La Stampa (1/10/1999)
di Lietta Tornabuoni
Da quanto tempo un film non veniva atteso con frenesia (autentica, non pubblicitaria), non divideva la comunità culturale internazionale in gruppi accaniti di ammiratori («capolavoro») e detrattori («noioso»), non suscitava aspre discussioni sul cinema e sull’amore coniugale, non provocava addirittura (ma dev’essere una bugia, o un pretesto) il licenziamento della critica del «New York Times» accusata d’averne scritto troppo bene? Per la sua grande qualità e forza, il tredicesimo e ultimo stupendo film diretto da Stanley Kubrick prima della morte è stato al centro di tutto questo, e adesso arriva finalmente nei nostri cinema. Il suo titolo Eyes Wide Shut, non tradotto in alcun Paese del mondo, è un gioco di parole che può significare occhi totalmente serrati (il sogno) o anche occhi del tutto spalancati (la realtà). Trasferendo a New York e alla fine del Novecento il breve romanzo viennese inizio secolo di Arthur Schnitzler «Doppio sogno», il film racconta attraverso una coppia coniugale giovane, bella, ricca, elegante, innamorata (Tom Cruise, Nicole Kidman) l’eterno contrasto fra sogno e realtà, fra promiscuità naturale e monogamia socialmente coatta, fra desiderio e prassi. L’immaginazione sessuale è al potere: lui vive un sogno sessuale continuamente interrotto (come in un incubo, o in una farsa), lei sogna una vita sessuale con altri uomini. Le loro voglie, gelosie, fantasie sessuali sono la materia del film. Senza mai lasciar scivolare Eyes Wide Shut nell’oscenità e neppure nell’imbarazzo, il talento di Kubrick restituisce al corpo nudo intensa emozione, resuscita febbri e passioni accese dell’eros; offre un’immagine giudicante del sesso di massa, freddo automatismo fisico a confronto con il sesso nutrito d’amore, in una grande scena di orgia di ricchi mascherati, carnevalesca e insieme allarmante. Alla fine la giovane coppia, ferita ma non uccisa dalle proprie avventure sessuali immaginarie, può tornare alla realtà della passione coniugale: con umorismo, tenerezza e magari un poco di disperazione. La maestrìa registica e visionaria di Kubrick qui è davvero meravigliosa. Sono stupefacenti l’uso delle luci, la costruzione delle scene, l’equilibrio degli spazi, lo sguardo posato sulla brava bellissima Nicole Kidman e soprattutto l’intelligenza del personaggio di Tom Cruise, eroe un poco comico e smorfioso, ricco incapace di vero ardire, conformista disarmato di fronte all’ardente mare misterioso della vita e del sesso.
Corriere della Sera (2/10/1999)
di Tullio Kezich
Sbirciato dal titolo che l’articolo riguarda Eyes wide shut, immagino che avrete la tentazione di passare ad altro. Negli ultimi anni intorno al film di Kubrick, che sta uscendo su 300 schermi, si è scritto e letto tanto da accumulare ritagli a migliaia. Ne discende il primo consiglio: dimenticare tutto, da una parte gl’insopportabili atti di fede degl’integralisti, dall’altra le stroncature dei furbetti. Secondo consiglio, rivolto a chi va al cinema saltuariamente e mi chiede se questo è proprio un film da vedere: andateci senz’altro, a patto che abbiate già visto «Tutto su mia madre» di Almodóvar e «Il vento ci porterà via» di Kiarostami. Ossia due film d’ispirazione e perfettamente riusciti, ciascuno nell’alveo della propria poetica. Due opere che trasmettono emozioni, allargano il respiro, sollecitano la fantasia. Il che non si può dire di Eyes wide shut, che da tipico film «di testa» è soltanto (ma non è poco) uno spettacolo di eccezionale fattura, girato stupendamente anche se a prezzo di perfezionismi insensati. Il fatto che Stanley, oriundo austroungarico, abbia tenuto «Doppio sogno» sul comodino per quarant’anni non è una garanzia che poi l’abbia