Corriere della Sera
Tullio Kezich
(…) 12 Monkeys, diretto da Terry Gilliam di Brazil, nasce da un’ineccepibile radice intellettuale, il cortometraggio La Jetée di Chris Marker (1964), una riflessione a cavallo di passato e futuro con un personaggio che viaggia nel tempo. Qui è Willis, che rapato a zero esibisce “il più bel cranio del mondo” (la definizione è del regista), a venir rispedito indietro dal 2035 per scoprire come un malefico virus distrusse quasi tutta la razza umana salvando gli animali. (..) Nelle oltre due ore del film ci sono anche altri, certo troppi, episodi secondari, basti dire che l’intrepido Willis va perfino a beccarsi una pallottola in una trincea della prima guerra mondiale. Ma se non gli chiediamo rigore e plausibilità, Terry Gilliam rimane un cineasta che sa venire incontro alle nostre brame di fantastiche inquietudini.
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la Repubblica
Irene Bignardi
(…) Il problema del film non sta semplicemente nella sua dimensione – che pure fa perdere i contorni di una storia dalla perfetta struttura geometrica per farne un monumento barocco – , quanto in un faticoso e affannoso passaggio tra i suoi diversi tempi, che gli sceneggiatori David Peoples e Janet Peoples non riescono a orchestrare con sufficiente evidenza. (…) Se il senso di tutta la storia è quello del celebre apologo dell’appuntamento con la morte a Samarra ( non si può sfuggire al tempo e al destino), Terry Gilliam la complica e la amplifica, facendo fare al suo eroe (sempre più stupito e senza espressione) approdi sbagliati nel tempo, affiancandogli una poco credibile psichiatra (Madeleine Stowe, che in mezzo a tutto questo dramma non dimentica di rinfrescarsi il rossetto) e speziando tutto con ingredienti da mystery apocalittico, compresa la ricerca di una squilibrato (Brad Pitt, terribile) la cui passione animalistica potrebbe essere all’origine della ecatombe. È l’eccesso a disturbare, in 12 Monkeys, che alleggerito della sua inutile frenesia – e dei suoi interpreti – poteva essere un grande film. Così è un insuccesso di lusso.
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l’Unità
Alberto Crespi
Mettiamola così: 12 scimmie è il seguito di Philadelphia. Perché il futuro malato inventato da Terry Gilliam si svolge lì, “nella città dell’amore fraterno”. Perché si immagina che nel 2035 la Terra sia quasi disabitata a causa di un terribile morbo che ha ucciso il 99 per cento degli uomini, riconsegnando il pianeta agli animali (ogni allusione all’aids è puramente voluta) E perché come il film di Jonathan Demme terminava con i filmini di Tom Hanks da bambino, così quello di Gilliam si apre e si chiude con gli occhi spalancati di un bimbo. È solo un flash, ma dovrete tentare di non dimenticarvelo, mentre vedrete il film: perché L’esercito delle 12 scimmie, scava scava, è l’odissea di un uomo che deve giungere ad accettare il fatto di aver assistito alla propria morte, e se anche questa non è una metafora sull’aids dateci tranquillamente dei visionari. (…) 12 scimmie è politicamente scorrettisimo, perché racconta di animalisti impazziti e di scienziati che spargono allegramente germi mortali per il mondo. Insomma, con Gilliam la fantascienza dà il meglio di sé, trasformandosi in un racconto morale, e ancora una volta – come nel Re pescatore – il tema vero, sommerso, è l’elaborazione della memoria, l’accettazione di se stessi. (…) 12 scimmie parte in modo folgorante e finisce altrettanto alla grande, mentre ha qualche difetto nella pancia. Diciamo che Gilliam sfodera la sua prodigiosa fantasia scenografica solo a tratti, dove raggiunge veramente i vertici di Brazil. Altrove sonnecchia un po’, ma rimane il fatto che 12 scimmie è di gran lunga il miglior film americano arrivato al festival.
