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IL MIO NOME È NESSUNO: GIOCARE COI MITI

Nel film 'Il mio nome è Nessuno' di Tonino Valerii - prodotto da Leone - s'incrociano tre universi del western: l'hollywoodiano classico, quello degli anni ’60 e l'italiano comico

Nel film di Tonino Valerii – prodotto da Leone – s’incrociano tre universi del western: l’hollywoodiano classico, quello degli anni ’60 e l’italiano comico

di Alberto Crespi

Sì, ma uno è disorientato anche da altri fenomeni; cioè, è vero tutto questo, è vero che io ha avuto la conferma di quanto tu dici, da parte di spettatori di culture e paesi diversi, però poi non ti spieghi certi fenomeni di successo che sono aberranti. Allora tu dici: “Ma qual è il mio pubblico e qual è quello che va a vedere queste cose che a me fanno rabbrividire?… Allora nasce questo dubbio profondo: ma fosse tutta un’aberrazione dovuta al mezzo?
—Sergio Leone

È lecito mescolare la semiologia sovietica con l’immagine di un dito infilato nel culo a mo’ di pistola? Anzi, dirò di più: è lecito usare la parola “culo” in termini di analisi cinematografica? Lecito o non lecito, noi lo faremo, e chi è di stomaco delicato smetta di leggere. Perché il cinema di Sergio Leone, come il calcio secondo Trapattoni, “non è un gioco da signorine”.
Insomma, veniamo al dunque: Il mio nome è Nessuno inizia con Henry Fonda che punta la pistola nelle palle del finto barbiere che vorrebbe sgozzarlo e finisce con Terence Hill-Mario Girotti che fa la stessa cosa con un altro barbiere, nell’identica situazione. Ma Hill non usa la pistola, bensì un dito puntato a mo’ di pistola, infilato tra le chiappe del bandito. Sull’immagine di quel dito (e di quel culo) scorrono i titoli di coda, e a questo punto bisogna dire chiaramente due cose. La prima: il semiologo sovietico Michail Bachtin non si scandalizzerebbe, di fronte all’affermazione che un simile parallelo (pistola-dito) è un segno “carnevalesco”, la trasformazione del mito nella propria parodia, del re (Fonda) in giullare (Hill). La seconda: il semiologo sovietico Michail Bachtin non si scandalizzerebbe nemmeno di fronte all’uso di parole come “culo”, “palle” e “chiappe”. Diciamo che di fronte a un testo profondamente carnevalesco come Il mio nome è Nessuno è lecito scrivere un’analisi carnevalesca. E con ciò, proseguiamo.
Non sono per nulla convinto che Il mio nome è Nessuno sia un gran film. Sono, però, profondamente convinto che sia un film assolutamente straordinario nel panorama del western italiano. E intendo la parola “straordinario” nel suo senso etimologico: “fuori dell’ordinario”. Il western italiano è stato spesso referente a qualcosa di “altro da sé”. Molto spesso alla situazione italiana del momento: è più che lecita la lettura “pre-sessantottina” di film come Quien sabe? di Damiani o Faccia a faccia di Sollima. Molto spesso a momenti passati della storia italiana: Se sei vivo spara di Questi allude alla Resistenza (il regista è stato partigiano) assai più che a John Ford, Molto spesso, naturalmente, alla storia del genere western nel suo complesso. Ma quasi sempre queste letture sono indirette, di secondo grado: il primo grado di fruizione è per lo più quello dell’avventura violenta in un universo amorale, privo di connotazioni storiche precise e di strutture sociali riconoscibili.
Ebbene Il mio nome è Nessuno non solo è referente ad almeno tre universi ben distinti, ma è il film che, più di ogni altro, esibisce questa referenzialità in modo quasi osceno. E un saggio critico, più che un film. I tre universi sono chiaramente distinti e, curiosamente, nessuno di loro è identificabile con il western italiano propriamente detto (i vari Tessali, Corbucci, ecc.). Varrà la pena di notare, di passaggio, che a mio parere Leone non rientra in questa categoria: pur essendone uno dei fondatori. Leone non fa western italiani tipici, fa qualcos’altro, di più e di meno al tempo stesso. Di più in termini di elaborazione mitica, di meno in termini di sguaiatezza e di rappresentazione grafica della violenza. Infatti i fans dello spaghetti-western più trash non lo amano molto. Lo trovano troppo “autore”.