fatto come sperava. D’altronde, Kubrick non ha l’esclusiva del culto di Arthur Schnitzler, autore frequentatissimo. Per restare in Italia, dal ’78 a oggi Adelphi ha fatto oltre una dozzina di edizioni del libro, Giorgio Marini ne ha presentato una versione teatrale nell’81 e perfino i personaggi di Maniaci sentimentali (’94) di Simona Izzo si fan sorprendere con «Doppio sogno» in mano. Quali sono state, in breve, le scelte sbagliate di Kubrick? Ambientare una storia tipicamente freudiana, ebraica e viennese del ’20 nell’odierna New York (del resto poco identificata causa paura di volare). Farsi imporre dalle leggi di mercato due divi come Nicole Kidman e il tontolone Tom Cruise: da elogiare per la masochistica pazienza che ci hanno messo, ma con risultati dubbi. Accettare dallo sceneggiatore Frederic Raphael la presunta necessità di una spiegazione del «sogno vero» del protagonista introducendo come deus ex machina il sinistro anfitrione Sydney Pollack che nel libro non c’è. Motivata realisticamente la vicenda, Schnitzler diventa un racconto per le antologie di Hitchcock; e non vi poteva trovar posto, evidentemente, il sogno atroce della moglie che si conclude con la crocifissione del marito. Dopo aver visto il film, un produttore che conosco ha avuto un’idea: «E se rifacessimo “Doppio sogno” come fu scritto, in quella Vienna d’epoca alla vigilia della triplice catastrofe che si chiamò nazismo, guerra e olocausto, pensando che l’autore se fosse sopravvissuto avrebbe fatto a tempo a morire in un lager?».
Film TV (5/10/1999)
di Enrico Magrelli
Sono passati dodici lunghissimi anni da Full Metal Jacket (1987). Un film straordinario e sconcertante arrivato, fuori tempo, a narrarci dell’orrore della guerra del Vietnam. Un altro orrore e un sotterraneo tremore pulsano nelle oblunghe sequenze dialogate di Eyes Wide Shut. ll desiderio e le fantasie sessuali covano la paura e la morte, la minaccia e la perdita di se stessi o dei propri lineamenti. In maschera a viso scoperto, la geografia dei visi, la profondità dello sguardo, i sorrisi e le lacrime nascondono gli incubi e i fantasmi (come in Shining), le ambizioni e le sconfitte (come in Barry Lyndon), le visioni indecifrabili (come in 2001: Odissea nello spazio), la violenza delle pulsioni (come in Arancia Meccanica). Due divi popolari e moderni, Tom Cruise e Nicole Kidman sono al centro di labirinto di parole, di attese, di stupori improvvisi, di scoperte dolorose. Alice, ex gallerista di Soho, e Bill un medico senza alcuna qualità, presi in ostaggio dalla trama suadente del testo psicanalitico di Arthur Schnitzler, “Doppio sogno” e guardati a vista (insistiti i primi e i primissimi piani, ripetute le scene che quasi sfiorano o evocano il piano-sequenza, una “diretta”, con pochi stacchi, di un set domestico) dagli occhi di Kubrick e dalla sua volontà di raccontare della sessualità, della malattia e dell’ibernazione delle passioni. Argomenti annientati dal cicaleccio torbido di questi anni. L’apparente tema centrale del film, come sempre nella folgorante filmografia kubrichiana, è in ritardo e in anticipo, in una New York natalizia , artificiale e tetra, nonostante le luci colorate e bianchissime, l’inganno e il sogno sono le reciproche necessità di una coppia ordinaria sposata da nove anni, moderatamente infelice e annoiata. La deriva onirica per lei è solo mentale, un’avventura non consumata con un ufficiale della marina, mentre toccherà a lui sfiorare luoghi, corpi, odori, trappole, baci e inganni. Bill, stupefatto si troverà impigliato in un “intrigo emozionale” senza soluzione. Capiterà forse che il sesso è una sciarada, una messa in scena, una cerimonia agghiacciante come certi horror degli anni Cinquanta e Sessanta.
