di Fernaldo Di Giammatteo
Cadono i capelli dei coscritti, bianchi e neri, una lunga teoria di teste rasate, e di volti seri, cupi. Titoli di testa. Camminando marziale nella camerata della caserma di Parris Island, South Carolina, dove si addestrano i marines, il sergente istruttore Hartman passa in rassegna le reclute. Urla improperi, si fa rispondere a urli. A uno, grasso, cambia il nome, lo chiama Palla di lardo. Aggredisce Joker, che gli tiene testa. Cominciano le esercitazioni, corse, canti, percorso di guerra, arrampicate.
La notte le reclute dovranno dormire con il fucile, cui sarà dato un nome di donna. Al mattino, si canta in camerata in onore del fucile, la mano sui testicoli («Con lui ammazziam, con questi chiaviam»). Preso di mira Palla di lardo, Hartman lo insulta quando non riesce a superare la sbarra sulla scala. Di esercizio in esercizio, le reclute si trasformano. Il sergente li provoca. Un mattino, alla sveglia, attacca Joker, cui chiede se ama la vergine Maria. E lui risponde di no, spavaldamente. Andrà a pulire le latrine.
Come può, Joker cerca di aiutare Pyle (è il nome di Palla di lardo). Durante una ispezione – in camerata, tutti in piedi, in mutande, nelle cassette di ordinanza – il sergente Hartman scopre che Pyle non ha chiuso la cassetta col lucchetto. La apre, butta tutto all’aria e vede saltar fuori una ciambella. D’ora in poi, dice a tutti, punirò voi se Palla di lardo sgarrerà. Una notte tutto il plotone dà una lezione al grassone, picchiandolo con gli asciugamani arrotolati. La scena penosa lascia interdetto Joker che ha organizzato l’aggressione.
Un mattino, sul campo, Hartman chiede ai coscritti se sanno perché due assassini come Charles Whitman e Lee Oswald seppero uccidere–colpendo con tanta precisione da grande distanza: perché erano marines. A Natale le reclute con il sergente cantano in coro «Tanti auguri Gesù Cristo». Hartman li incita a combattere il comunismo, e a credere in Dio. Joker vede Pyle che parla affettuosamente al suo fucile, si preoccupa. Di fatto, il grassone, che comincia a dare segni di instabilità, è bravo ai tiri, e riscuote l’elogio del sergente. Il corso è alla fine. Sfilano orgogliosi i marines davanti alle autorità e ai parenti, mentre fuori campo la voce del sergente spiega come ogni marine sia immortale perché mai morrà il corpo dei marines. L’ultima notte al campo tocca a Joker il turno di guardia. Gira con la torcia elettrica per la camerata, arriva alla latrine. Trova Pyle seduto sulla tazza, il fucile in mano, carico. Gli chiede se sa che sta facendo. Certo, il fucile è caricato con i proiettili blindati – full metal Jacket – calibro 7,62. Grida. Si svegliano tutti. Anche Hartman, che sopraggiunge in mutande, il cappello in testa. Palla di lardo si alza, risponde ai suoi improperi sparandogli a bruciapelo. Poi, si risiede sulla tazza, s’infila la canna in bocca, e fa fuoco. Un fondo chiude la lunga sequenza (quasi metà del film) a Parris Island.
Saigon. Una piazza. Joker e Rafterman, un fotografo di guerra, sono abbordati da una prostituta che vanta le proprie doti. Contrattano sul prezzo. Joker sta per andarci, mentre Rafterman fotografa la scena. Alle sue spalle sbuca un vietnamita che gli strappa la macchina e fugge su una motoretta guidata da un complice. Questa è l’amichevole accoglienza che ricevono i marines. Un elicottero porta i due a Da Nang, alla redazione di «Stars and Stripes» (Joker è corrispondente di guerra). Il direttore impartisce istruzioni, che si riassumono nel dovere di nascondere la verità, di alternare i fatti e di inventare storie edificanti sulla generosità americana e sull’impegno di sterminare i rossi. Si parla del Capodanno vietnamita del Tet. Tutti sono convinti che, come sempre, i viet festeggeranno e sospenderanno le ostilità. È notte, nel cielo si vedono brillare i fuochi artificiali. A un tratto, l’attacco. È l’offensiva più dura di tutta la guerra. Il mattino seguente il direttore dei giornale spiega quel che è accaduto. Joker lo sfotte. E si trova di colpo sbattuto al fronte, insieme a Rafterman che chiede di seguirlo.