I tre universi che si incontrano in Il mio nome è Nessuno sono, dunque: il western hollywoodiano classico, ovviamente riassunto nell’icona-Henry Fonda; il western hollywoodiano degli anni ’60 (definito un po’ impropriamente “nuovo western”), riassunto nella tomba di Sara Peckinpah; e il western italiano comico, riassunto nella faccia da schiaffi di Terence Hill. Leone fa una specie di salto mortale: passa direttamente dagli antenati agli epigoni. L’operazione sarà anche storicamente scorretta, ma è profondamente “leoniana” perché in Leone il presente non esiste e il tempo non scorre in modo lineare. In C’era una volta in America il tempo è cristallizzato in tre date: 1922, 1933, 1968. E fra una data e l’altra? Nulla, forse i fumi dell’oppio, certo la consapevolezza di Noodles-De Niro che alla domanda di Max-James Woods (“Cosa hai fatto in tutti questi anni?”) risponde: “Sono andato a letto presto”. In Il mio nome è Nessuno, a un certo punto, Nessuno-Hill rievoca a Jack Beauregard-Fonda i bei tempi andati. “Sono solo tre… come a El Paso, 5 marzo 1882. In aprile ad Albuquerque: quattro. Ma è in autunno che si vendemmia…”. Insomma, l’annata d.o.c. 1882 (se vi può incuriosire, è l’anno della sparatoria di Tombstone fra Wyatt Earp e i Clanton, e in cui venne ucciso Jesse James) in cui Beauregard ne ha fatti fuori a dozzine.
Ma ora, nel presente senza tempo del film, siamo al 3 giugno 1899 (lo dice Beauregard, subito dopo aver rincontrato Nessuno al cimitero, sulla tomba di suo fratello Nevada Kid), sono passati più di quindici anni dai “bei tempi” e forse anche Jack Beauregard ha voglia “di andare a letto presto”. Nessuno è lì per aiutarlo. Lui può farlo, perché Nessuno non è un personaggio. Nessuno è una bizzarra creatura che vive nel testo ed è, al tempo stesso, extratestuale. Nessuno è uno spettatore perché, lo si capisce benissimo, ha visto un sacco di film western (tutti quelli con Henry Fonda, ci si può scommettere) e ha la testa piena di citazioni. Nessuno è anche uno sceneggiatore perché è lui, in sostanza, a dettare tempi e modi della trama del film. Nessuno diventa addirittura un regista nel mettere letteralmente “in scena” alcune sequenze (lo scontro con il Mucchio selvaggio, il finto duello finale) e nel dare vere e proprie indicazioni agli altri attori. Nessuno ridiventa uno spettatore nel momento in cui assiste all’epica impresa di Beauregard, solo contro i 150 del Mucchio. Ma Nessuno è anche una creatura dell’Inconscio collettivo che penetra nell’Inconscio individuale di Beauregard: all’interno di una parabola classica del cinema americano (due personaggi che inizialmente non si pigliano, poi finiscono per allearsi e quindi per amarsi), Nessuno diventa la memoria involontaria di Beauregard quando questi, Winchester in mano, vede luccicare in lontananza le selle del Mucchio.
E si risentono in voce off le battute di un precedente dialogo: “Luccichi come la porta di un bordello… Un cieco ti vedrebbe a dieci miglia di distanza”, diceva Beauregard a Nessuno; e quello: “Beh, a me piace che la gente mi veda”. La somma è presto fatta: luccichio uguale selle, selle uguale dinamite, basta centrare il luccichio per far saltare in aria quei “150 figli di puttana che cavalcano e sparano come fossero mille”, e per un tiratore come Beauregard è un gioco da ragazzi. Occorre dire che non sappiamo, nessuno ce l’ha detto e nessuno ce lo dirà mai, perché diavolo i tizi del Mucchio si fossero imbottiti di dinamite in quel modo? In ultima analisi, Nessuno è una specie di polimorfo perverso che diventa la vera chiave del film. Anche del suo essere, come dicevamo, metafilmico in modo esplicito, spudorato. Fin dal titolo, è il personaggio di Hill che parla, e si presenta in modo sfrontato: “Il mio nome è Nessuno”, una contraddizione in termini, una cialtrona parodia omerica. Leone parlava sempre di Omero: magari mescolato a Goldoni e a Trastevere. E qui arriviamo al dunque.
