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CIMINO, KUBRICK E IL GIOCO DELL’IDENTITÀ E DELLA DIFFERENZA – di Guido Barlozzetti

Da Nang è lontana da Montelepre. La storia di Salvatore Giuliano e la guerra del Vietnam non si consumano sotto lo stesso cielo. Ma, forse, le traiettorie della "blindatissima" Full Metal Jacket e la parabola fatale del Siciliano attraversano lo "stesso" cinema.

di Guido Barlozzetti

Da Nang è lontana da Montelepre. La storia di Salvatore Giuliano e la guerra del Vietnam non si consumano sotto lo stesso cielo. Ma, forse, le traiettorie della “blindatissima” Full Metal Jacket e la parabola fatale del Siciliano attraversano lo “stesso” cinema.
E un’ipotesi, ovviamente, tutta da verificare. Con qualche difficoltà, perché intenso è stato il fuoco di sbarramento di una polemica replicante che non ha risparmiato divieti censori, in un caso, e condanne di lesa storicità, nell’altro. E, ancor più, perché un viluppo paradossale di circoli viziosi ha catturato film e autori, fino a vanificare un’eventuale “differenza” nella trappola di un confronto con il “prima”, poco importa se storico o cinematografico.
Michael Cimino, infatti, vede allungarsi subito sul Siciliano l’ombra di Salvatore Giuliano — ma quale? L’autentico re di Montelepre o la versione cucita da Francesco Rosi e indossata da Frank Wolf? — ed è preso — e maltrattato — nel labirinto degli originali presunti, delle copie più o meno autorizzate e delle simulazioni falsificanti. Kubrick, inaspettatamente, frequenta un territorio cinematografico affollato e di moda come quello della “sporca guerra”, sotto le cui mentite spoglie Hollywood ripresenta i suoi generi più tradizionali, dal mèlo al western. Abituato a mettere in scena mondi possibili incontaminati dallo sguardo — lo spazio nero dell’Odissea, il Settecento di Barry Lyndon, Arance meccaniche e beethoveniane… — si addentra in un territorio saldamente presidiato da vittorie perdute, fratelli nella notte, platoon, apocalissi now (e ora giardini di pietra), cacciatori sopravvissuti alla roulette russa di Cimino. Dopo aver fatto irruzione nel salotto di casa col clamore muto e ridondante delle news televisive, il Vietnam è diventato senso comune e buona coscienza, con la benedizione di Oscar, God-Bless-America e Inno dei marines. Cosa aggiungere ancora a questa realtà? Come sfuggirne il pre-giudizio o aggirarne la trasparente densità delle trame?
Sepolti negli armadi della mafia o evocati in platoniche psicoterapie cinematografiche, i vampiri imbalsamati nella Storia (e nella sala buia) sono calati sul Signore delle montagne siciliane e sugli Short-Timers, le reclute a tempo determinato perse nel Vietnam di Kubrick. Ma non sempre nelle mani degli spiriti sta la bussola che orienta sulla mappa del grande schermo. Kubrick e Cimino esorcizzano, ciascuno a suo modo, il regno dei (sensi) morti. Per incontrarsi dove?