Durante il volo di trasferimento, i due assistono (Rafterman reprime a stento conati di vomito) alle micidiali sparatorie di un marine che tira al bersaglio contro i contadini. A terra, Joker ritrova amici del corso. Assiste al diseppellimento di venti cadaveri di vietnamiti che i rossi hanno ucciso perché collaboravano con gli Americani. Sopraggiunge un colonnello che ingiunge, invano, a Joker di togliersi il distintivo pacifista fissato al bavero, lui che sull’elmetto ha scritto «Born to Kill». Spiega Joker al furente e allocco ufficiale che la contraddizione fa parte, come ha insegnato Jung, dell’ambiguità umana.
Arrivano in uno spiazzo fra case distrutte. Joker ritrova l’amico Cowboy, si scontra con un bruto che lo sfida, manifestando chiarì segni di alterazione mentale. Accanto a loro, il comandante della squadra tiene, seduto su una poltrona sfondata, come dormisse, il cadavere di un vietcong. Durante un’azione cui partecipano alcuni carri armati, il pilota avanza verso un gruppo di edifici distrutti. Accolti da un improvviso, intenso fuoco, sparano tutti, istericamente, e mettono a tacere i viet, che friggono dietro i palazzi diroccati.
Al campo di Hue una troupe televisiva, dopo aver ripreso le scene del combattimento, intervista i marines. Ognuno ha la sua risposta, assurda, stupita o inferocita. C’è chi dice di odiare il Vietnam perché non ci sono cavalli. «Volevo –dice Joker – essere il primo a fare centro dentro qualcuno». Arriva una prostituta condotta da un prosseneta astuto, a bordo di una vespa. Si discute sul pene di un negro, la prostituta, diffidente, guarda, si compiace e ci sta. Ma un bianco brucia il tempo al negro, come sempre.
Partono per un’altra azione di pattuglia. Un marine salta su una mina. Era il comandante. Ora tocca a Cowboy prendere in mano la squadra. Chiede istruzioni per radio al comando. Temono di aver sbagliato strada, consultano la carta. Cowboy manda il negro, come si usa, in avanscoperta. E il negro, giunto allo scoperto, è colpito dai proiettili di un cecchino appostato chissà dove. Cowboy chiede al comando di inviare i carri, ma non ci sono carri in zona. Che fare con il negro, rimasto ferito? Nonostante Cowboy ordini di non muoversi, un coraggioso esce, corre. E il cecchino colpisce anche lui. Il bruto che aveva affrontato Joker corre fuori, perlustra la zona, capisce che si tratta di un cecchino isolato, lo urla ai suoi.
Esce un gruppo per stanarlo. Cowboy dà notizia al comando. Il cecchino lo centra mentre parla. Gli altri ora si scatenano. Lanciano fumogeni nello spiazzo e vanno. Entrano in un capannone, tra le fiamme. È Joker che scopre il cecchino, una ragazza giovanissima, che fa fuoco rabbiosamente, mentre a lui s’inceppa il fucile. Si ripara dietro una colonna, estrae la pistola, spara. La ragazza cade. Arrivano gli altri. Che fare di questa ragazzina che geme, prega, invoca (ora in inglese) di essere uccisa. Gli altri la lascerebbero lì, a marcire, in pasto ai topi. Joker, esitando, accetta l’invito di un compagno: Ammazzala. Lo fa, superando l’orrore.