Vorrei liberarmi rapidamente di due dei tre universi testuali citati in precedenza: il western classico e il western alla Peckinpah. La loro presenza nel film è forte, importante, ma tutto sommato ovvia. Il western classico si incarna in Beauregard e in Fonda. Il western anni ’60 è citato nelle apparizioni spesso incongrue di questo Mucchio selvaggio, nella tomba di Peckinpah e nell’ambientazione “sudista”. Ma non è un caso che la citazione del Mucchio selvaggio sia ironica, ma alla rovesciali mucchio di Peckinpah (con la minuscola, rigorosamente) era un pugno di fuorilegge superati dal tempo, legati a codici travolti dalla violenza moderna; il Mucchio (maiuscolo) di Leone è una sorta – di esercito che entra in scena accompagnato, nientemeno, dalla Cavalcata delle Walchirie. Leone riporta a dimensioni mitiche ciò che in Peckinpah era smitizzato. Qui dovremmo iniziare un lungo discorso, che vedrò di riassumere in breve. Sul rapporto Leone-Peckinpah si potrebbe scrivere un libro: ho comunque la sensazione che Peckinpah debba a Leone certi codici stilistici, un modo anti-classico di strutturare la narrazione, un certo gusto iperrealistico della violenza, e nulla più. Ripensando a come cambia Peckinpah da Sfida nell’Alta Sierra al Mucchio selvaggio (ma in mezzo c’è Sierra Charriba, film tutto da studiare), credo si possa affermare che non esisterebbe il Peckinpah degli anni ’70 senza la “trilogia del dollaro” di Leone, ma solo in termini di stile e di visualità. In termini profondi Peckinpah mira al realismo, alla dimensione quotidiana del West, mentre Leone punta al mito. Semplificando all’eccesso, Peckinpah è un americano vissuto davvero nel West che ne dà una lettura “riduttiva” rispetto all’epopea, in chiave quasi neorealista, mentre Leone è europeo, anzi italiano, anzi romano, anzi trasteverino. E allora?
La commedia, allora. Il terzo universo. Trinità, ovvero la triade Hill-Spencer-Clucher alias Girotti-Pedersoli-Barboni. La coppia Hill-Spencer nasce nel 1967 in Dio perdona io no, film diretto da Colizzi, che però è ancora un western “serio”. Si incontrano con Clucher nel ’70 e danno il via, con Lo chiamavano Trinità, a una delle serie più fortunate del cinema italiano. Quando Leone e Valerii lo chiamano per Il mio nome è Nessuno, Hill ha già interpretato anche …Continuavano a chiamarlo Trinità, e Più forte ragazzi, sempre con Spencer, nonché …E poi lo chiamarono il Magnifico, da solo. Ora, non si può non notare che tutti questi film girano intorno al problema del nome. Chiediamo di nuovo la benedizione di Bachtin (possiamo mescolare cultura “alta” e cultura “bassa”, vero? Sì, possiamo; e ricordiamo che per un altro sommo semiologo, Jurij Lotmam la “nominazione” è uno dei problemi centrali della cultura e il nome è sempre, ad ogni livello, una sovrapposizione del mito alla realtà. Ecco allora che ai nomi mitici di Trinità e di Magnifico si oppone un mito di segno opposto, orgogliosamente annunciato nel titolo: il mio nome è Nessuno. Ma a questo punto bisogna anche dire che l’onomastica dei film di Leone è sempre di questo tipo: Joe lo straniero, il Monco, l’lndio, il colonnello Mortimer (ma provate a immaginamelo in romanesco: “A Mortimer!…”), i banditi Groggy e Wild, il Biondo e Sentenza, Cheyenne e Armonica, fino ai nomignoli dei gangster di C’era una volta in America (Noodles, Cockeye, “Fat” Moe, ecc.).
Il Nome dunque. Lo usiamo come grimaldello per capire come certe caratteristiche di Il mio nome è Nessuno siano sì referenziali al western comico, ma anche già presenti nei film di Leone degli anni ’60. In altre parole: si è scritto che in questa occasione Leone voleva un po’ stigmatizzare la nascita del western comico, ribadire che se esiste Trinità è perché, prima, sono esistiti i Jack Beauregard. A me sembra vero il contrario: Leone vuole dire che se esiste Trinità è perché l’ha inventato lui, anche se in modo fanfarone e burlesco. È un vero peccato che Leone non abbia mai fatto, esplicitamente, una commedia: però ha prodotto Il gatto di Comencini e due film di Verdone e ha fatto scrivere Il Buono il Brutto il Cattivo ad Age e Scarpelli, ovvero alla coppia-principe della commedia all’italiana. Ecco, Trinità è già racchiuso nella “trinità” grottesca composta da Tuco, dal Biondo e da Sentenza in quel film, che è di fatto una commedia picaresca, “I soliti ignoti” trasportati in un West al tempo stesso favolistico e casareccio. Perché, se no, vogliamo credere sia un caso che girovagando nel Far West i tre incontrano un ufficiale nordista con la faccia di Aldo Giuffré? In realtà Giuffré è un tassello di commedia partenopea incastrato in un mosaico western, come Paolo Stoppa è una citazione viscontiana in C’era una volta il West (accanto alla Cardinale, certo: ricordate Il Gattopardo?) e Woody Strode è un pezzo di memoria fordiana incastonato nel medesimo film. Insomma, la commedia italiana è nei cromosomi di Leone, come lo era nella sua parlata lenta e tranquilla, da vero trasteverino intellettuale e popolano al tempo stesso.