Gli aspiranti-marines sono stati appena rapati a zero. Il sergente Hartman comincia la sua interminabile ispezione e il corso per “killer indistrutti­bili”. Un ringhio prolungato fino all’apnea taglia il silenzio della camerata, quando una voce beffarda interrompe il monologo esteriore: «Sei proprio tu John Wayne? E io chi sarei?». È il primo numero di un’imitazione che il soldato Joker tornerà a ripetere più volte. Nella notte di Da Nang: «Come diceva John Wayne, un giorno senza sangue è come un giorno senza sole». O davanti al microfono di una troupe cinematografica, tra i ruderi di Huè, subito seguito dai compagni: «Io faccio il Generale Custer», «Io Ann Margret», «Ma gli indiani chi li fa?», «Tocca ai musi gialli fare gli indiani». Dunque, i marines di Full Metal Jacket sanno bene quale è la parte che il pubblico — e i mass-media — si aspettano da loro: Kubrick manda in campo una macchina da presa per provocare una recita che assume come protagonista il corpo (in questo caso la voce) il nome che al cinema hanno saldato l’uno sull’altro divismo, mitologia western e epica dei berretti verdi. Il cinema classico — quello delle giacche blu, degli sceriffi e degli indiani obbligatoriamente selvaggi e cattivi, raccontati nella parabola che dalla “selva oscura” porta al Giardino della Civiltà — fa capolino per un attimo nella sua dichiarata messa-in-scena, a uso e consumo, addirittura, di una documentazione realistica che si rovescia in lugubre fiction, sorriso artifi­ciale e disperato che si spegne subito nella calce viva delle fosse comuni e nella implacabile catena-di-montaggio dei killer.
In quel buco nero — come nello spazio di 2001 o nel gelo di Shining — implodono senza scampo le Penelopi in attesa dei melodrammi da reduce, il braccio di ferro tra sergenti e reclute di un reggimento di caserme cinematografiche, i muscoli di Rambo e la fede nell’America, nelle frontiere e nei lumi che salvano dalla tenebra. E, insieme con loro, la fabbrica dei sogni. Quella che nel chiuso della redazione di “Stars and Stripes”, organizzata come un efficiente laboratorio di sceneggiature («Noi raccontiamo come vincere la guerra e il lieto fine coi musi gialli»), ricorda al corrispondente Joker: «Vuoi che i nostri lettori siano presi da sensi di colpa? Il nostro dovere è di pubblicare tutto quello che non pubblicano gli inviati civili».
Con la finzione delle Storie, è tutto l’universo della simulazione che svanisce: il discorso simulacrale della psicologia, della morale, della politica e, soprattutto, la rappresentazione orchestrata dai media: «È proprio come una guerra, come me l’ero immaginata», «Noi siamo meglio della cavalleria dell’aria», «Come diceva il presidente Johnson, non intendo inviare giovani americani a 15.000 miglia da casa per fare quello che dovrebbero fare i musi gialli», fino alla conclusione di Joker: «Volevo vedere l’esotico Vietnam… Volevo essere il primo ragazzo del mio paese a fare centro dentro qualcuno». L’orrore di un fuori consegnato sempre più allo struggle for life, si riversa come una vertiginosa ironia sulle illusioni della chiacchiera.
Ben diverso il movimento apparentemente seguito da Il siciliano. Qui tutto sembra alimentare la potenza del mito e il dominio dell’immaginario. Prima che scorrano i titoli di testa, sul cadavere di Giuliano, da cui rivoli di sangue si allungano in una simbolica trasfusione verso la macchina da presa, una voce off — che un carrello indietro scopre appartenere a un reporter — annuncia la morte di un eroe che ha lottato per dare la terra al popolo e ha osato sfidare il potere della mafia. Più tardi, dopo l’assalto a un treno militare, un frame-stop sull’Immagine di Giuliano sul cavallo che s’impenna come quello di Napoleone al S. Bernardo di David, diventa la cover di «Life»: insomma, qui la vita-per-cui-si-combatte non ha a che fare con la sopravvivenza ma con l’immortalità.
L’esibizione forte del meccanismo mitopoietico incornicia ulteriormente il film e ne segnala con un esplicito raddoppiamento di senso il livello strutturalmente mitico della messa in scena. È la vecchia storia del cinema classico americano, che con Cimino esaspera le procedure che presiedono alla produzione del mito, fin quasi all’astrazione di un meta-linguaggio, all’eccesso di un discorso che rimuove il disordine, il brusio, la casualità, le interferenze del mondo e dei fatti, per accedere sempre e comunque al l’esemplarità.