la Repubblica (1/10/1999)
di Irene Bignardi
Adesso che finalmente Eyes Wide Shut arriva sugli schermi italiani, preceduto dalla non caldissima accoglienza Usa e con tutto il contorno di pettegolezzi e leggende – dall’annunciato remake porno (ma sarà vero?) al licenziamento di un illustre critico americano perché sarebbe stato troppo indulgente nel guardare all’ultima opera di Kubrick – sarà il pubblico a decretare dove il film si colloca: se tra i successi, tra i capolavori, o semplicemente (è la teoria del vostro critico) tra i film mancati che tuttavia non si possono mancare – nel senso che ci sono comunque più cose in un film sbagliato di Stanley Kubrick che nel novanta per cento della produzione corrente delle majors. Dopo tante anticipazioni (e sgombrato il campo dalle aspettative più pruriginose innescate dalla martellante campagna pubblicitaria del film, che è invece, rispetto alla produzione corrente, quasi casto), in occasione dell’uscita italiana resta dunque solo da sintetizzare un punto di vista espresso più volte. Dall’America, a luglio, parlavo della mancanza di emozioni e del senso di artificio intellettuale che esce dal film, del visibile tormento che ha segnato la sua costruzione, rimandata da Kubrick per trent’anni, passata attraverso più collaborazioni (da John le Carré a Candia McWilliams, finite nel nulla), e continuata in una tormentata e claustrofobica lavorazione. Dall’inaugurazione veneziana scrivevo di un film impaginato in maniera impeccabile ma frigido, preoccupato della sua forma e (curiosamente, vista la grandezza del regista) intimidito dalla fedeltà alla sua fonte letteraria: e cioè la novella di Schnitzler, “Doppio sogno”, datata Vienna 1926, che Kubrick e il suo sceneggiatore (di scarso talento e fantasia) Fréderic Raphael hanno trasportato pari pari, con due scene aggiunte, nella Manhattan di oggi. Questi trent’anni di attesa e di incertezze hanno fatto sì che noi vediamo oggi, probabilmente, l’ombra e la sofferta quintessenza del film che avrebbe fatto il Kubrick quarantenne con l’adesione al tema (la gelosia coniugale, l’intreccio delle fantasie, l’essenza della passione) che un genio di settant’anni, chiuso nel suo mondo, cristallizzato attorno a un’idea dell’amore e dei turbamenti di coppia che in un contesto contemporaneo appare stranamente invecchiata, ha irrigidito in una poco credibile odissea urbana della frustrazione sessuale. Soprattutto non funziona la “diplomazia coniugale” della coppia Nicole Kidman-Tom Cruise, di cui non si avverte per un solo secondo quell’alchimia profonda o quella passione che sole avrebbero giustificato la presenza di un attore senza finezze e mistero come Tom Cruise in un ruolo così centrale: mentre la bellissima signora Cruise è eccessiva e preziosa come uno Stradivari che suoni su uno sfondo di musica da sintetizzatore. Soprattutto, per una volta la fedeltà non paga. Si parla, in questo caso, non della fedeltà che il dottor Hartford e la sua bella moglie Alice infrangono solo nelle fantasie (lei) e nei desideri (lui), ma della fedeltà al testo letterario. La novella del “freudiano” Schnitzler suona datata e imbalsamata nella traduzione troppo diretta che l’ha trasportata dalla Vienna inizio secolo alla New York di oggi, ricostruita in studio. E il colmo di questa visione così artificiosa è la scena dell’orgia su cui si è scatenata la ridicola censura digitale americana: che non riesce a essere né visionaria né onirica, come nelle pagine di Schnitzler e forse nel progetto di Kubrick, ma sembra un misto di Helmut Newton a colori e del carnevale di Venezia. Ma forse la delusione che si prova di fronte a Eyes Wide Shut dipende soprattutto dalle aspettative. Speravamo che Kubrick se ne andasse lasciandoci un capolavoro – ci lascia un film autunnale, levigato, faticoso, che ci tocca solo perché, dietro, vediamo lo sforzo creativo di un genio.