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il Manifesto
Roberto Silvestri
Cos’è il suspense? Il movimento di passaggio tra una cosa che non può essere e un qualcosa che non deve avvenire. Il movente del politico Bruce Willis di questo capolavoro del cinema puzzle è l’eroe pazzo, il morto vivente inascoltato, che cammina tra una umanità già condannata che non si rende conto di nulla. È l’artista colpito dalla segnaletica segreta delle cose, oscure ai più. La chiamano schizofrenia patologica. Lo internano. Siamo nel 1990. Ma Bruce, cioè James Cole, come Terminator viene dal futuro, dal 2035 che ci ha ridotti tutti a vegetare in un sistema di canalizzazione sotterranea. Anzi solo il 10% degli abitanti del pianeta, i sopravvissuti a un micidiale virus. Spedito indietro nel tempo per capire cos’è successo cercherà, con due alleati, la sua psichiatra per bene Kathryn Railly (Medeleine Stowe) e un altro matto all’ultimo stadio, il ricchissimo Jeffrey Goines (Brad Pitt, in una perfetta imitazione della maniera di James Dean), di fermare la storia. Partendo da Filadelfia. Si può, si deve. I gruppi animalista e verdi del mondo ci stanno provando. E sarà bene ricordare che tutto ebbe origine nel 15-18, in quel conflitto che eliminò dieci milioni di persone, l’equivalente di 100 stadi di Wembley tutti pieni zeppi. E dove si sperimentarono armi batteriologiche e gas nervini. Ed è sotto gli occhi di tutti in che stato abbiamo lasciato sopravvissuti e eredi. Specie nei paesi dove furono costretti, istigati, a sperimentare prima del tempo l’antidoto comunismo. Ancora non perfezionato… 12 scimmie si affianca alle opere più leggiadre di Boughedir, Edward Yang e Sonnenfeld, come un film palpabile.
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Sette
Paolo Mereghetti
Apologo apocalittico sul destino che ci stiamo preparando con le nostre stesse mani, il film di Gilliam (e degli sceneggiatori David e Janet Peoples) nasce da un cortometraggio di Marker del 1963, La Jetée: in entrambi i film un uomo viaggia dal futuro al passato alla ricerca di qualcosa che attutisca gli effetti delle catastrofi che hanno finito per distruggere quasi tutta l’umanità (in Marker una guerra atomica, nel Gilliam del dopo crollo del muro un’epidemia) ma anche ossessionato dall’incomprensibile visione di una donna che vede uccidere un uomo. Ma quello che nel film di Marker – fatto quasi solo di foto fisse – era lasciato all’immaginazione, qui è affidato alla fantasia pirotecnica di Gilliam. Con effetti duplici: se il 2035 con cui si apre il film è straordinariamente suggestivo, a metà prigione e a metà clinica, perfetta concretizzazione dei nostri incubi più neri, il presente in cui è spedito un attonito Bruce Willis è piuttosto scontato, specie di istituzione totale come sarebbe piaciuta a Foucault il cui vero segno distintivo è la decrepitezza e il disfacimento di tutto e di tutti, uomini e cose. Necessariamente schematico nelle sue valenze intellettuali (i salti nel tempo, l’incubo ricorrente della morte), il film prende forza immaginifica solo a momenti alterni, svelando che Gilliam è più interessato ai nostri incubi futuri che a quelli presenti. Antimodernista.
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Film TV
Carlo Bizio
Un uomo dice di essere venuto dal futuro, un mondo devastato da un’epidemia virale che ha costretto i pochi sopravvissuti ad abbandonare la superficie terrestre e vivere una tragica esistenza sotterranea. È tornato indietro con la macchina del tempo per cercare qualche indizio sul virus e salvare il salvabile. Ovviamente viene subito rinchiuso in un ospedale psichiatrico. Ma se dicesse la verità? L’esercito delle dodici scimmie va avanti e indietro tra presente e futuro, tra follia, sogno e realtà: un thriller d’azione e allucinazione. Nelle mai di un regista visionario come Terry Gilliam (Brazil, Il Barone di Munchausen), niente è ordinario. Una premessa che poteva scadere nel commerciale (il thriller futuristico apocalittico), rimane in bilico fra arte e intrattenimento. Un film angoscioso e intrigante che in America, dove è uscito a Natale, ha riscosso molto successo e incassato 60 milioni di dollari. Perfino Bruce Willis e Brad Pitt si rivelano attori se non proprio d’avanguardia, sicuramente al di là della cassetta. Willis nel ruolo di James Cole, lo sventurato protagonista venuto dal futuro, e Pitt in quello di Jeffrey Goines, uno schizofrenico maniacale (è stato candidato all’Oscar per questa parte, e ha vinto un Golden Globe) che Cole incontra in manicomio: un folle che potrebbe aver causato l’eruzione del virus letale, capo di un sedicente gruppo di ambientalisti fanatici chiamato “L’esercito delle dodici scimmie”.
