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C’ERA UNA VOLTA IN AMERICA: TUTTI A SOGNARE LO STESSO SOGNO – di Marcello Garofalo [Segnocinema]

Saggio di Marcello Garofalo sull'ultimo film di Sergio Leone, C'era una volta in America. Pubblicato su SegnoCinema, n. 38, maggio 1989.
Noodles (Robert De Niro) takes a long draw on the pipe in the Chinese opium den

In C’era una volta in America successione e irreversibilità: nel tempo

Questo saggio, già composto per la rivista alla morte di Sergio Leo­ne, non vuol essere una comme­morazione ma l’approfondimento di un’opera fondamentale del cine­ma degli anni ’80

di Marcello Garofalo

L’uomo nel mondo potrebbe davvero pensarsi come uscito da un sogno so­gnato anche da lui.
—F. Nietzsche, Das Philosophenbuch.

Il primo film che Leone ricorda di aver amato da ragazzo è L’ora che uccide1. “Nell’ideale naturalistico di ogni rap­presentazione non bisogna tanto sottoli­neare la lontananza della storia, quanto l’autoconsapevolezza dell’artificialità. Ora, questa coscienza si dà appunto come memoria di un passato. Tale me­moria è il substrato mitico dell’opera”2.
Ritrovare la congettura di un passato attraverso una successione di immagini-movimento, le congiunzioni del racconto stesso, del mito, della narrazione indi­pendente dalla descrizione, della visio­ne, dell’ottico puro: è il cinema che af­fronta l’argomento tempo come prota­gonista dei ritorni mnemonici, ricono­scibili, apparentemente sopiti o rimossi, è il cinema che diventa l’argomento di una rappresentazione artificiale consapevole. Del resto proprio questo è stato il significato antico del Kunstwollen ottico quale l’ha messo in luce Riegl: afferma­zione di una prospettiva, di uno scorcio, di una narrazione proprio a partire dall’apparenza, dalla superficie, dall’il­lusorio.
Leone nell’incipit soppresso di C’era una volta in America partiva infatti dal teatro delle ombre, da una visione pri­mordiale, da un luogo antico già destina­to ad una rappresentazione dove il telo­ne prima che da Rama e Ravana veniva oscurato dalle ali di un gigantesco chirottero. Era già lì la sovrapposizione dei due schermi, già lì era l’avvertimento di una visione di visione. E lo schermo di­ventava buio e si delineava il titolo. La circolarità esplicita con il finale riduceva quell’ambiguità generosa ed audace che il film nella sua forma definitiva possie­de. Evidentemente Leone voleva legare ad altro la sua tmesi, depistare il suo let­tore, insegnargli sospetto e diffidenza nei confronti del precostituito: venti mi­nuti distinti dalla quasi assenza dialogi­ca perché fosse chiaro che il protagoni­sta del film non era De Niro ma il tempo che viveva alle sue spalle, il tempo e le sue apparenze di ricerca e di fuga.
Noodles, come noto, compare in una immagine fissa, in una fotografia, in uno spazio ove il tempo già è registrato come su di un nastro magnetico, che riprende il suo movimento non appena il gangster infrange il vetro della simbolica corni­ce3. Ricerca e fuga costanti del tempo e anche del film. Di conseguenza, senza voler minimamente approfondire lo stu­dio dei fenomeni percettivi e cognitivi connessi alla temporalità, ma fermando­si soltanto alle generalizzazioni ricono­sciute “prototipo di ogni periodicità”, è interessante riflettere sulle funzioni che Leone ha individuato come primarie per raccontare la sua esperienza-tempo.
Oltre le idee kantiane e bergsoniane del tempo come forma a priori della sen­sibilità e come flusso di durata, sono la ricerca (volere interno rivolto ad una qualsivoglia e continua forma di cono­scenza raggiungibile mediante il costi­tuirsi fenomenico degli eventi) e la fuga (volere esterno teso ad allontanare tutti i motivi non oggettivabili della psiche) a definirsi come funzioni primarie di questa globale esperienza-tempo.
Il contenuto della temporalità diventa in Leone come in Freud l’oggetto della dinamica profonda del Desiderio, il qua­le appare “più forte dell’Aiòn in quanto apparentemente capace di modellarlo a suo piacimento, in aperta sfida anche a quelle che sembrano essere le leggi ine­sorabili della natura”4.
Noodles nel teatro cinese ricerca se stesso, i gun-men ricercano lui: in una sala buia in cui si sta tutti insieme davan­ti all’oggetto d’amore (Amami, io ti amo – R. Barthes), tutti a sognare lo stesso so­gno, la scena (come acutamente Irene Bignardi ebbe modo di sottolineare in occasione di una tavola rotonda sul film) può anche chiudersi con il set5 ed instau­rare un eccezionale, inusitato setting psicoanalitico ove soggetto ed oggetto della passione sono per la prima volta compresenti. Si assiste così ad una rap­presentazione, anzi ad una re-présentation (che può significare “rappresentazione”, ma ancne “ri-presentazione”) durante la quale c’è una sorta di attesa passiva (“guardare e non toccare” dirà poi esplicitamente Peggy al Noodles ra­gazzo) dell’avvenire che sembra autogenerarsi da una reviviscenza dell’io, da una sonorità, da un sibilo capace di materializzare un rimorso così come un ri­cordo.
