essere queste domande, infinite come infinite sono le possibilità delle vite passate (e di quelle future).

Cineforum, 13 febbraio 2024

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