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Ennio Flaiano: Omaggio a Chaplin

Ho avuto stamane una lettera senza firma. L’anonimo si duole che all’omaggio a Charlie Chaplin, alla Fenice di Venezia, la sera del 3 settembre scorso, non fossero presenti molti registi e autori italiani.

di Ennio Flaiano

La cerimonia. Ho avuto stamane una lettera senza firma. L’anonimo si duole che all’omaggio a Charlie Chaplin, alla Fenice di Venezia, la sera del 3 settembre scorso, non fossero presenti molti registi e autori italiani. Fa qualche nome: De Sica, Antonioni, Rossellini, Zavattini, Ferreri, Rosi, Damiani, lo stesso Fellini; per non parlare dei giovani autori che oggi vanno per la maggiore. E precisa: «La televisione ha trasmesso sì le fasi della cerimonia e un paio di discorsi lunghi mezz’ora l’uno, ma sul video non ho visto nessuno di questi personaggi. Eppure Charlie Chaplin era venuto a Venezia per un estremo saluto ai suoi colleghi italiani. Ha una certa età, le sue condizioni di salute non sono ottime, aveva affrontato un viaggio diffìcile. Vuole spiegarmi per quali ragioni si debbono tante scortesi assenze?».

Caro anonimo, lei non ha guardato bene la televisione. C’erano tutti, eccetto Rossellini che, come lei sa, insegna cinema a Houston, nel Texas. Perché proprio nel Texas? Non lo so. Ma gli altri c’erano tutti. Io ero presente alla cerimonia, posso anche dirle come sono andate le cose. La televisione non ha evidentemente ripreso le scene che sono successe sul palcoscenico prima che si aprisse il sipario. E allora, eccole:

Quando Chaplin apparve dietro le quinte, sostenuto dai suoi accompagnatori, fu subito accolto dall’applauso dei presenti, un centinaio di attori e registi che avevano partecipato alla mostra cinematografica internazionale ed erano lì a ritirare le targhe. Ci fu un attimo di lieta confusione, Chaplin fu fatto sedere tra due quinte, in attesa che cominciasse la cerimonia. Appariva un po’ stanco e frastornato da tanta affettuosa accoglienza. D’altra parte, i vecchi bisogna capirli, si commuovono facilmente. Mai aveva visto tanti registi tutti in una volta. Il primo a farsi avanti fu De Sica. Sorrideva, fece i suoi saluti e poi attaccò, polemicamente: «Maestro, ho avuto varie telefonate in questi ultimi giorni da alcuni giovani contestatori di questa Mostra affinché evitassi di venire a Venezia a porgerle il mio saluto. Ma potevo, anche come membro del comitato di lavoro della Mostra, lasciarmi intimorire? Non avrei fatto la figura di don Abbondio?».

«Who’s don Abbondio?» chiese Charlie Chaplin, incuriosito.

«Don Abbondio» disse De Sica «era un prete che per paura di un capitalista evitò di celebrare il matrimonio tra due proletari. Ma si tratta di una storia antica e troppo lunga e gliela risparmio. Le dico soltanto che da noi don Abbondio è diventato sinonimo di chi non fa il proprio dovere per paura dei potenti, delle associazioni di categoria, o semplicemente per paura di essere considerato out, fuori gioco. E allora, sono volato qui. Perché senza le sue opere molto probabilmente io non avrei fatto le mie». (Applausi). «Non avrei fatto Sciuscià, Ladri di biciclette, Umberto D, che io considero i miei lavori più riusciti. E nemmeno Miracolo a Milano, forse il più chapliniano di tutti. Senza il suo insegnamento… be’, lasciamo stare!». (Applausi). «Dai suoi capolavori ho cercato di trarre faticosamente quella lezione di umorismo, di pietà, di vita che mi hanno dato una fama forse non meritata». (Voci: «No, no, meritatissima»). «Noi tutti, caro maestro,» e qui De Sica fece un gesto circolare «usciamo dalla sua celebre bombetta, come gli autori russi dell’Ottocento dicevano di uscire tutti dal Cappotto di Gogol. Usciamo dalla sua bombetta come da quella del prestigiatore escono colombi e conigli. Grazie maestro, grazie!».