l’Unità (1/10/1999)
di Alberto Crespi
Meglio esser sinceri: non si sa più cosa scrivere sull’ultimo film di Stanley Kubrick, se non ribadire che è bellissimo, scagliandosi così contro i mulini a vento dei molti critici che, in giro per il mondo, non l’hanno apprezzato. Atteso da 12 anni (precedente film del regista: Full Metal Jacket, 1987), «anticipato» da interminabili e fasulle chiacchiere su Internet, centellinato nelle uscite (prima gli Usa, poi Venezia) e iperlogorato dai media, Eyes Wide Shut è un film-evento che sembra di aver già consumato ancor prima di entrare al cinema. Quando poi, come nel nostro caso, lo si è visto tre volte, verrebbe voglia di dire, solo: andateci anche voi, se lo amate amatelo, se non vi interessa dimenticatelo, e buon pro vi faccia. Invece la voglia di difendere Kubrick contro tutto e tutti, anche contro gli incassi americani (buoni ma non eccezionali), prevale. E si finisce per dire ai detrattori, con il sopracciglio alzato: ne riparliamo fra dieci anni, ok? Vengono alla memoria le assurde recensioni uscite a caldo su 2001 («incomprensibile»), su Arancia meccanica («istigazione alla violenza»), su Barry Lyndon («estetizzante, una galleria di quadri»), su Shining («un horror che non vale il romanzo di Stephen King»). Tutto documentabile, tutto negli archivi, e oggi si tratta di capolavori riconosciuti del Novecento! Vien voglia di urlare al mondo che, a parte 2001, Kubrick non ha mai sfondato il box-office al primo week-end, e che comunque gli artisti non si pesano al chilo (né al dollaro). La conclusione è semplice: Eyes Wide Shut è un film che rimarrà, per cui andateci con calma, e preparatevi a rivederlo, a ripensarlo, perché cresce nel ricordo come tutte le opere di Kubrick. Solo una raccomandazione: non prendetelo alla lettera. Cercate di intravedere nei desideri erotici dei coniugi Harford (Tom Cruise e Nicole Kidman, doppiati nell’edizione italiana da Massimo Popolizio e Gabriella Borri) qualcosa che vada al di là delle pulsioni sessuali di due moderni borghesi newyorkesi. Kubrick non ha voluto fare un film sulla New York anni ’90: con il consueto cannocchiale puntato sul Tempo, si è servito di un racconto di Schnitzler, Doppio sogno, per scavare nel lato oscuro dell’amore. E per scoprirvi un fortissimo senso di morte. Il film è quel che nel Medioevo si sarebbe definito una «danza macabra»: ovvero, uno spettacolo che crea un ponte fra il nostro mondo e quello dei trapassati. Che non sono semplicemente morti, ma sono un universo parallelo che ci scruta, forse ci desidera, di tanto in tanto ci chiama. Questo e non altro è il senso delle seduzioni che Bill e Alice incontrano nel loro cammino, fin dal primo party in casa Ziegler: il nobile ungherese che insidia l’ubriaca Alice, le due modelle che come sirene mettono alla prova la fedeltà coniugale di Bill. Eyes Wide Shut è un percorso a ostacoli fra queste tentazioni, e la battuta chiave è quella finale, di Alice: «Riteniamoci fortunati per essere sopravvissuti». Perché la morte li ha sfiorati in mille modi, e loro sono stati mille volte sul punto di cadere nelle sue braccia: esattamente come Jack Nicholson nella stanza 237 di Shining, o come Slim Pickens a cavallo della bomba nel Dottor Stranamore. Leggere Eyes Wide Shut come una fiaba moderna e adulta consente di apprezzarne la struttura circolare e, qua e là, apparentemente randagia. E di seguire Kubrick nei territori sfavillanti (osservate i colori, e la fotografia; le luci, gli alberi di Natale) della sua fantasia. Là dove le modelle-sirene vogliono portare Tom Cruise, «dove finisce l’arcobaleno»: e come si chiama il negozio dove Bill compra la maschera che sarà il suo lasciapassare per l’orgia (ovvero, per il confine fra la nostra vita e il regno dei morti) e la traccia con cui Alice lo smaschererà? Si chiama Rainbow: appunto, «arcobaleno».