Tutto ciò che è fisico sembra parados­salmente irrealizzarsi. L’amore del pro­tagonista per Deborah è totale (soprat­tutto fisico) e allora non può esistere (Noodles difatti potrà ottenerlo solo con la violenza) e persino i gangster nella platea del teatro cercheranno di ostaco­lare la sessualità degli spettatori (la can­na della pistola sfiora il seno della Karlatos e posizioni erotiche sono rappresen­tate sulle tende ornamentali per accen­tuare quella mimesi tra l’osservare e l’agire), il loro privato, il loro sogno, la loro visione; la fumeria d’oppio (molto semplice come caverna platonica) è l’avamposto di un luogo dove la fuga di­venta una doppia necessità per il prota­gonista. O fuggire realmente dalla ven­detta della Combinazione da una porta laterale o fuggire eticamente dalla co­scienza di un gravissimo senso di colpa, dalla certezza di non poter vivere quel dolore. “Riappese il ricevitore e tornò nel fumoir, nella sua mente si erano improv­visamente chiariti molti punti che gli erano finora rimasti oscuri. Tutto un mondo gotico crollava.” E. Waugh, A Handful of Dust.
Leone ha voluto entrambe le fughe ed è riuscito seguendo la concezione elleni­ca del tempo (svolgersi ciclico e non ret­tilineo) a rappresentarle ed a farle coesi­stere cinematograficamente. La sua scrittura è la mdp ed egli colloquia con il tempo attraverso il suo mezzo: il dolly di­scende sulla cabina telefonica, sul volto di Noodles, penetra all’interno del Fat Moe’s e così il regista racconta, in silen­zio, trentacinque anni di vita, dimo­strando anche con la meccanicità che il tempo è il personaggio, il suo personag­gio. “Ora è il tempo dell’oscura ritirata da droghe, desiderio… Questa non è l’ul­tima occasione. Sarò giovane ancora.” J. Wieners, You Talk of Going, but don’t Even Have a Suitcase. I getti continui di vapore che inondano la sequenza di que­sto muto colloquio hanno valore di indi­zio; quel fumo probabilmente non pro­viene soltanto dai tombini della strada di New York ma pur sempre dall’opium den del teatro delle ombre.
La interpretazione per la quale anche Leone propende è che tutto il futuro di Noodles non è mai esistito perché Noodles non è mai uscito dal 1933. Quelle gra­duali rivelazioni, quelle continue opportunità di rivalsa sono troppo sovradi­mensionate per costituire una verità. Leone d’altronde è sempre stato un narratore di inganni. A lui non interessa stabilire un’identità essenziale del tempo, ma piuttosto che la profondità dello spa­zio sia un tutt’uno con “l’allegoria della profondità del tempo”6. Il viaggio di Noodles comporta un biglietto di sola andata (Buffalo: oneway) ed è un viaggio che gli sguardi di De Niro magistrali continui indecifrabili perplessi già alla sta­zione di Coney Island decidono come fa­tale. È un vedere nel senso del verbo francese regarder, salvaguardare, la­sciarsi avvicinare da ciò che si guarda, nel caso di specie da una serie di conflit­tualità allegoriche. Persino il volto del clown sull’affresco della porta del tempo (il gigantesco murale è l’assemblaggio di tre diversi dipinti di Reginald Marsh) è semi-coperto da un velo analogo a quello che filtrerà la visione ultima di De Niro nella fumeria d’oppio e la prima imma­gine che lo spettatore vedrà di Noodles anziano è un riflesso allo specchio, un’immagine di conseguenza non vera.
E come è possibile credere ancora che il Sessanta sia una realtà nel racconto di Leone? “Tutta la giovinezza è già andata a morire in capo al mondo nel silenzio di verità. E dove andare altrove, vi chiedo, quando non s’ha più in sé la somma suf­ficiente di delirio?” F. Celine, Voyage au bout de la nuit. Una tale contestualità di metafore è intanto possibile, in quanto il tempo leoniano si è spogliato delle sue prerogative squisitamente temporali (successione, irreversibilità) per assu­mere qualità propriamente spaziali. Per il semplice fatto di non costituire una di­mensione reale dell’esperienza umana, il tempo vissuto non può assolutamente darsi indipendentemente dallo spazio, soprattutto se questo è uno spazio cine­matografico/mentale. La narrazione deve proseguire il suo iter e non è agevole sottrarre ad essa la successione dei fatti o l’irreversibilità degli accadimenti. I flash-back in C’era una volta in Ameri­ca non sono ricordi, ma quasi “flussi d’incoscienza” o premonizioni e se alcu­ni “antefatti” (nella ipotesi della non suc­cessione cronologica) sono stati oltremodo sperimentati ed in qualche caso notoriamente vittoriosi (per tutti ovviamente Citizen Kane e Sunset Boulevard) si può ben dire che mai si era tentata cinematograficamente la sottrazione della irreversibilità degli avvenimenti. Era questa la sfida di Leone: mostrare che la prerogativa temporale dell’irreversibili­tà poteva anche essere infranta.
