C’ERA UNA VOLTA UN FUMATORE D’OPPIO
di Stefano Consiglio
«Credevo fosse un’avventura. E invece era la vita… » (J. Conrad)
… Riprendendo questa frase nel corso di un’intervista, Sergio Leone si riferiva al tempo trascorso da quando ebbe l’idea di trarre un film dal libro di Harry Grey A mano armata a quando, finalmente il film è riuscito a farlo: un tempo lunghissimo, più di quindici anni (se è vero, come racconta lo stesso Leone che pensava a Cera una volta in America già prima di Cera una volta il West), un tempo così lungo da trasformare quella che sembrava un’avventura della vita, qual è quella di fare un film, nella vita stessa, spesa dietro in un film.
Ma la frase di Conrad significa anche un’altra cosa, che il film non è la storia di un’avventura, seppure un’avventura mirabolante, parte della quale si svolge in uno dei periodi più eccitanti della storia americana: il periodo del proibizionismo. No, non la storia di un’avventura della, ma la storia di una vita.
Nelle prime interviste date quando ancora il film non era uscito — ma del film si sapeva già qualcosa: la storia era ambientata tra i gangster di estrazione ebraica di cui faceva parte l’autore del libro di memorie cui si era ispirato il film, il cui titolo non si sapeva bene se fosse «C’era una volta in» o «C’era una volta l’» America — in una di quelle prime interviste Leone diceva che il film era la storia di un grande amore e di una grande amicizia, un film sulla nostalgia e sulle memorie, sulla nostalgia e sulla memoria «di un certo tipo di cinema».
Io pensavo fosse un vezzo d’autore definire il film in modi del genere, uno stratagemma, come spesso usano gli autori, per dire due parole sul film senza raccontare nulla, e intanto mi domandavo quale era la vera storia del film. E invece no, non si trattava né di un vezzo né di uno stratagemma, il film è veramente un film sulla nostalgia e sulla memoria: dell’autore e del protagonista del film. Anche se la presenza di un attore con le caratteristiche di Robert De Niro ha obbligato Leone a un maggior realismo (a questo proposito: se, come è stato detto forse un po’ paradossalmente Stromboli Terra di Dio «è un documentario sul volto di Ingrid Bergman», Cera una volta in America, allora, lo è su quello di De Niro): De Niro ha costretto Leone «a fare un pinocchio con un bambino vero», per esprimersi con le parole dello stesso Leone. La qual costrizione se da una parte gli ha tolto quel tipo di «orgasmo» che provano i burattinai, dall’altra gliene ha dato un altro che è proprio dei narratori, che vedono il legno trasformarsi in carne ed ossa e vivere di vita propria. E di vita propria Noodles è dotato talmente tanto da proporsi, con il tacito e ammiccante consenso dell’autore, come il narratore di se stesso.
Il finale del film è esemplare in questo senso: ritroviamo Noodles nella stessa fumeria d’oppio in cui l’avevamo già visto all’inizio del film. Dopo aver aspirato alcune boccate d’oppio — boccate così violente per cui i lineamenti del volto si contraggono dapprima in una smorfia di dolore, per distendersi e dilatarsi subito dopo in un’espressione di languido abbandono, come in un sogno a occhi aperti — Noodles, ripreso dall’alto con un movimento di macchina a stringere sul volto sognante, rivolge un ultimo estatico sorriso direttamente alla macchina da presa (un sorriso, come ha scritto giustamente Oreste De Fornari «destinato a tramandarsi fra i gesti memorabili dell’anti-divismo, assieme agli ammicchi di Belmondo in A bout de soufflé e a Brando che incolla il chewingum sulla ringhiera in Ultimo tango a Parigi»)1.
Guardare in macchina, si sa, è come rivolgersi direttamente allo spettatore, la qual cosa è tra le più proibite da quella che una volta veniva definita la grammatica del cinema, ed è rigorosamente proibita perché svelando il «trucco» della messa in scena (svelando le marche dell’enunciazione, si sarebbe detto una volta) tradisce il principio di trasparenza e verosimiglianza che è alla base dell’impressione di realtà su cui fonda la credenza dello spettatore.
Una tale traumatica rottura (simile in certo qual modo a quella operata da Fellini ne E la nave va quando alla fine del film svela tutto il meccanismo della messa in scena mostrandoci come quella nave che sembrava andare, rollando e beccheggiando per proprio conto, altro non era che un’enorme piattaforma su travi di ferro, capaci di riprodurre il movimento di rollio e beccheggio, in un teatro di posa) quell’inaspettato sguardo in macchina dicevo, ha senso solo in quanto significa che il film che abbiamo appena visto altro non è che il frutto della rêverie di Noodles sotto gli influssi dell’oppio (e dunque, come dicevo prima, il personaggio vive di tale vita propria da permettersi il lusso di raccontarsi da solo… che dietro a tutto ciò ci sia comunque un «autore» è «sottointeso»2, ma questa è un’altra storia).
Solo un fumatore d’oppio, un sognatore a occhi aperti può inventarsi una storia che rispetto alla ‘realtà’ (la realtà del libro di Harry Grey, s’intende!) continua trent’anni dopo gli eventi realmente accaduti (infatti il libro si ferma agli anni ’30 mentre il film arriva agli anni ’60, come ci ricordano le note di Yesterday).