Sole 24 Ore (3/10/1999)
di Roberto Escobar
È trasparente come un sogno a occhi aperti, Eyes Wide Shut (Usa e Gran Bretagna, 1999). Lo é fin dalla prima immagine: di spalle, Alice Harford si lascia scivolar via una morbida vestaglia. Stanley Kubrick dichiara le proprie intenzioni d’autore. Sullo splendido corpo di Nicole Kidman si apre l’occhio del cinema. A questa “apertura” del resto, allude la prima parte del gioco di parole che dà il titolo al film (“shut” chiuso sostituisce “open” nell’espressione “eyes wide open” occhi ben aperti). E’ l’oggetto del desiderio, il corpo nudo di Alice. Meglio: è l’oggetto che evoca il desiderio che fa emergere alla superficie della coscienza, quella di Kubrick e della nostra. E qui, in superficie, il desiderio ci si mostra come se fosse trasparente. Certo, il desiderio non è mai trasparente, non arriva mai davvero alla superficie della coscienza. Piuttosto, ci arriva per così dire in maschera. La sua opacità prende forma assumendo i tratti d’un fantasma, o di più fantasmi. Ora si manifesta come sogno scatenante, ora come incubo e angoscia. Per lo più, anzi, nell’uno e nell’altro modo insieme. Così accade in Eyes Wide Shut. Il desiderio di Alice è evocato e portato in superficie prima da un incontro casuale a una festa e poi da un ricordo lontano. Quella stessa notte, le si ripresenta però come incubo, costringendola nel sonno a un riso che, appena sveglia, diventa pianto. E il marito? Anche per Bill (Tom Cruise) il desiderio ha in serbo quest’esperienza ambigua. Solo che, prima di manifestarsi apertamente come incubo profondo, la sua opacità riesce ad abitare a lungo la superficie della coscienza, leggera e trasparente come un sogno a occhi aperti, appunto. trasparente, ancora è la stessa narrazione. Questa almeno è l’impressionante che si ha in platea. Per quanto le situazioni si facciano man mano straordinarie, tuttavia c’è nelle immagini e nel montaggio una freddezza di sguardo che tiene in secondo piano il mistero. É come se Kubrick tornasse a raccontarci Arancia meccanica (1971), ma eliminandone il pathos. Nell’Alex di quel film si mostrava l’anomalia. L’inferno che era in lui si faceva immagine e suono. Kubrick se ne lasciava coinvolgere, e così ce lo comunicava: come inferno estetizzato. Ora, invece, in Bill – e in Alice – si scorge la normalità, fors’anche la banalità. Solo che, inaspettato, il suo volto è quello stesso d’allora: l’inferno. Raccontandocelo, quel volto, Kubrick evita coinvolgimento e iperbole. Sceglie piuttosto un’estetica della distanza, e in questo senso della trasparenza. D’altra parte, il film è disseminato fin dall’inizio di segnali, di sintomi che inducono in sospetto. La trasparenza narrativa – ci suggeriscono – é della stessa natura di quella del desiderio: è una maschera che dà forma all’opacità e superficie alla profondità. Davvero si può credere che, al contrario del desiderio di Alice, quello di Bill non abiti i sogni e l’immaginario ma si faccia concreta realtà? Nella prima parte del film, Bill viene lusingato da due giovani donne: ti porteremo dove finisce l’arcobaleno, gli promettono. Poi, molte sequenze dopo, sull’insegna d’un negozio di costumi (colmo di suggestioni oniriche) sta scritto “Over the rainbow”. Mascherato, appunto, Bill immagina di poterlo raggiungere, quel luogo introvabile del desiderio. E lo raggiunge. Né potrebbe esser diversamente. Che cosa è l’oggetto del desiderio, se non il luogo che il desiderio si costruisce a propria immagine? Questo ci pare sia la grande villa dell’orgia, con le sue ombre erotiche e i suoi riti oscuri: il luogo dove, per il desiderio di Bill, finisce l’arcobaleno. Che lui per primo ne sia spaventato, ne è una conferma: i nostri fantasmi ci fanno paura proprio solo