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Girolimoni, il mostro di Roma

Recensione di Franco Alberto Gabriele e Giancarlo Guerra per "Cinema Nuovo".

Regia: Damiano Damiani; sceneggiatura: Damiano Damiani, Fulvio Gicca Palli; fotografia (colore Spes-E. Catalucci): Marcello Gatti; montaggio: Nino Baragli; musica: Riz Ortolani; trucco di Mussolini: Otello Fava; interpreti: Nino Manfredi (Girolimoni), Luciano Catenacci (Mussolini), Mario Carotenuto (il vetturino), Annamaria Pescatori, Guido Leontini, Orso Maria Guerrini, Gianna Marelli, Claudio Nicastro, Gabriele Lavia, Umberto Raho; produzione: Dino De Laurentiis (Italia, 1972); distribuzione: Ceiad Columbia.

Lo schema di fondo del film appartiene per intero al filone della commedia “politica” all’italiana: uno schema nel quale, come si sa, un piccolo-borghese particolarmente onesto, e quindi visceralmente avverso ai “mostri” che si aggirano nella nostra società, decide di affrontarli da solo, ovviamente soccombendo nella nobile quanto impari lotta. Nel nostro caso i mostri sono due, e Damiani li ha collocati al centro del suo film, inserendo la storia di Girolimoni nella storia del rapporto fra due diverse ma complementari inciviltà: quella della “massa” e quella del fascismo. Che di mostri, e non di concrete forze storiche si tratti, sta intanto a dimostrarlo l’ambiguità, abbastanza sospetta, delle loro connotazioni sociologiche. Quanto alla “massa”, Damiani trascorre allegramente dalla piccola borghesia più disagiata alla classe operaia, fino all’immancabile sottoproletariato romano, passando però per zone del tutto vaghe e imprecisate. Quanto poi al regime fascista, esso — nella peggior tradizione liberaleggiante — viene identificato con gli elementi più vistosi del suo apparato, mentre le potenti forze storiche che ne determinano l’ascesa e la conquista del potere sono state rimosse.

Comunque, sull’incontro-scontro fra queste due mitiche e tenebrose entità collettive Damiani ha impostato tutto il film, al punto che le uniche sequenze realmente avvertite dalla sua sensibilità (e, purtroppo, da quella dello spettatore) sono proprio quelle in cui, utilizzando una tecnica rozza ma efficace, egli ci mette di fronte alla violenza, ugualmente bestiale e mitomane, della “massa” e dei fascisti. Non è un caso che, all’inizio, Damiani abbia accostato in triplice parallelismo il vetturino linciato dalla furia scatenata della plebe, il delitto dello psicopatico e l’attentatore anarchico massacrato dalla “vindice e travolgente furia” delle camicie nere: perché per noi la cifra sostanzialmente qualunquista del film è proprio nell’equivalenza stabilita fra il mostro plebeo e quello fascista, mentre lo psicopatico mette l’accento sulla natura irresistibile degli impulsi che spingono l’uno e l’altro a uccidere le loro vittime.

Non solo: l’ordine — anche questo, crediamo, non casuale — in cui gli eventi sono introdotti nel campo visivo dello spettatore ribadisce un altro mito qualunquistico, quello per cui prima viene la violenza “popolare” e poi quella fascista. Rovesciando i nessi causali reali, Damiano Damiani afferma implicitamente che l’inciviltà del “popolo italiano” fu l’ovvia premessa dell’autoritarismo fascista. Alla folla che, dopo l’ennesimo delitto del mostro, grida ai poliziotti cosa ci stia ancora a fare il fascismo, risponde subito dopo il duce nella perentoria allocuzione rivolta ai suoi sgherri: gli italiani non vogliono la libertà, vogliono la sicurezza e il fascismo ha ragione di esistere solo se e in quanto gliela sa garantire.

Nel film, comunque, la “massa” è proprio come il piccolo-borghese se la immagina: sporca, violenta e brutale, oscillante sempre (e si veda a questo riguardo il personaggio della madre dello psicopatico) fra amore animalesco della famiglia e odio mitomaniaco del prossimo. La stessa logica qualunquista semplifica poi rozzamente la realtà del fascismo, che — come dicevamo prima — viene colta soltanto nei suoi aspetti più clamorosamente rituali (alla plebe che ospita e protegge il mostro, corrisponde, in perfetta simmetria, la massa dei miliziani che sostiene e acclama il duce). Ed è infine significativo che l’apparato del regime mostri i suoi rappresentanti più odiosi ai gradini più bassi, dove si scatenano la furia fanatica e l’arrivismo volgare degli homines novi, e che il disprezzo e l’ira dello spettatore vengano orientati contro i fascisti in una misura che è inversamente proporzionale all’importanza della carica occupata. Nell’apparato fascista raffigurato da Damiani, insomma, gli inferiori sono per definizione più malvagi e corrotti dei superiori diretti.

Ne deriva l’immagine di un sistema che può essere distrutto solo dall’esterno (l’inserto documentario dei bombardamenti e, subito dopo, la finestra chiusa di Palazzo Venezia), mentre dall’interno può essere soltanto giudicato moralisticamente. Di qui l’inconsistenza di tutti i personaggi che nel film a quel sistema vorrebbero in qualche modo opporsi (l’ “onesto” commissario, il giornalista “indipendente”, il giovane anarchico), e la centralità di Girolimoni, a cui Damiani ha appunto affidato il compito di esprimere la coscienza morale offesa. Perché, mentre per tutto il primo tempo lo spettatore viene spinto a identificarsi con un personaggio che, tutto sommato, appartiene pur sempre al nefasto cliché della commedia all’italana, nel secondo tempo la simpatia del pubblico viene sollecitata su un piano diverso, che — nelle intenzioni di Damiani — dovrebbe segnare il passaggio dall’ambito del costume a quello ideologico e politico.

A ben guardare, infatti, la seconda parte del film rivela la presenza di un medesimo schema ossessivamente ripetuto: schiacciato da due antagonisti che gli sono superiori sul piano dei rapporti di forza, il nostro eroe li affronta con successo sul piano verbale, e riesce così a trasformare una lunga serie di sconfitte pratiche in altrettante vittorie morali. E gli antagonisti sono, inutile ripeterlo, i mostri dell’inizio, mentre è significativo che, della piccola borghesia, gli autori cerchino disperatamente di separare i lati negativi da quelli positivi, celebrando questi nella figura di Girolimoni e relegando quelli in una posizione del tutto secondaria.

È vero che, dopo la sua scarcerazione, il protagonista sembra reagire all’isolamento cui la “massa” e il regime lo hanno condannato: ma anche qui si tratta pur sempre di tentativi che, nell’aperta esaltazione della rinunzia come segno della più alta coscienza morale, esprimono una volontà sostanzialmente autodistruttiva (si veda per tutti l’episodio della bambina prima rapita e poi restituita).

Franco Alberto Gabriele e Giancarlo Guerra

Cinema Nuovo, novembre-dicembre 1972

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