Il tempo nella concezione leoniana è rovesciabile, artificiale, aperto, duttile alla volontà del soggetto: Noodles vuole rivedere Deborah, vuole che il figlio del suo amico porti il suo nome, vuole che in quella valigia non ci siano giornali, che Max non sia morto e che gli offra il con­fronto definitivo (“It’s g: 32 Uncle; and I’ve got nothing left to lose”). Il tempo na­sce qui dall’attività stessa dell’uomo che “si sforza di ricostruire i cambiamenti a cui inevitabilmente partecipa”7. Il regi­sta di Per un pugno di dollari aveva pro­prio capito che questo era il tempo che poteva essere rappresentato, rendersi visibile, essere percepito ed esperito come una delle dimensioni dello spazio, che veniva quindi complessivamente a coincidere con la stessa estensione dell’esistenza: il ricordo è comunque esi­stere, l’immaginare è già vivere, il futuro è già una memoria nel tempo stesso in cui viene pensato (non è un caso che al Fat Moe’s la prima porta dei ricordi sia murata)8; il primo tentativo di raggiun­gere la temporalità fallisce anche se Moe ricarica la pendola con la chiave riporta­ta da Noodles perché l’esperienza di Noodles è unisoggettiva, privata. Solo in solitudine la luce della feritoia può espandersi.
“Rimestando i ricordi, ci si domanda­va che cosa poteva ancora esistere di tut­to quello… che s’era visto insieme… Ci si domandava ciò che aveva potuto diven­tare Molly, la nostra cara Molly…” F. Céline, Voyage au bout de la nuit. Si com­prende anche perché il libro che Leone avrebbe voluto tradurre in film è il Voya­ge di Celine. La visione americana (“L’Amérique n’est ni un rêve ni une réalité; c’est une hyper-réalité parce que c’est une utopie vecue dès le début comme déjà réalisée”, J. Baudrillard) di Leone/De Niro cerca di spingersi al di sopra dell’esistenza dove le componenti del vissuto non sono più assunte dentro lo schema opposizionale, linearmente an­titetico, di autenticità temporale (o interiorità) e inautenticità temporale (o este­riorità).
Detto schema, a partire da Agostino (non in tempore sed cum tempore incepit creatio) ha permeato di sé l’intera esperienza dell’Occidente moderno e le componenti del vissuto ora, d’intesa an­che con i “fautori” della cosiddetta “tem­poralità omogenea”, possono essere im­plicate come reagenti nel motivo di un’unica rappresentazione spazio-temporale. In essa le forme trascendentali dello spazio e del tempo sono coinvolte in un medesimo movimento destinale, dove una stessa frase ripetuta può favo­rire il ritorno circolare di un’ossessione tanto forte da materializzare un vastissimo programma di illusioni: “Don’t ever say that to me, Noodles. Don’t ever say that again!”.
Utopia. Menzogne. Frantumazioni di verità affettive. Pascal ha ragione quan­do afferma che se ogni notte tacessimo lo stesso sogno ne saremmo altrettanto presi quanto dalle cose che ogni giorno vediamo. Noodles deve inverare le sue certezze affettive, d’amore e d’amicizia perché è subentrato in lui il pathos della veridicità. Esso non ha nulla a che vede­re con la logica: enuncia unicamente che non ci si rende colpevoli di alcuna illusio­ne consapevole. Ma nel linguaggio e nella filosofia quelle illusioni sono all’inizio inconsce e molto da portare alla coscien­za: la conoscenza che egli desidera non c’è “perché la conoscenza assoluta è incondizionata, è volontà conoscitiva sen­za conoscenza”9. Curiosità. “Si tratta per l’uomo di liberarsi, in un certo qual modo, dal cambiamento che lo trascina con sé (nel caso di Noodles è la convin­zione di un rimorso ritenuto permanen­te), conservando grazie alla memoria la disponibilità del passato e conquistando anticipatamente l’avvenire grazie alla previsione.
Questa presa di possesso del tempo è essenzialmente un’opera individuale, segnata da tutto ciò che determina la personalità, l’età, l’ambiente, il tempe­ramento, l’esperienza”10. Così scriveva Fraisse sottolineando il carattere creati­vo di tale processo, relazionale, rischio­so, suscettibile pertanto anche di ingan­no, di tradimento. Ma è chiaro che quest’idea del tradimento ha maggior­mente echi letterari: Aragon per esem­pio che parla di un “mentire vero” (Max ama con verità il suo amico), oppure Drieu La Rochelle che nel romanzo I cani di paglia fa esporre al protagonista una vera dottrina del tradimento molto vici­na a ciò che Leone crede (“L’amicizia è la faccia pari del tradimento, esattamente come il tradimento è la faccia dispari dell’amicizia, e ogni racconto epico ne partecipa fino in fondo”)11. “Ma non importa. C’era tempo per avere rimorso”, esattamente come nella Linea d’ombra di Conrad. “L’orizzonte in arrivo impo­neva fretta. Il sogno di una vita doveva realizzarsi”12.
