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Il padrino

Recensione di Liborio Termine per "Cinema Nuovo". Mi sono chiesto qual è la ragione per cui questo film mediocre, ovvio e prevedibile a ogni sequenza, che non delucida né innova contenuti e forme vecchie e risapute, ottenga un così stupefacente successo di pubblico.

Mi sono chiesto qual è la ragione per cui questo film mediocre, ovvio e prevedibile a ogni sequenza, che non delucida né innova contenuti e forme vecchie e risapute, ottenga un così stupefacente successo di pubblico. Mi scuseranno i lettori, quindi, se, nel tentativo di spiegarmi quella ragione, esaminerò solo strutture e motivi che stanno in apparenza a monte del film ma che poi, inevitabilmente, finiscono per essere parti essenziali e decidere del film stesso. L’argomento è la mafia (che ancor oggi occupa largamente la cronaca) ed è svolto sul filo di una biografia. Questo impianto mi pare abbastanza significativo perché, in certa misura, eccentrico nel significato letterale: è noto, infatti, che la maggior parte degli interventi e testimonianze sul nostro tempo e i suoi problemi hanno assunto, sia nel cinema e sia nella letteratura, forma autobiografica. Ora la biografia ha almeno questi
vantaggi sull’autobiografia: essa conclude “destini” là dove quella li dissolve; concatena la casualità e la tramuta in razionalità che da quella è frantumata in un gioco di probabilità “improbabili”; pone gli eventi sotto il segno certo di una decisione e li rende controllabili, mentre in quella ci si fa decidere dagli eventi; mette quindi l’esistenza individuale sotto il segno della storia che quella sembra dissolvere nel magma di un presente, se non proprio quotidianità cioè cronaca.

In certo senso possiamo dire che l’autobiografia ci attesta, per usare parole di Freud, che l’uomo, gravemente minacciato nella sua stessa identità umana, ha bisogno di una “consolazione”, e la biografia la concede in quanto strappa, nel suo cerchio definito, al mondo e alla vita i loro terrori. Essa funziona, quindi, come una cifra di certezza. E con questo preciso significato — niente di più che una scaltrita tecnica — è stata assunta nel film. La mafia, sappiamo, nella cronaca quotidiana viene presentata, in un succedersi di sequenze estremamente frastagliate, come il Fatto di cui si perde nel vago la causa e pertanto imprevedibile resta l’effetto e il suo accadere
futuro, ponendosi così in quello spazio, neutro e minaccioso, che, come il Destino o il Mistero, non è controllabile né tanto meno può essere dominato: una nuova fonte di terrore. Ciò assume, senza dubbio, i caratteri di un emblema: perché oggi l’uomo è impotente non solo nei riguardi della mafia ma a decidere del suo proprio destino umano né, nel tempo del capitale monopolistico, sa più con l’esattezza di un tempo dove ricercare e ribaltare le leve del potere decisionale.

Il film, attraverso la scelta del registro biografico, sembra far uscire l’evento mafioso dalla fluttuante incertezza della cronaca e dà appunto allo spettatore l’illusione di poter recuperare la capacità del giudizio e del dominio sugli eventi. Gli uomini, per Freud, se vogliono poter valutare i contenuti del loro presente, che vivono in modo “ingenuo”, debbono distanziarsene: il presente deve essere divenuto passato, perché possano trarne punti fermi in base a cui giudicare il futuro. Diversamente: la cronaca deve farsi passato; cioè nella cronaca occorre segnare un intervallo di riflessione, storicizzarla. E questo esattamente è quanto si fa nel film; solo che — e non è davvero poca cosa — invece di ritagliare nella cronaca uno spazio in cui ripensarla, quello spazio serve all’autore per riproporre la cronaca con i falsi modi della storia; cosa che, espressa nella forma della biografia, dà l’impressione che si sia operato davvero un salto appunto dalla cronaca alla storia.

In questa dimensione, infatti, ciò che prima di entrare nel cinema appariva ed era indominabile, adesso viene interamente dominato perché compreso nel suo dispiegarsi di causa ed effetto. Ciò equivale, nella reazione dello spettatore, a una specie di esorcismo e produce una sorta di liberazione; e non mi stupisce che in alcune città, anche italiane, quando i mafiosi ammazzano, il pubblico applaude, perché quell’applauso ha tutta la forza di un “Finalmente!” gridato da chi ha compreso l’evento e più non lo teme, una “scarica” che è anche giusto avvenga nel momento di maggiore tensione e di maggiore barbarie e che abbia i caratteri della tensione e della barbarie. La massa, infatti, come ha visto la psicoanalisi, «può venir eccitata solo da stimoli eccessivi» e «non tollera alcun indugio fra il proprio desiderio e il compimento di ciò che desidera»; in essa «tutte le inibizioni individuali scompaiono e tutti gli istinti inumani, crudeli, distruttivi, che nel singolo sonnecchiano quali relitti di tempi primordiali, si ridestano e aspirano al libero soddisfacimento pulsionale».

Ma questa liberazione e questo risarcimento sono tuttavia illusori perché, abbiamo detto, non la cronaca è storicizzata, ma è essa stessa riproposta con i falsi modi della storia: modi che restano puramente tecnici in quanto la materia non viene aggredita nella sua intima essenza ma sfugge per la tangente biografica che appare come il maggiore elemento di mistificazione: il film, infatti, ha un solo epicentro, il Padrino, e lo “spazio storico” è tutto racchiuso in quei reperti del più triviale folclorismo che in questa misura è, a un tempo, negazione della storia e matrice certa della sottocultura.

Liborio Termine

Cinema Nuovo, novembre-dicembre 1972

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