Fuori, fra le fiamme e il fumo, in uno scenario infernale, il plotone riprende la marcia. La voce di Joker, che pensa a quando tornerà a casa e farà l’amore con le ragazze. Per ora, «Sono contento di essere vivo. Vivo in un mondo di merda, ma sono vivo. E non ho più paura». Cantano in coro l’inno di Topolino. Sui titoli di coda, bianchi su nero, i Rolling Stones cantano «Paint It, Black» di Mick Jagger.
La critica americana accoglie il film con grande favore. Opera «audace e potente» la definisce su Films and Filming (n. 397, ottobre 1987) Brian Baxter, che sintetizza così le sue osservazioni: «Che cosa fa di Full Metal Jacket il miglior film del 1987, insieme al suo diversissimo Sous le soleil de Satan di Pialat? Le virtù di cui ho parlato sembrano negative: asprezza, implacabilità, assenza (apparente) di passione, pessimismo, sgradevole realismo. Vi si parla del Vietnam, dei rapporti fra gli esseri umani, di singolari forme di pazzia, dei maltrattamenti alle donne (considerate oggetti sessuali), della guerra: delle sue idiozie, delle sue atrocità. Ci si occupa meno delle ragioni e della condotta della guerra che delle sue spaventose incongruenze. È un’opera che richiede concentrazione e una forma di resistenza estranee ai pubblici odierni che consumano sciocchezze e spazzatura. Lo dimostra il fatto – triste – che abbiamo aspettato sette anni dopo l’ultimo film di Kubrick, più altri cinque per risalire a Barry Lyndon. Speriamo che la prossima volta l’attesa sia più breve. Non fosse altro per l’ottima fattura dell’opera (fotografia, uso del suono, musica superba, interpretazione), è una vergogna non poter vedere Kubrick più spesso. L’effervescenza che introduce in tutti i generi che affronta rende la sua mancanza doppiamente triste».
A proposito della fattura, la rivista tecnica American Cinematographer (settembre 1987) analizza con abbondanza di esempi – preziosi e illuminanti – il fondamentale lavoro fotografico di Douglas Milsome e ne ricava un giudizio globale sul film: «Il finale di Full Metal Jacket è il più sconvolgente, disperante e cinico di tutti i film di Kubrick. Nei trent’anni che lo separano da Paths of Glory, il brillante ma ingenuo cineasta di allora ha perduto ogni fiducia, se mai la ebbe, nella umanità della razza umana. Alla fine di Paths of Glory i soldati di Kubrick ritrovano la propria anima, ma in Full Metal Jacket l’hanno irreparabilmente perduta. Quando Joker dice che ha affrontato il nemico «senza aver paura», noi sappiamo che la pallottola che ha tolto la vita alla ragazza vietnamita ha anche ucciso quel Joker che ha saputo reggere lungamente ai metodi del corpo dei marines. Mentre gli americani marciano nel fiammeggiante inferno che hanno provocato, cantando una scomposta versione del Mickey Mouse Club Song, l’immagine s’incupisce e i Rolling Stones ci pregiano di Paint It, Black. Non c’è film più nero di Full Metal Jacket». L’immagine rollingstoniana del «Paint It, Black» è ripresa da Michael Henry sul francese Positif (n. 320). «Più che mai – commenta Henry – Kubrick agisce in piena solitudine. Lo stile dell’opera lo dimostra a iosa. Il suo iperrealismo clinico non deve nulla ai tentativi dei suoi predecessori, si tratti dei sostenitori del realismo documentario (Oliver Stone, John Irvin) o di chi propende per il surrealismo visionario (Michael Cimino, Francis Coppola). In The Deer Hunter come in Platoon, in Apocalypse Now o in Hamburger Hill lo spettatore è invitato a condividere gli stati d’animo dei combattenti, magari attraverso lettere, o diari o il monologo interiore. Non è il caso di Full Metal Jacket dove la narrazione atonale di Matthew Modine fornisce soltanto dati cronologici o geografici. S’impone un unico punto di vista, implacabile, ed è quello di chi conduce il gioco. Non mancano i riferimenti al cinema hollywoodiano dell’epoca d’oro, ma sono messi in bocca ai protagonisti, e servono soltanto per mostrare quanto certi archetipi abbiano condizionato il comportamento dei combattenti».