perché ci somigliano. D’altra parte, per quanto reale possa sembrare la situazione, Bill sta in essa con quel misto spaesante d’estraneità e familiarità, di marginalità e centralità, che é tipica di chi, dormendo sta fuori e dentro, ai margini e al centro del proprio sogno. L’opacità del desiderio finisce dunque per farsi trasparente anche alla banalità di Bill. La sua maschera posata sul letto é lì a rammentarglielo (in Schnitzler la circostanza ha una spiegazione realistica che nel film non è neppure tentata). E Bill, come accade negli altri grandi film di Kubrick, rischia di sprofondare, catturato nel proprio inferno. Tuttavia, suggerita da Alice, ora gli si presenta una via di fuga. Se gli occhi bene aperti ci mostrano l’anomalia su cui stiamo come su un abisso, è saggio chiuderli. Vedendo l’inferno, e poiché lo si vede, si scelga di vivere in superficie. Dunque: non “eyes wide open” ma, più coraggiosamente, “eyes wide shut”. Anche perché, parafrasando e forse “migliorando” il cinismo di Frank Ziegler (Sydney Pollack), la vita continua: fa sempre così, fin quando non lo fa più.
Ciak (1/11/1999)
di Valerio Guslandi
Senile, fallimentare, voyeurista: quante critiche spesso troppo severe per l’ultimo film di Kubrick. Che avrà anche imperfezioni e “difetti” (la spiegazione dell’orgia da parte di Pollack) come certi splendidi tappeti, ma che rimane sempre opera “alta” e stimolante. Ci si aspettava forse altro, ci si è indirizzati per diverso tempo verso un’ipotesi di film quasi a luci rosse che non poteva rientrare nella cifra espressiva del regista. E, come spesso in Kubrick, lo spunto letterario ispiratore (il Doppio sogno di Schnitzler) ha subito, nella sua applicazione sullo schermo, un processo di rielaborazione personale: un “doppio” che si discosta dall’originale e “cresce” all’interno dello spettatore, si insinua sottopelle e genera riflessione. Lo stile di Kubrick, da sempre limpidamente freddo e lucido (la fotografia sgranata e tutta dominanti ocra e blu di Richard Greatrex lo testimonia), riesce a scaldare l’attenzione, mantiene una tensione costante e accompagna lo spettatore, attraverso grandi aperture di cinema, in una favola/incubo affascinante e inquieta. È questo, al di là di tutte le parole che si possono spendere a favore o contro, il segreto successo di un film che ha anche il grande merito di avvicinare un genio del cinema alle giovani generazioni.
il Giornale Nuovo (2/10/1999)
di Maurizio Cabona
Trovare in un nuovo erotismo la gioia smarrita in un vecchio amore è l’ultima illusione della vita, quella alla base di Eyes Wide Shut («Occhi chiusi spalancati») di Stanley Kubrick, uscito dopo tanto, troppo parlarne, con un ingiusto alone semipornografico. Infatti la morbosità giornalistica l’avvolge fin dal 1997. Si elucubrava allora sugli amplessi inscenati da Tom Cruise e Nicole Kidman. Poi il fantasma di Eyes Wide Shut è riapparso nei peana per il Leone d’oro alla carriera del regista e per il suo settantesimo compleanno. Quindi ci sono state le sue necrologie. Infine sono venute le recensioni, per la «prima» mondiale del film; dopo, quelle dalla Mostra di Venezia. Così molti non ne possono più di Eyes Wide Shut, senza averlo visto. E comprensibile, ma sbagliano. La matrice è Doppio sogno di Arthur Schnitzler (Adelphi), un racconto uscito a Vienna nel 1926, un anno prima che Kubrick nascesse a New York da genitori giunti dall’impero asburgico. A farne un film, lui aveva pensato da quarantenne, ma ha potuto girarlo solo da settantenne. Perciò esso risente sia della rabbia dell’adulto (con due divorzi alle spalle), sia dell’equilibrio tardivo di chi aveva trovato la serenità grazie alla terza moglie, Christiane Harlan [nipote del regista tedesco Veit, quello di