Dai dialoghi al décor, dal taglio delle inquadrature alla scansione narrativa, Il siciliano non si limita a ripristinare le convenzioni dei generi, ma ne estremizza il gioco fin quasi all’insostenibile trasgressione dei bordi della finzione. Non è solo un più di senso che viene ad aggiungersi, ma la pressione di un troppo continuamente al lavoro. In un film in cui tutto è fatale e necessario, unico e tipico, le parole e gli oggetti escono dal contesto abituale in cui si esprime il loro valore d’uso, e si caricano di un potere semantico autonomo che cancella le identità di partenza.
I piccioni che tubano nella cella di Terranova (come quelli di Kubrick in Barry Lyndon…), il sangue del poliziotto colpito da Giuliano, che schizza sul crocifisso della bara, lo spumante che la duchessa di Crotone getta in faccia a Don Masino Croce, le scarpe e l’orologio che il barbiere traditore lascia.al figlio prima di esser e giustiziato, l’ombrello con cui il principe Borsa-si ripara mentre passeggia a cavallo con Giuliano… Una tensione eccessiva pervade le cose di per sé più insignificanti. Rinchiuse nell’enfasi del primo piano; esse accumulano e sprigionano l’energia mitica che si diffonde dai personaggi allo spettatore, fin quasi a travolgerli. E bucano, al tempo stesso, la piatta convenzionalità di qualunque altro racconto. La tazzina che trema nel covo di Giuliano traduce nelle sue vibrazioni il rombo ineluttabile delle moto dei carabinieri e del destino che si approssima. Nella mano di Giuliano che la stringe imperiosamente agisce la resistenza individuale alla progressione di un fato che è anche quello della narrazione. «Ma che hai?»; Giovanna, in lacrime, gli risponde: «Ho una cosa in un occhio» (come già Don Masino, quando sale da Giuliano tra le acclamazioni dei picciotti): nel testo, come nella sala buia, la forza prepotente del desiderio e del cinema cattura lo sguardo e impone alla fiction la realtà debordante dell’immaginario.
Nell’incontro con la duchessa, il boss Croce si trasforma in semiologo o, se si vuole, trasforma l’analisi strutturale del racconto in risorsa produttiva che alimenta la Storia: «Il bandito, la bellissima duchessa americana, la passione. Come è romantico!». La trama infallibile del mito distribuisce i posti e legittima la mise da play-boy di Giuliano come il merletto ordito in carcere da Pisciotta. Manca solo il suggello di un mito vero. Che, infatti, non si lascia attendere. A un carabiniere che gli chiede: «Non ti pare di essere troppo giovane per dichiarare guerra a Roma?» Giuliano sentenzia: «Guarda che alla mia età Alessandro Magno aveva, già conquistato il mondo. Lo sai come lo chiamavano? Il fuoco nel cielo».
Non si tratta di isolate marche testuali, ma piuttosto dei punti più fiammeggianti di un testo che è nella sua totalità una marca, un segnale che continuamente eccede, forza, dilata fino al limite la misura della convenzione. Se John Wayne svanisce nella notte di Full Metal Jacket, portandosi con sé l‘aura mitica della rappresentazione, Alessandro (e Giuliano) conducono il mito sull’orlo — abissale e sublime — del delirio. Freddo e calore. In un caso come nell’altro, Kubrick e Cimino non abitano nelle zone temperate del cinema.
Tutta la prima parte di Full Metal Jacket registra il dispiegarsi ossessivo di un rituale. Nel quadro chiuso della caserma, l’addestramento impartito dal sergente Hartman si scandisce secondo un cerimoniale che non tollera scarti o residui irriducibili.