A differenza di altri (praticamente di tutti gli altri), Kubrick non mitizza l’impatto dei media – della televisione specialmente – sul conflitto. Sottolinea, invece – spiega Henry – la «desolante banalità della pazzia ordinaria. Ciò gli altri descrivono come un’aberrazione per lui è la norma. In Full Metal Jacket il Vietnam funge al massimo da rivelatore, da catalizzatore di una psicosi diffusa dall’esercito stesso. Il cancro diagnosticato dal nostro chirurgo–cineasta nasce nel cuore del sistema: è lì che si trova quella violenza istituzionalizzata ch’egli aveva già analizzato in Paths of Glory o denunciato in Spartacus o sbeffeggiato in Dr. Strangelove. Stavolta non si tratta più di capi (la classe dirigente, la casta aristocratica, gli ufficiali di stato maggiore) ma di semplici reclute senza passato e senza futuro, coloro che forniscono la carne da cannone. Queste vittime non sono innocenti. Che cosa distingue il soldato dal criminale? Non accettano la vita com’è, risponde Kubrick, affascinato e orripilato dal sottilissimo margine che separa l’uno dall’altro. Tanto da riservare i primi quarantacinque minuti del film al laboratorio dove si contrae il virus, per l’occasione il centro di addestramento di Parris Island». Alla fine il regista, lasciando lo spettatore libero d’interpretare il gesto di Joker che dà il colpo di grazia alla ragazza cecchino mortalmente ferita (stupro estremo o distruzione di quanto resta di umano in lei), apre un ventaglio di possibilità. Per il marine può essere –conclude Henry – «un riflesso umano, un rito si passaggio, l’incontro di Joker con il suo doppio femminile… La sequenza finale sembra suggerire tuttavia un battesimo della morte, un passaggio dello Stige, un punto di non ritorno. Poiché, invece di gettare il suo M 16, Joker si aggrega alla comunità dei dannati che scompare nell’oscurità cantando Mickey Mouse. Le sue ultime parole sono: Vivo in un mondo di merda, ma sono vivo o non ho più paura. Con tutto il suo bagaglio d’innocenza, ha compiuto per intero la regressione: il soldato Joker è diventato l’assassino Joker».
Riassumendo il significato profondo, sparsamente commentato dai critici stranieri, di un film così compatto come Full Metal Jacket, Sergio Frosali (Segnocinema, n. 31) scrive: «Kubrick appare consapevole del fatto che oggi la tragedia suprema su cui si gioca l’avvenire stesso del mondo è quello della stupidità. La tragedia della banalità di massa e dell’assenza di direzione che si volge verso la ripetitività come esorcismo della nullità. Una tragedia di nuovo tipo. Non svettano più eroi come Edipo e Antignone ma si muore è si uccide in quanto portatori di midcult. Tali sono i sergenti di Kubrick, i suoi coscritti e perfino i suoi “eroi” in Vietnam. La tragedia di massa, per venir contemplata appieno, non può mutuare i modi cari a Sofocle, né quelli codificati della Poetica di Aristotele (questo abbecedario della costruzione drammatica). Nel momento in cui gli uomini non sono più parlati dagli dei, neppure da dei soltanto simbolici, la tragedia ritorna alla polvere da cui era nata. E non appare più tragedia ma soltanto un horror della serialità, che postula moduli stilistici seriali. Questo, appunto, pare dica Full Metal Jacket benissimo, come solitamente in Kubrick».
Pubblicato in Stanley Kubrick, di Enrico Ghezzi, Firenze: La Nuova Italia