Suss l’ebreo). Che il merito del film sia da dividere a metà fra Schnitzler e Kubrick lo ammette il cosceneggiatore di Eyes Wide Shut, Frederic Raphael nel libretto Eyes Wide Open (Einaudi), cioè «Occhi aperti spalancati», dove conferma che Kubrick non era il progressista per il quale viene spacciato. Per lui Hitler «aveva avuto ragione quasi su tutto» (pag. 156), opinione insolita per un ebreo, ma coerente col fatto che la moglie Christiane era nell’Hitlerjugend. La Vienna di fine Ottocento di Doppio sogno diventa la New York di oggi (ricostruita negli studios di Londra) di Eyes Wide Shut, dove Kubrick fa svolgere il film. La prima immagine é della Kidman, che lascia cadere un abito da sera, restando nulla; ma subito c’è la dissolvenza e lo schermo resta nero per qualche istante. È il prologo – e il compendio – del desiderio insoddisfatto che attanaglia lei come il marito. Segue la festa natalizia a casa di Sidney Pollack, dove la Kidman viene corteggiata e Cruise anche. Per la coppia è una frustata. Tornati a casa, i due si confrontano, eccitati dall’ala dell’infedeltà che li ha lambiti simultaneamente… I quadri alle pareti sono dipinti da Christiane Harlan in Kubrick; la musica (di Gyorgy Ligeti) è eseguita al piano da Dominic Harlan; gli esterni sono stati scelti da Manuela Harlan; la produzione è di Jan Harlan. Kubrick aveva il senso della famiglia. E dell’autocitazione (da Lolita a Shining). A essere sintetici, questo film resta la fredda malinconia. E la speranza affidata alla Kidman che, per uscire dalla crisi coniugale, propone a Cruise: “Scopiamo”.
L’Unione Sarda (2/10/1999)
di Sergio Naitza
Nicole Kidman si sfila l’abito nero, che è il colore del lutto, resta senza niente addosso, una abbagliante innocente nudità colta di spalle. Incipit malizioso, promette prurigini sexy. Invece no. Questo è un film spiazzante, dove sull’impero della passione s’allungano le ombre della morte. Più Thanatos che Eros. Altra piccola sequenza rivelatrice, a dieci minuti dall’inizio: quella che è diventata anche il trailer. Lei si guarda allo specchio, altro “schermo” che rimanda un senso di doppiezza. Entra in campo lui, nudo. Si avvicina, la accarezza, la bacia. Siamo in una camera da letto, interno familiare. Mura domestiche, il covo dei desideri spesso più inconfessabili e frustrati della coppia. L’inquadratura si stringe fino alla faccia di lei che guarda quasi verso il pubblico. Occhiata e sorriso ambigui. Arrendevoli e spietati insieme. Una carica di indecifrabilità: come una Monna Lisa di fine (o inizio) millennio. È lei che comanda il gioco? Attenzione, l’immagine è quella ripresa sullo specchio: è il tema del doppio che s’annuncia ancora.
L’ultimo (purtroppo) film di Stanley Kubrick sta in questo sguardo quasi negato, nel tentativo di incrociare (sullo schermo) quello del marito Tom Cruise e quello (fuori dallo schermo) della platea. Cosa sta pensando, lei? Cosa stiamo pensando, noi? Cosa cerca il suo/nostro occhio, dove vaga il suo/nostro cervello? Eyes wide shut, ovvero occhi completamente chiusi (il sogno) oppure occhi del tutto spalancati (la realtà). Ogni spettatore può scegliere qual è il significato del bellissimo titolo del film, gioco di parole che apre o chiude i nostri percorsi mentali. Un “Doppio sogno”, come il titolo del romanzo di Arthur Schnitzler al quale Kubrick s’è ispirato, restandone abbastanza fedele. Un libro iniziato nel 1907 e pubblicato nel 1925, ambientato nella Vienna libertina d’anteguerra. Trasposizione forzata, impropria? Forse, ma il romanzo si trova imbevuto d’uno spirito freudiano che serve al film, ma soprattutto mette in campo uomini e donne in lotta con ciò che nessuna legge o morale può ingabbiare: l’immaginazione. Perversa o “corretta” che sia.