Come le giornate delle reclute, il film trascorre attraverso le fasi ripetitive di una durata totalmente ritualizzata, dalla sveglia all’alba fino alla ritirata notturna. Hartman, al centro della messa in scena, è il punto di riferimento che assegna i ruoli, scandisce il tempo, modella gesti, movimenti e pensieri. O meglio, un sistema simbolico lo elegge a simulacro significante, incaricato di portare a termine il progetto: «Il fucile e il marine, la più micidiale combinazione del mondo. Ma è solo la volontà di uccidere.ciò su cui dovete concentrarvi. Il fucile è solo uno strumento, è il cuore di pietra che uccide… Il Corpo dei marines non vuole dei robot. Il Corpo dei marines vuole dei killer. Il Corpo dei marines vuole costruire uomini indistruttibili…». Marce, cori, ispezioni… l’addestramento procede implacabile, come la rieducazione di Alex in Arancia meccanica o la vita a bordo della Discovery di Odissea nello spazio, sotto l’occhio vigile di Hal. Ma in un campo di identità, dove le differenze dei ruoli di per sé non generano contraddizione, anzi ne rimuovono perfino la possibilità, il conflitto è in agguato, sulla ‘soglia che separa l’esperienza, l’aleatorietà frammentaria del vissuto dal rito che pur dovrebbe ricondurli all’ordine di un senso.
Il corpo resistente di Gomer Pyle inaugura una storia — contrappuntata dallo sguardo di Joker — che racconta il prezzo di una formazione, l’istinto di morte devastante che sconvolge il cerimoniale dell’iniziazione, il fallimento catastrofico che spiazza la pianificazione dei killer. Con l’uccisione di Hartman e il suicidio di Pyle la storia finisce, cessa l’egemonia del rituale e la coesione ritualizzata del gruppo di marines: da quel momento in poi la traiettoria del film si spezza e lascia via via emergere il fondo istintuale di frammentari comportamenti individuali: la paura, le pulsioni distruttive e omicide di killer disillusi e sbandati. L’alternativa al rito che distilla e purifica — per usare un facile freudismo — l’es nella freddezza di un super-io, è il cortocircuito aberrante di Pyle o l’inferno della sopravvivenza.
Anche nel Siciliano, riti e cerimonie richiamano l’attenzione di Cimino, da sempre sontuoso organizzatore di cerimonie cinematografiche (valgano per tutte; il matrimonio che apre II cacciatore e la chiusura dell’anno accademico di Harvard — con relativo ballo circolare — che introduce a I cancelli del cielo). Svolte del racconto, incontri e separazioni, accordi e rotture accedono alla storia in forme che esibiscono l’essenzialità simbolica di un codice, perché il rito .consente (e amplifica) la comunicazione e mette ordine nello spazio e nel tempo delle relazioni umane.
Così si susseguono abbracci e baciamani, cortei, matrimoni, funerali, pubbliche esecuzioni (con annessa certificazione: «So die who all betray Giuliano»), annunciazioni… Così si spiega il tono oracolare dei dialoghi, con battute che elevano Mario Puzo ad altezze evangeliche. Come quelle che si scambiano il cardinale di Palermo e Giuliano: «Sei andato troppo oltre, tu sei uscito da qualsiasi realtà… Tu sei il figlio di nessuno, forse solo di Dio. Figlio mio, ormai sei arrivato alla fine». «Qualunque cosa sia stato, non sono stato solo un bandito». «Giuliano, abbiamo avuto un solo Salvatore e l’abbiamo crocifisso 2000 anni fa sul Golgota».
A volte interviene anche la mediazione di segni, attraverso cui il rito marca materialmente la continuità dei suoi effetti. Niente di meglio, ad esempio, di un anello per simboleggiare unioni o passaggi di consegne. Una sorta di anulare catena significante percorre tutto il film: dalle mani della duchessa, un anello dalle origini imprecisate (il padre americano o il principe Borsa?) passa in quelle di Giuliano che, alla fine, lo consegna a un bambino con una formula degna del Zapata di Kazan: «Io non me ne andrò mai: Starò sempre qua, da qualche parte, con voi».