Troppo commosso, De Sica cavò di tasca un vasto fazzoletto e si asciugò gli occhi.

Placati gli applausi, si fece avanti Antonioni che disse: «Io sono completamente destituito di umorismo e semmai a lei, Chaplin, preferisco Buster Keaton, che è più di moda tra gli intellettuali. Tuttavia non posso dimenticare che lei ha fatto un film antinazista, Il dittatore,» (applausi) «e un film antiamericano, Un re a New York. In un certo senso sono nella sua linea e sono qui per questo, e a riconoscere in lei un grande maestro della comunicabilità». Altri applausi. Subito dopo prese la parola Zavattini, con quella lieve esitazione che fa il suo charme.

«Caro, ma sì diciamolo pure, caro Charlot! Mi permette, vero? di chiamarla col nome del suo personaggio più popolare?». (Applausi). «Caro, dunque, Charlot, che devo dirle? Al contrario del mio amico Antonioni, io ho molto umorismo». (Applausi, risate). «Pensi che ho scoperto la mia vocazione di scrittore andando al cinema a vedere i suoi film! Ho cominciato nel cinema con un soggetto, Darò un milione, che lei non avrebbe sdegnato del tutto. E i miei libri? Non posso rileggerli senza pensare a lei. Lei ci ha insegnato a parlare tanto di sé, che i poveri sono matti, che Totò è buono». (Applausi). «Vede, noi italiani siamo un gran popolo, inventiamo poco ma sappiamo utilizzare bene le invenzioni degli altri». (Risate cordiali). «Prima che apparisse Charlot sui nostri schermi, pensi, i nostri attori comici erano Cretinetti e Polidor». (Mormorii: «È vero, è vero!»). «Adesso abbiamo soltanto attori comici, soprattutto quelli che non sanno di esserlo. Subito, con lei, abbiamo afferrato l’essenza del comico, anzi lo specifico comico, usando le sue superbe armi del ritmo, del balletto, dell’anticlimax e dell’understatement, parole che non so assolutamente che cosa significhino ma che trovo belle». (Applausi). «Certo, io sono stato più bravo di lei, perché ho messo un po’ di ideologia di sinistra nei miei soggetti, mentre lei, anche con Tempi moderni, è rimasto fermo alla protesta individuale. Non importa, onestamente debbo confessarle che senza di lei io oggi sarei uno scrittore qualunque o, come del resto ho sempre desiderato, un coltivatore diretto della Valle Padana. E ora mi permetta un piccolo, pic-co-lis-si-mo omaggio alla sua persona. Voglio baciarle la mano, come farei con mio padre, ecco!».

Charlie Chaplin era commosso, anzi stravolto, perché tutti intanto si stavano precipitando a baciargli la mano. Si udì una gentile voce: «Ma così lo uccidete!». Era Fellini, che si fece avanti e disse:

«Io, maestro, mi chiamo Fellini. Che posso aggiungere? Senza di lei non sarei scappato da casa a diciott’anni, non avrei fatto il disegnatore o lo scrittore umoristico, non avrei “guardato” la vita. Da lei ho appreso la lezione della libertà e ho imparato a guardare l’uomo a tutto tondo, dandone le malinconie canine, i soprassalti di coscienza, la disperazione, la grande abiezione e anche le sgangherate speranze. Io non posso rivedere un suo film senza piangere. L’ho anche scritto. Ma piangere di felicità compiuta. In omaggio a lei ho fatto I clowns». (Applausi). «Stamane stavo a Roma, occupato alla preparazione del mio prossimo film: ho mandato tutto all’aria, non il film, gli appuntamenti, una ventina, e sono venuto qui a baciare anch’io la mano al mio maestro».

Si figuri lei gli applausi. Chaplin tendeva la sua esile mano lentigginosa al bacio degli autori, un po’ protestando, mentre sul suo volto di cera rosa calavano due lagrime. E qui, tra la sorpresa generale, perché lo credevano all’anti-festival, venne avanti Marco Ferreri. Si fece un silenzio solenne.