Il film cerca di lavorare intorni ai confini fantasia-realtà, è incorniciato quasi tutto in una notte, cioè il momento in cui il sogno si fa motore dei desideri, ci costringe ad un corpo a corpo con la psiche. Kubrick affida a Tom Cruise (il dottor Bill Hartford, Fridolin nel libro) il ruolo di testimone-cavia, vagabondo in una New York ricostruita perfettamente in studio (ecco che torna il binomio vero-falso). Un uomo smarrito, roso dalla gelosia, guidato da una curiosità estrema verso il sesso: ma come la coppia de Il fascino discreto della borghesia (di Buñuel, autore onirico per eccellenza) anche lui è continuamente fermato quando decide di andare a letto con qualcuna. Il vagolare notturno nasce dopo la confessione d’un sogno di lei: lo sguardo d’un ufficiale col quale sarebbe fuggita ad un suo cenno, il pensiero ossessivo di far l’amore con lui.
Siamo dentro le fantasie-gelosie-il non detto di coppia, l’eterno dilemma fedeltà-tradimento. Parte da qui lo scandaglio kubrickiano, viaggio nell’inconscio sessuale. Maschile. Una festa diventa un gioco di trappole per Bill, ogni incontro con una donna (due modelle sfrontate, una prostituta sieropositiva, un’altra che s’immolerà per lui, un’amica che gli giura amore di fronte al padre morto, una ninfetta: tutte doppi di sua moglie) si trasforma in un approccio interruptus, mentre pensa che la consorte lo faccia. È una polverosa fantasia maschile e femminile codificata dall’immaginario borghese, donne nude coi tacchi, uomini con maschere e mantelli che le sottomettono. E siamo già alla sequenza dell’orgia, molto stilizzata e raffinata, dove (al di là delle esplicite citazioni del Casanova felliniano) si manifesta l’idea d’un sesso glaciale, mercificato e meccanico, strumento di potere.
Non si capisce però come Kubrick guardi all’universo femminile, dobbiamo accettare che la raffigurazione della donna sta sempre dentro una logica di madre-puttana: di fronte al tradimento – immaginato – che lei confessa, lui ha come unica reazione quella di perdersi nelle sue ossessioni, di “possedere” un’altra donna per “punire” la moglie, sprofondando in un baratro che s’apre verso la disperazione e la morte (le minacce contro di lui e la famiglia, il possibile contagio di Aids, l’eliminazione fisica di una prostituta). Sarà allora il ritratto brutale d’un uomo fallocentrico imbrigliato nelle sue meschinità? In fondo è la donna che trova, altrettanto brutalmente, la soluzione con una battuta che pare un po’ appiccicata («Non ci resta che fare una cosa sola: scopare») e con la quale si rivendica una (malintesa) libertà femminista. In nome d’una rinforzata unione coniugale, di sesso familiare in un’aurea natalizia. Chissà, forse Eyes wide shut incarna la passività del voyeur di fronte ad una sessualità sempre più esibita e martellante; o forse è una commedia sul disinganno e la paura del desiderio, oppure una prosecuzione di Lolita che era incentrato invece sul desiderio mai appagato. O forse è un mystery film: delitti dell’anima i cui colpevoli sono i nostri sogni. Oppure, a livello popolare, è il divismo d’una coppia anche nella vita (Cruise-Kidman) messa a nudo e data in pasto al gossip della platea.
Ma ogni lettura lascia comunque un senso di tristezza, di sfiducia sulle possibilità dell’essere umano: non c’è mai un briciolo di emozione. Eyes wide shut è un’opera enigmatica che disorienta e disturba, sembra vetusta, sfugge alla catalogazione; crescerà, come tutte quelle di Kubrick, col tempo. Perché con gli occhi chiusi (sognando) si può anche vedere meglio, ma ad occhi aperti si può capire di più.