Inutile dire che questa cornice rituale si interseca con la progressione narrativa e, in qualche modo, la determina attraverso le fratture che ne turbano la temporalità circolare, il costitutivo ritorno dell identico. Tanto più il rito s’incarica di regolamentare e tende a estendere il suo controllo, tanto più si esasperano i conflitti e le trasgressioni. Il rito è una Legge che può essere infranta, ma non annullata, un ordine sociale immutabile che esalta le sfide e le condanna alla sconfitta. E, così, alle orgogliose rivendicazioni di Giuliano (tangente impazzita rispetto ai cerchi — come li chiama lui — di Don Masino, del principe Borsa e della Chiesa) seguono sempre le smentite di una necessità superiore. «Non c’è fuoco nel cielo di Sicilia» risponde il carabiniere a Giuliano che si paragona ad Alessandro. Fino alla lapide conclusiva del professore Adonis: sulla tomba di Giuliano, Don Masino chiede smarrito: «E ora cosa succederà?» «Niente, non succederà mai niente in Sicilia».
Anche qui, come in Kubrick, con un movimento apparentemente opposto, è la soglia che conta, il limen abbagliante, la fessura accecante («Ho una cosa in un occhio»…), il bordo vertiginoso su cui si consuma il gioco dell’identità e della differenza. Poco importa se in Full Metal Jacket l’approdo è la lucida coscienza di un sopravvissuto nella notte, e in Cimino l’aureola luminosa che circonda la foto dell’eroe con il bianco del marmo della morte.
La carrellata si addice al cinema di Kubrick e di Cimino. Un movimento incessante; sposta l’inquadratura e il punto di vista da cui un occhio guarda. Di chi? Nel recinto della caserma di Full Metal Jacket un travelling instancabile segue le ispezioni del sergente Hartman e le esercitazioni degli allievi. La ritualità delle azioni diventa il sempre-uguale di un davanti/dietro le cui evoluzioni trovano sempre un corpo pieno attorno al quale raccogliersi (il sergente, la massa degli short-timers). In uno spazio-tempo assolutamente regolamentato e perfettamente distribuito, la macchina da presa si muove protetta ed esorcizza eventuali derive nell’evidenza di un centro. Attorno a esso sembra perfino normalizzarsi la potenziale ubiquità del punto di vista. Hartman cammina nella camerata, una carrellata indietro lo riprende frontalmente, fino al momento in cui il sergente si volta, per poi tornare in tempo reale, con uno stacco che non rompe la durata, davanti a lui e anticiparne i passi fino al punto di partenza.
Le variazioni su questo tema corrispondono agli scricchiolii che via via si insinuano nella ritualità dell’addestramento. Allora il quadro dello schermo lascia scorrere il plotone in marcia e scopre Gomer Pyle in mutande, oppure si irrigidisce nel primo piano del volto di Joker o, ancora, di Pyle che sprofonda nella follia con il ghigno del Nicholson di Shining. Altri occhi, altri sguardi tagliano la scena…
Dopo lo sparo nei cessi di Parris Island, le carrellate continuano, ma su di esse incombe, ormai, il labirinto. Le traiettorie della steady-cam rincorrono schegge umane senza meta, rincorse aggrovigliate e casuali di marines alla caccia di un nemico invisibile. Uno sguardo errante vaga in un caotico campo di battaglia. Scatti affannosi, deviazioni improvvise, stop angosciati… attraversati dall’inerzia di primi piani che ritraggono confessioni incapaci di tenersi in un discorso.
Questa oscillazione, indecidibile della rappresentazione fa tutt’uno con quella di un non-senso, non più al riparo di rituali rassicuranti. Al colonnello che gli chiede come mette d’accordo il “born to kill” dell elmetto con il simbolo della pace, Joker replica: «Volevo fare solo riferimento alla dualità dell’essere umano, all’ambiguità dell’uomo. È una teoria jun­ghiana, signore». Mentre, da parte sua, Animai a Rafter Man che dice di combattere per la libertà ribatte: «La libertà? Tira la catena e sciacquati il cervello; macché libertà, questa è strage. Se devo rischiare la pelle per una parola, allora è scopare».