«Io» disse Ferreri «non volevo venire. Mi sono intrufolato qui all’ultimo momento. Ho pensato che trascurando l’omaggio alla sua persona avrei in un certo senso smentito le mie opere. Il mio secondo film, El cochecito, un film che potrebbe essere una sua comica della Vitagraph, e il cui titolo ho messo come nome al mio yacht, è suo: glielo dedico». (Applausi). «Anche El pisito potrebbe essere suo. Non parliamo de L’Ape regina, che io considero il minuscolo rovescio della medaglia di Monsieur Verdoux. Da lei ho appreso una certa “cattiveria” positiva e intelligente. C’è solo un punto che ci divide: lei ama la donna, nei suoi film la fa partecipe e motrice del destino dell’uomo; io, non so perché, sono invece misogino. Ma a parte ciò, un critico del 2000, se le mie opere arriveranno a questo traguardo, non esiterà a citarmi, magari col nome sbagliato,» (risate cordiali) «tra uno dei suoi più fedeli ed estrosi epigoni».

Tutti applaudirono. Ferreri continuò: «Guardi del resto come mi sono fatto crescere la barba! Non sembro un personaggio delle sue comiche minori? Ora mi accorgo che l’ho fatta crescere inconsciamente, ma questo non toglie valore alla mia ammirazione, anzi la esalta». Ci fu una pausa punteggiata di «bravo» e di risate. Riprese: «Ho portato con me i compagni contestatari. Li ho convinti che l’arte, quando concerne il destino dell’uomo, non ha confini politici, tende a uno scopo comune, che è quello della verità. È che lei, maestro, deve essere onorato anche da chi la pensa diversamente dagli organizzatori di questo deprecabile festival. Le presento i miei compagni colleghi. Non sto a fargliene i nomi, si tratta di personaggi minori che fanno del loro meglio per raccontare le cose che sono sui giornali. Io li chiamo autori-rotocalco. Servono per aumentare la produzione e la confusione. Fanno anche film polizieschi, Caroselli o riduzioni di romanzi. Nel cinema c’è posto anche per loro, il cinema è una grande mamma, ho detto mamma, non manna». (Risate).

A questo punto il maestro delle cerimonie fece cenno che era venuto il momento di cominciare. Il ministro Badini Confalonieri avanzò a sua volta verso Chaplin e disse: «Dopo l’omaggio resole dagli autori, aggiungo il mio personale e reputo inutile leggere il discorso che avevo preparato. Del resto è abbastanza noioso, lo terrò alla Camera. Non perdiamo altro tempo, cominciamo».

Ognuno prese il suo posto sul palcoscenico e si aprì il sipario. La consegna delle targhe ai partecipanti fu sbrigata in un lampo. Dopo, la signora Vittoria Leone attraversò la platea per andare incontro a Chaplin, che nel frattempo si era levato in piedi e si asciugava gli occhi. Scoppiò un uragano di applausi. Per qualche minuto non si sentirono altro che applausi. Due giornaliste mondane, che erano in platea, alla fine si alzarono ostentatamente per uscire dalla sala e una disse: «Quanti onori a questo vecchiaccio». Una signora udì, gridò loro dietro: «Str…», il resto si perse nelle ovazioni del pubblico.

Ecco, caro anonimo, come sono andate le cose. Se le camere televisive non hanno registrato la presenza sul palcoscenico degli autori che ho nominato, i motivi possono essere due. Primo: gli apparecchi televisivi non hanno ancora raggiunto la perfezione desiderabile. Secondo: gli autori italiani non hanno ancora raggiunto una sufficiente eleganza. Infatti, l’unico assente giustificato, Luchino Visconti, aveva almeno inviato un telegramma.

Potrebbe esserci infine un terzo motivo: tutta la scena descritta è solo un parto della mia immaginazione e ogni riferimento a fatti e persone è puramente casuale. Come avrei voluto l’omaggio a Chaplin e come invece non è stato. Però, caro anonimo, non se la prenda, succede di molto peggio.

Corriere della Sera, 10 settembre 1972

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