Nessuno viene, prima di tutto, da lì, ben prima che dai film di Trinità. Nessuno è il classico “rompicojoni” romanesco, il giovanetto affascinato dal ras di quartiere che ti si attacca, ti dice continuamente “ahò, sei un mito, sei ’na forza” e non ti molla più. Jack Beauregard – che invece viene dal western classico, da Ford, dove i giovani stavano al loro posto – lo guarda inizialmente perplesso, avrebbe una gran voglia di farlo secco, ma pian piano lo capisce e alla fine lo ama. La lettera che gli scrive alla fine, è una lettera d’amore: “… Cerca di conservare un po’ di quell’illusione che faceva muovere noi altri. E anche se lo farai con quel tuo tono da burla, te ne saremo grati”. Ragazzi, se questa non è già una critica del film, bell’e fatta! C’è anche la stessa coscienza morbida e dolorosa del tempo trascorso, la stessa che stroncherà Noodles alla fine di C’era una volta in America: “Una volta il West era immenso, non si incontrava mai due volte la stessa persona. Poi sei arrivato tu ed è diventato piccolo e affollato. Ci si incontra continuamente!… Il paese è cresciuto e cambiato. La violenza si è organizzata. Questo è il tuo tempo, non più il mio”. E quando Jack ricava finalmente la morale della favoletta dell’uccellino (vecchia barzelletta, forse trasteverina anch’essa: quando sei nella merda fin qui, non cantare) è solo per constatare amaramente: “È la morale dei tempi nuovi”. Qui c’è già il Leone del 1984, a dimostrazione che C’era una volta in America era già in nuce e che per questo la regia di Il mio nome è Nessuno fu affidata a Valerii.
Non vorremmo nemmeno sapere quali scene Leone girò di persona. Ci piace pensare che abbia girato le più comiche: la chilometrica pisciata grazie alla quale Nessuno ruba il treno con l’oro, il tormentone dei tre pistoleri tonti (e dalli con il numero tre) sempre ridicolizzati da Nessuno. Ma sono perfettamente coerenti al tono del film anche le scene in cui Hill fa dichiaratamente “il Trinità”. Non a caso si svolgono tutte all’interno di una sorta di macro-sequenza, quella della città-luna park, una sorta di proto-Disneyland stracciona in cui Jack arriva, seguito da Nessuno, alla ricerca di Sullivan. Lì, è come se il film si fermasse: e se sul piano della tensione narrativa Valerii e Leone perdono un po’ i pezzi, sul piano della lettura metafilmica si scatenano. Prima il gigante con i trampoli che si rivela un nano, poi la gag delle torte in faccia ai negri, poi il saloon e la gara di tiro coi bicchieri di whisky, la gag dei ceffoni in purissimo stile Trinità, la casa degli specchi che ovviamente ricorda Welles e per finire la scena del biliardo. Qui il citazionismo tocca il culmine: si inizia con Chaplin (Nessuno ruba la mela a un bambino come faceva Charlot nel Circo, ma guarda un po’) e si prosegue con De Mille (gli specchi nel saloon, protagonisti di una memorabile sequenza di La via dei giganti), per arrivare, lo giuro, ai “fratelli” Vasilev. Forse è una mia foiba, ma la scena del biliardo (“Questa palla è il buono, questa è il cattivo, questa sono io” per finire con tutte le palle che rappresentano il Mucchio selvaggio) mi ricorda in modo irresistibile una bellissima scena di Capaev, classico del realismo socialista, in cui il comandante bolscevico spiega le proprie convinzioni tattiche usando patate e pomodori, disposti sul tavolo, per rappresentare le forze in campo.