Se, in questa dispersione, un punto di fuga che ricostruisca una prospettiva è possibile, non può che essere un occhio esterno, un ‘alterità assoluta e impenetrabile come il monolito di 2001 o la muta Provvidenza che indirizza l’avventura e il destino di Barry Lyndon. Macchia nera sul bianco del cemento armato dei ruderi di Huè, lo sguardo invisibile del cecchino è il punto di vista in cui falliscono gli sguardi parziali dei soldati. Significante enigmatico come la morte, esteriorità totale, utopia del cinema… il tiratore apre una voragine vertiginosa, sull’orlo della quale i superstiti contemplano la fine. La battuta finale di Joker — mentre i marines camminano in una notte divorata dal fuoco, cantando l’inno del Michey Mouse Club — assomiglia molto al «sono guarito» di Alex che suggella Arancia meccanica: «… sono contento d’essere tutto d’un pezzo. Certo vivo in un mondo di merda, ma sono vivo e non ho più paura».
Lontano dalle peregrinazioni del labirinto di Kubrick, garantito da un mito al quadrato, Il siciliano sembra resistere meglio al movimento insistente che agita lo schermo. Ma anche qui una deriva viene a bucare l’apparente pienezza del quadro, tradendo lo smarrimento del punto di vista. L’inqua­dratura raramente esibisce una statica frontalità, deve piuttosto conquistare la perpendicolarità della scena, con un movimento in genere semicircolare che la mette in asse con Giuliano e Pisciotta che corrono inseguiti dalla polizia; con il flusso rombante delle moto dei carabinieri; con il tavolo dove è adagiato Giuliano ferito… La messa in scena sembra inseguire la certezza di uno sguardo fisso e, tuttavia, pare esserne irrimediabilmente espropriata. Come quando raddoppia il suo occhio, seguendo e anticipando il movimento dei protagonisti: ogni volta che qualcuno si muove, entra nel doppio obiettivo di un davanti/dietro. L’assenza del punto di vista moltiplica gli sguardi e, viceversa, l’insistenza sui travelling e la pluralità delle inquadrature sembra asintoticamente tendere alla totalità di una visione proibita.
Anche qui, dunque, ritorna l’eccesso che percorre il mito, la vibrazione che irrompe nel rituale: il Cinema è il luogo di una visione rincorsa e mai definitivamente attinta, l’utopia che sposta la rappresentazione, lo scacco magnifico e delirante dello sguardo. Solo nei primi piani, come nell’acuto prolungato di un tenore, questo melodramma della visione tocca nell’effimera sospensione dell’istante un punto di equilibrio. Subito travolto nel mare del racconto.
Al principe Borsa è concesso di contemplare con il binocolo l’insieme della scena. Simulacro dello spettatore (e di Cimino) tenta o crede di vedere, ma non è lui chi effettivamente guarda. Il cinema può essere solo un’approssimazione interminabile o la constatazione di una circolarità: il cadavere di Giuliano che apre e chiude II siciliano o un gioco di sguardi in/soddisfatti. Apparentemente appostati agli estremi di coppie antitetiche, il cinema di Kubrick e quello di Cimino sembrano, dunque, condurre verso lo stesso punto di vista.
Laddove il primo si ferma alla gelida osservazione di un grado zero dell’esistenza e smarrisce l’occhio in un labirinto guardato da un altro, Cimino enfatizza il mito e orchestra il tremore di un quadro mai del tutto fisso e coincidente con la scena. Ma, per entrambi, lo schermo è lo spazio di un’energia che lavora per eccessi o per sottrazioni, la pagina bianca continuamente spalancata sulla soglia che separa il reale dall’immaginario. Lo spazio, insomma, dove ascoltare c vedere la differenza al lavoro. E forse, anche, la morte. Da Nang non è lontana da Montelepre.

Bianco & Nero, Gennaio/Marzo 1988, pp. 86-94

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