Se il film nasce dalla testa di un oppiomane si capiscono allora i tempi così paradossalmente dilatati: ventidue squilli di telefono prima che qualcuno alzi la cornetta; un cucchiaino rigirato decine di volte in una tazzina da caffè… Ma soprattutto si capisce la struttura di andata e ritorno nel tempo, nel passato e nel futuro… il presente è solo il tempo dell’oppio!
Con l’oppio si sogna seppure a occhi aperti, e in sogno i ricordi e l’avvenire, il prima e il dopo non vengono necessariamente prima e dopo, possono avvenire anche dopo e prima, o addirittura insieme… Come nella sequenza che precede il finale, in cui Noodles ormai vecchio, siamo nel ’68, vede passare due macchine anni ’30 cariche di donne e uomini in abiti d’epoca che festeggiano la fine del proibizionismo! Allo stesso modo ritornando dopo trentacinque anni da un amico ormai fattosi vecchio e consumatosi dietro al bancone di uno Speakeasy sempre più piccolo e sporco (inutile tentare di descrivere questa scena magnifica e commovente, bisogna vederla!), niente di più naturale che rivedere da un buco nel muro del cesso rimasto miracolosamente intatto, il primo e unico amore della propria vita, spiato tantissimi anni prima da quello stesso buco nel cesso mentre, sapendo di essere spiata, si spoglia in mezzo ai sacchi di farina tra i quali aveva ballato fino a qualche attimo, prima al ritmo languido e suadente di Amapola… E quel bianco polveroso che dai sacchi di farina si spande in tutto l’ambiente è lo stesso bianco del trucco della stessa donna amata: Deborah, ritrovata, e ancora una volta spiata, quarant’anni dopo, seduta davanti allo specchio del camerino di un teatro in cui ha recitato Cleopatra, mentre tenta di togliersi quel bianco con tale accanimento e tale lentezza che sembra non dover andar più via, «lasciando temere e sperare al tempo stesso che non si sia pietrificata nella sua giovinezza passata»3… Giovane come quella sera di trent’anni prima quando lei — vestita di bianco — dopo avergli dichiarato il suo amore gli dice che lo deve abbandonare, e allora lui impazzito e impotente la prenderà, per la prima e unica volta nella sua vita, violentandola in macchina… E allora, forse, è per vendetta che Deborah sposerà Max, l’amico fraterno che Noodles aveva creduto morto per colpa sua e che invece, rimasto vivo, oltre che la donna amata da sempre, e per sempre, gli porterà via pure trent’anni di vita… Trent’anni in cui Noodles è andato a letto molto presto (come il narratore della recherche: «Longtemps je me suis couché de bonne heure») e in cui ha pensato al tempo perduto: c’era una volta…! Provando a riraccontare questa storia, anzi questi brandelli di storia, in ordine cronologico, con la mente libera dai fumi d’oppio, non rimane altro che un’avventura… e invece è una vita!
Lo stile del film, questa struttura dettata dalla fantasia di un oppiomane è il soggetto stesso del film: la memoria, una memoria nostalgica. Come è stato notato Leone «parte dal fatto che tutte le storie sono già state raccontate», dunque già vissute ma al modo stesso dell’ouverture di un’opera il cui tema acquisterà il suo senso «nell’attualità di certi avvenimenti, i quali avvenimenti, al tempo stesso, risuoneranno come già vissuti, perché musicalmente anticipati»4. E infatti «c’era una volta» è il modo in cui cominciano tutte le storie, e ci rimanda a tutte le storie che sono state raccontate, alla loro memoria e alla nostalgia che ne serbiamo… che il grande mezzo per raccontare le storie nel nostro secolo sia stato il cinema, e il grande cinema americano in particolare, è troppo noto per doverlo ripetere, però Leone ci costringe a farlo.
Quell’America in cui c’era una volta, infatti, non è tanto l’America — paese reale, che rimane piuttosto sullo sfondo, seppure uno sfondo prepotente (come è prepotente lo sfondo di quell’enorme ponte nella sequenza straordinaria che trascorre dall’ironia alla tragedia allorché i piccoli gangster vestiti da grandi gangster camminano insieme lungo la strada quando improvvisamente vedono il loro nemico con la pistola in pugno e allora quella fuga che il panico vorrebbe rendere precipitosa viene bloccata dalle immagini al rallentatore che ci mostrano il più piccolo di loro colpito a morte cadere sul selciato con quella leggerezza che ha solo il suono del flauto di Zamfir che accompagna la sequenza), non l’America reale, dunque, ma l’America conosciuta e amata attraverso il cinema, il paese in cui «c’era una volta un certo tipo di cinema», sottotitolo ideale del film secondo Leone.
C’era una volta in America è un inno a quel cinema che, essendo anch’esso un oppio (ma di popoli interi), Leone ha fumato con accanimento, con lo stesso accanimento del protagonista del suo film. E con un delirio pari a quello del suo protagonista ha impiegato quindici armi per raccontare in tre ore e quaranta (tempi e lunghezza, da oppiomane accanito) la memoria e la nostalgia per un cinema di cui è uno dei degni eredi.
Note:
1. Cfr. Oreste De Fornari: Tutti i film di Sergio Leone; UBU LIBRI, p. 110.
2. «L’autore sottointeso, non è il narratore, ma piuttosto il principio che ha inventato il narratore insieme a tutto il resto della narrazione», cfr. S. Chatmann: Storia e discorso, Pratiche ad, p. 155.
3. Cfr. M. Chion in «Cahiers du Cinéma», n. 359, p. 12.
4. Ibid., p. 10.
Filmcritica, Anno XXXV, n. 348/349 – Ottobre-Novembre 1984; pp. 447-451