Torniamo a Bachtin, dunque. Per una mezz’ora abbondante Valerii e Leone ci portano in un mondo carnevalesco che riproduce in modo “rovesciato” tutto il film. Qui si chiarisce definitivamente che Beauregard è il Re e Nessuno è il suo doppio carnevalesco, il Giullare che aspira per un giorno all’incoronazione. È proprio la natura carnevalesca e irrisoria del film a consentire il rovesciamento del rapporto classico fra il Vecchio e il Giovane. In decine di western il Giovane segue il Vecchio per imparare a vivere. Nel mondo del tutto fittizio e testuale di Il mio nome è Nessuno il problema non è vivere, ma trovare la propria collocazione all’interno del Testo che rappresenta il mondo. Nel pensiero di Lotman la cultura è un mondo in cui i testi “si parlano” l’un l’altro: ebbene, Il mio nome è Nessuno sembra davvero la realizzazione di questo modello, un testo fatto di molti testi, una specie di super-testo che fa interagire tutti gli altri.
E allora, completiamo anche noi la nostra trinità e scomodiamo il terzo semiologo sovietico: Vladimir Jakovlevic Propp. In un testo fiabesco “normale” Nessuno sarebbe il Giovane Ignaro e Beauregard sarebbe il Maestro Donatore. Qui è Nessuno il Donatore: è lui che “guida” le azioni di Beauregard ed è lui che inconsciamente gli dona il segreto (il luccichio delle selle) per sconfiggere il Mucchio selvaggio. Le “funzioni” di Propp che sono alla base del mondo fiabesco vengono rimescolate, perché qui non siamo in una fiaba popolare: siamo in un mito costruito a tavolino, e quindi altamente intellettualizzato e auto-referenziale. Fra i western classici e Il mio nome è Nessuno c’è la stessa differenza che passa tra una foresta equatoriale, sedimentata naturalmente nei millenni, e un esempio di architettura postmoderna nel quale coesistono, in un presente assoluto fuori del tempo, citazioni dalle epoche più diverse. C’è insieme, l’ “allusione” alla Storia (i cavalieri del Mucchio che, esplodendo, si trasformano in fotografie ingiallite) e la negazione della Storia. Il presente assoluto di Il mio nome è Nessuno racchiude simbolicamente la fine di un secolo (è il 1899) e si muove, dì fatto, nella dimensione rarefatta e onnicomprensiva del Gioco e del Mito.
“I bei tempi non ci sono mai stati. Qual è il tuo gioco?”, chiede Jack. “Io giocavo solo da bambino. E giocavo a Jack Beauregard”, risponde Nessuno. Il Gioco presuppone delle regole. Nel Gioco il bambino Nessuno “fa” Jack Beauregard, nel Carnevale il giullare Nessuno prende – con un finto duello – il posto del re Jack Beauregard. Ora il Mucchio darà la caccia a lui, che si difenderà con le armi del giullare (perché non c’è continuità, ma solo sostituzione): rifilando bastonate in testa e sostituendo alla pistola il suddetto dito nel culo. Il giullare – ce lo spiega Bachtin – può diventare re per un giorno, ma solo all’interno di una convenzione (in altre parole, Trinità può fingersi Henry Fonda ma rimane sempre Trinità). Dal canto suo, il re può andare in pensione, contravvenendo alle regole della storia: “Così tu saresti fra quelli che leggono e io fra quelli che muoiono”, e invece no, Jack può anche non morire, e può permettersi di scrivere che “morire non è la cosa peggiore che può capitare ad un uomo”. Se ne può andare in Europa, luogo mitico per lui quasi quanto l’America è mitica per Leone. I miti si incontrano, hanno i loro crocevia, e all’interno dei miti il tempo è fermo, e i nomi sono miti a loro volta e gli eroi non invecchiano. Non vale la pena di invecchiare perché “gli anni non fanno dei sapienti – dice Jack – Fanno solo dei vecchi”.

Segno Cinema n. 68, Luglio-Agosto 1994; pp. 23-26

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1 thought on “IL MIO NOME È NESSUNO: GIOCARE COI MITI”

  1. Complimenti per la recensione! Mi è particolarmente piaciuta la riflessione sul ruolo metacinematografico di Nessuno. Praticamente si potrebbe dire forzando che Nessuno è Leone, che ha giocato al western da bambino a trastevere e che forza il mito della sua infanzia ad accadere e ripetersi, ma che in qualche modo è anche Bouregard, che reclama la paternità degli stilemi, riconosce la continuità e quasi chiede che la dimensione dell’eroismo generoso e del mito passi anche alla generazione dopo. In ogni caso c’è sempre qualcosa che mi muove dei due personaggi, quella intesa naturale che nasce dal riconoscimento reciproco di un onore e di una lealtà antica, propria dell’essere uomini, già vista in c’era una volta in West. Grazie per le interessanti riflessioni!

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