Così Leone dall’alto di un camera-elevator sulla spiaggia di St. Petersburg de­cide: l’orizzonte e il modo in cui ci si può comportare in relazione alle tre dimen­sioni del tempo: il passato, il presente, il futuro. È in quel momento che (per me) con Max, con Noodles, egli ha deciso che l’America non poteva esistere e che paradossalmente anche il suo film, essen­done la negazione, era l’ultimo c’era una volta raccontabile, costruito sulla prerogativa della irreversibilità distrutta, sul­le incitations che rinviano incessante­mente a ciò che non è più o non è ancora: “il presente delle cose passate, il presen­te delle cose presenti, il presente delle cose future” (Agostino, Le Confessioni).
Così si motiva anche quel suo sorriso ineffabile mentre Woods si agita alle sue spalle13. Vede un luccichio.
È la Lichtung (non radura o slargo, chiarore che si apre in mezzo all’oscuri­tà) il luogo, il viale in cui Noodles si trova al di fuori della villa (la leggerezza il si­lenzio il carattere sacro, il luogo da cui partono i sentieri le risposte provviso­rie). Dopo quanto detto anche il suicidio di Max è una risposta provvisoria, una forzatura della volontà se il camion tritarifiuti è vuoto e se trita soltanto verdura. Max si era già allontanato da giovane su di un carro di eloquenti masserizie ed ora offre al suo amico, nella bugiarda temporalità dell’oppio, un’ultima anàiresis per spingerlo finalmente all’eroi­smo della verbalità: “Is this your way of getting revenge?” – “It’s just the way I see things”. Il duello è solo dialettico. Si sente Summertime in sottofondo, ma Noodles non se ne avvede, neanche accorgendosi della “grande truffa” (Ghezzi) che è il cinema, l’apparire quando si crede di vivere.
Heidegger14 considera la Lichtung il punto focale cui giunge la propria medi­tazione, senza nascondersi “la difficoltà” di dire cosa essa precisamente sia. Un ritorno. Il ritorno stesso di quel programma di periodiche illusioni (God bless America è di nuovo la cifra: dai ti­toli di testa impressi e cadenzati su dei silenzi e su di una superficie obbligato­riamente oscura il tema musicale di Irving Berlin ritorna pianissimo, sale e svanisce parallelamente allo svanire delle automobili d’epoca sul viale di villa Bailey…) comporta “un’impertinenza metaforica”, poiché è nel medesimo tempo una partenza, un risalire verso il futuro, un tornare indietro dove già sia­mo15. Un ribadire. Un processo inarre­stabile in cui di volta in volta qualcosa per forza si annulla o si rimaschera. An­cora una volta (ormai è chiaro: ciclica­mente) De Niro torna indietro dove già è16 per sognare il futuro del suo desiderio (il cinema tout court), rivivere con la sola volontà un nuovo incontro con la fi­gura del suo Amore, con le sue memorie che neanche l’età, neanche la curiosità può distruggere (“Age can wither me, Noodles. W’re both old. The only things left are some memories. If you go to that party, you’ll lose those, too”). Una verità in ogni caso non verrà persa, resiste, è quella nell’identità con l’arte. “L’arte tratta l’apparenza in quanto apparenza. mira quindi a non ingannare, è vera'”17.
Ma filosofare stanca! E da qualche parte si dovrà ricominciare a vivere. E dopo cinque anni le cose non sono cam­biate più di tanto. E allora perché conti­nuare a negare ciò che si vede? Negare un qualcosa di perfettamente visibile, le­gato forse alla natura passionale, pulsi-va, all’istinto genesico, come Leone cer­cò di fare tempo fa commentando alcune prove di stampa, l’immagine della tenda nella fumeria (Quest’atto sessuale non si vede proprio!). Fingere di voler vedere meglio, regarder (per ischerzo) per ricostruire ancora una volta, persino in ri­tardo, la messinscena dell’apparizione-sparizione.
La prodezza sta nel negare per esauri­mento del segno anche l’evidenza nella speranza (?) ai denudare ex novo, tenta­re di sapere, di conoscere l’origine e la fine, se e vero come Barthes ritorna ad affermare nel Piacere del testo che ogni racconto (ogni svelamento della verità) è una messinscena del Padre (assente, na­scosto, ipostatizzato). Considerazione questa tanto più appropriata se si vaglia la definizione ricorrente, lo scopo estre­mo della tmesi (fonte del piacere) leoniana: ciò che egli riconosce come Verità Vera. Non la Verità, ma la Verità Vera, il “è questo”. Impossibile. Quel sorriso ac­catasta tutti i deliri e li congela: esso è ciò che il regista per esclusione, solo per esclusione delle altre traiettorie, descrive come immagine finale. Verità Vera/Allitterazione Rafforzativa perché doppia­mente irraggiungibile. Il “è questo” forse è proprio “la immagine da cui si è esclu­si”. Occorre sopportare l’infanzia del pensiero: si balbetta, si borbotta e si è punto e a capo.
Bob/Egli sorride perché accede alla vi­sione senza resti del reale, consapevole che non scorgerà “la cima del particola­re”. Dopo di ciò cosa può esistere? Forse solo un interfotogramma: a scelta una coda nera di trapasso o bianca di resur­rezione. Poiché solo all’apparire del “perturbante” si dileguano gli idoli. Exeunt simulacra.

NOTE

1 Charlie Chan’s Secret, Usa, Fox 1936, Regia di Gordon Wiles con Warner Oland, Rosina Laurence.
2 Cfr. E. Panofsky, La prospettiva come forma simbolica, trad. it. di E. Filippini, Feltrinelli, Milano 1966, pp. 43-50.
3 Cfr. M. Garofalo, C’era una volta in America Photographic Memories, Editalia, Roma 1988, pp. 34-35.
4 Cfr. S. Freud, Al di là del principio del piace­re. Opere, Boringhieri, Torino, vol. IX, p. 210.
5 C’era una volta in America, Op. cit., pp 43-45-60.
6 Cfr. P. Fraisse, Psychologie du temps, P.U.F.. Paris 1967, p. 102.
7 Cfr. P. Fraisse, Op. cit., p. 305.
8 C’era una volta in America, Op. cit., p. 88.
9 Cfr. F. Nietzsche, Il libro del filosofo, Edipo, trad. it. di M. Beer, Savelli, Roma 1978, p. 46.
10 Cfr. P. Fraisse, Op. cit., p. 305.
11 Intervista a Sergio Leone, in Storia illustra­ta del cinema western. Ed. Anthropos, Roma 1985.p. 11.
12 C’era una volta in America, Op. cit., p. 254.
13 C’era una volta in America, Op. cit., p. 313 (foto B).
14 Cfr. P.A. Rovatti, “La declinazione della metafora in Heidegger”, in Filosofia 86, Later­za, Bari 1987, p. 64.
15 Cfr. P.A. Rovatti, Op. cit., p. 66.
16 C’era una volta in America, Op. cit.. p. 294-295.
17 Cfr. F. Nietzsche, Il libro del filosofo, Dall’estate 1873, Su verità e menzogna in tem­po extramorale, trad. it. di M. Beer, Savelli, Roma 1978, p. 89.

Segnocinema, n. 38, maggio 1989, pp. 51-53

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