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Ciak
Piera Detassis
La jetée di Chris Marker, mediometraggio del 1962, cui si ispira il film di Terry Gilliam, era un perfetto esempio di fantascienza raffreddata. Naturalmente L’esercito delle 12 scimmie non poteva che risultare l’opposto: complesso e sovraccarico, stilisticamente sovreccitato com’è nello stile del regista di Brazil. Eppure molto al di sotto delle virtuosistiche capacità di Gilliam. La storia: dal 2035, il galeotto Bruce Willis, viene rispedito nel 1990 e poi nel 1996 per scoprire e bloccare il virus che ha distrutto l’ambiente, costringendo i superstiti a rifugiarsi nelle viscere della terra. Trattato come un pazzo visionario incontra un fondamentalista dell’ambiente (il guru dell’esercito delle 12 scimmie), il folle e nevrotico Brad Pitt e la bella psichiatra Madeleine Stowe. E tra andirivieni temporali e complicazioni in flash back qualcosa succede. Sceneggiatura macchinosa, con “ritorno al futuro” già molto visto (compresa l’insistita esibizione nuda di Willis, mutuata da Terminator e Demolition Man) e risaputo. Stavolta Gilliam il visionario – forse imbarazzato dal budget hollywoodiano, trenta milioni di di dollari – investe più sulla scenografia che sugli spunti registici abbaglianti. E ci regala un catalogo di novecento architettonico devastato, corroso e decadente, quella polverosa archeologia industriale che fa parte del suo cinema, ma che qui diventa solo maniera. Brad Pitt è insostenibile: la recitazione, tutta ispirata al “metodo”, gli è valsa la nomination all’Oscar e il riscatto dal ruolo di solo-bello. Ma il biondo Brad non è carismatico come poteva essere Brando.
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Duel
Gianni Canova
Solo apparentemente, L’esercito delle 12 scimmie è – dopo Strange Days e Seven – il terzo film “apocalittico” di quest’anno. Solo apparentemente, perché in realtà Gilliam non sembra interessato alla “fine del mondo” né dal punto di vista politico-militante, né a livello estetico, né tantomeno in chiave di mercato. Intanto qui non c’è nessuna paranoia dell'”altro”, né il disgusto del presente, che si avvertono in Seven. E neppure lo slancio solidaristico contro la disgregazione, che propone Strange Days. Qui la paura è alle spalle, non di fronte. E non esiste alcuna ideale soluzione di compromesso. Solo un impossibile sogno di fuga. L’apocalisse è già stata introiettata. Si sa già cos’è. È qualcosa che sta alla base della stessa natura umana. Come la morte che già comincia a rodere il corpo nell’attimo stesso in cui nasce. Poi in Gilliam una tale istanza tematica sembra molto più antica e complessa. Il regista americano in effetti lega fin dall’inizio il gusto di una messa in scena visionaria e barocca (anche se il termine “barocco” rende più conto della ridondanza scenografica che dell’inclinazione estetica, improntata invece a un’originale rielaborazione di suggestioni fantastiche provenienti dall’illustrazione, dalla pittura e dal fumetto) ai soggetti della peste, del medioevo, dei viaggi nel tempo, dei voli liberatori e, in ultima analisi, del “senso della vita”. Quello che invece si può identificare come nuovo è il fatto che in quest’ultimo film viene meno quella stupefazione derisoria e goliardica, a metà fra la trasgressione infantile e le ragioni dell’anarchia, che accompagnava i suoi primi film, sulla scorta dell’esperienza Monthy Python di cui Gilliam è stato membro attivo, in qualità di attore, scrittore e regista. Così quell’umorismo lunare, quella composizione fiammeggiante dell’immagine (con suggestioni che vanno da Bosch a Magritte), che erano in larga misura presenti in film come Brazil (1985), Le avventure del Barone di Munchausen (1988), La leggenda del re pescatore (1991), qui si ritrovano appena accennati, quasi mortificati e ridotti all’essenziale, in una rappresentazione oscura e incombente, la cui tenue luce invernale basta appena a distinguere il giorno e la notte. (…) Alla base di L’esercito delle 12 scimmie c’è il cortometraggio La jetée girato da Chris Marker nel 1962. Da quei fotogrammi fissi, che in Marker indicavano una sorte ormai raggiunta e irreversibile dell’umanità (la fotografia è in sé un viaggio nel tempo: mentale ed emotivo), Gilliam trae una storia che riproduce il caos dinamico dell’universo, il suo attorcigliarsi su se stesso, alla maniera di Sisifo, ripercorrendo sempre gli stessi cammini, facendo instancabilmente coincidere ogni fine e ogni inizio. Seguendo il ritmo strabico e visionario della Storia (andare avanti, guardandosi indietro), egli sembra ripetere in continuazione: sarai quello che sei stato. Da questa perseverante ossessione prende forma l’idea del mondo come incubo e la ricerca di una chiave per decifrarlo. È lo stesso impeto che portò al peccato originale e alla cacciata dal Paradiso: il non voler accettare il disordine inspiegabile della realtà, il volerlo piegare al proprio sogno “creatore”. Quello di Gilliam è dunque lo stupore primordiale del feto, diviso fra la paura-curiosità dell’ignoto e il desiderio di tornare alla quiete protetta del ventre. È da qui che escono le impossibili fantasie allegoriche del regista e dei suoi eroi, i loro impulsi di fuga, le loro aspirazioni a costruire spazi di libertà. È così che i loro destini si sovrappongono e i personaggi si passano il testimone. È così che James Cole diventa quel cavaliere del Santo Graal tanto invocato nella Leggenda del re pescatore e ritrova l’attimo perduto in cui la vita e la morte coincidono. Alla fine l’individuo cede sempre alla sua energia vitale a favore di tutto. Solo facendo coincidere l'”illuminazione” con la salvezza del mondo (la conoscenza è un sacrificio), egli potrà trovare ragione in sé. In interiore hominis sta veritas.
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Sole 24 Ore
Roberto Escobar
Puntando il dito sui cerchi disegnati dai secoli nel tronco di un grande albero, Madeleine/Judy tenta di “localizzare” il tempo della sua vita precedente: così faceva Kim Novak in Vertigo (La donna che visse due volte, 1958). E così torna a fare in L’esercito delle 12 scimmie, di nuovo inquietandoci. Come nel film di Alfred Hitchcock, anche in questo di Terry Gilliam l’occhio e la mente sono indotti a smarrirsi. La “vertigine” non è più quella del perturbante, del rimosso che torna come doppio. L’esercito delle 12 scimmie esplode e deborda almeno quanto Vertigo stava all’interno della (cattiva) coscienza del protagonista. Anch’esso tuttavia è un continuo, reciproco rimando del prima e del poi, un susseguirsi di cerchi in cui tentiamo di “localizzare” il presente di James Cole, finendo forse per avere dubbi sul nostro. Dal 2035 al 1996, dal 1996 al 2035… Dove conduce il viaggio nel tempo? Dove sta il punto di fuga dallo smarrimento del cerchio alla certezza della linea? C’è da qualche parte un futuro che sia futuro e un passato che sia passato? All’inizio del film si direbbe di sì. L’oggi narrativo è il (nostro) futuro, lo ieri narrativo è il (nostro) presente: così tentiamo di “dominare” il succedersi della narrazione (nell’espressione succedersi c’è già l’idea che una narrazione stia e debba stare su una linea). Il viaggio nel tempo di James si sembra un po’ quello tradizionale della fantascienza: che si fugga dall’oggi verso lo ieri o che all’oggi si voglia tornare dal domani, il riferimento resta comunque il presente. Gilliam invece complica la questione seguendo l’idea originale d’un film francese del ’62, La Jetée di Chris Marker (pseudonimo di Christian François Bouche-Villeneuve). In quel vecchio cortometraggio l’umanità è quasi distrutta da un’esplosione atomica (le angosce del presente di ieri non hanno in comune molto con quelle del presente di oggi, a parte il fatto d’essere angosce). Il protagonista, testimone da bambino d’un omicidio all’areoporto d’Orly, viene mandato indietro nel tempo, finendo per trovarsi nella stessa situazione di James. I 28 minuti di Marker, dunque sono dilatati da Gilliam, la sua storia esplode e, soprattutto, la sua staticità si trasforma in una dinamicità iperbolica. (La Jetée era un montaggio di immagini fisse, con una sola sequenza in movimento). Per l’universo chiuso e totalitario del 2035 Gilliam torna al cinema di Brazil (1985): il tragico e grottesco si sovrappongono, annichilendo l’individuo, deformandone la via in un gigantesco effetto grandangolo. È questo il futuro che ci attende? Di certo, è questo il futuro che la fantascienza ci anticipa. E noi proviamo uno strano sollievo, involontariamente autoironico, nell’idea che la nostra epoca stia sull’orlo dell’abisso (nel film, una donna parla con l'”untore”; il mondo è agli sgoccioli, dice; ma poi, candida, aggiunge di lavorare «nel ramo assicurazioni»). E il mondo del 1996? Gilliam ne descrive la complessità, ossia ne descrive l’esperienza che, su per giù, tutti ne abbiamo. È questa complessità che, nella fantascienza, viene elaborata ed espulsa nel futuro. Lo stesso James, che pure viene dal 2035, dalla catastrofe realizzata, nel 1996 reagisce alla complessità – al fatto d’essere individuo, impotente di fronte alla “macchina” del dominio, o anche solo dell’entropia, che nega ogni illusione di durata – augurandosi che l’umanità s’estingua. È questo un cerchio, uno dei tanti di L’esercito delle 12 scimmie: l’angoscia del presente si sublima nella paura del futuro, e questa stessa paura viene invocata come rimedio dell’angoscia che la produce. Ora, non siamo più tanto sicuri del “succedersi” della narrazione. Davvero James Cole viene dal futuro? Non sarà, invece, che dal presente fugge verso il futuro? Oppure è, quel futuro, nient’altro che la descrizione di questo presente? D’altra parte, muore davvero? E quando? Come può morire, se vede se stesso morire? Nel 1996 ha 8 anni o 47? In ogni caso, nel 1996 ha di fronte a sé altri 39 anni prima di morire. Ma allora saremo, di nuovo, nel 1996. Così, dovranno passare ancora 39 lunghi anni, prima che James sia qui, a prendersi una pallottola nei polmoni. Nel frattempo, James sarà necessariamente vivo. Nel cerchio del tempo non riusciamo più a “localizzarci” univocamente. Indecisi come eravamo fra passato e futuro, ora ci troviamo nella paradossale eternità del frattempo. Questo è l’effetto dell’esplosione visionaria orchestrata da Gilliam: sentiamo la precarietà non del futuro, e neppure del passato, me proprio del presente, e per questo ne sentiamo la bellezza. Un sospetto, anzi una speranza: forse, è solo il frattempo che ci appartiene. Forse – come James e Kathryn, alla fine – faremmo bene a tentare di viverlo appassionatamente prima che il futuro ci smentisca.
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il Giornale
Alfio Cantelli
Terrestri all’erta! Se crediamo al regista Terry Gilliam stiamo vivendo l’ultimo periodo di (relativa) tranquillità. Non più tardi del 2035 una epidemia catastrofica potrebbe distruggere gran parte dell’Umanità, con i sopravvissuti ridotti a vegetare sulla terra dominati da un regime tecnologico-dittatoriale. Gli scenziati d’allora sperimenteranno un disperato viaggio a ritroso nel passato per capire chi ha causato la catastrofe, affidando al galeotto Bruce Willis, cranio rasato, tatuato e in calzoncini, la missione poco ambita del viaggio a ritroso nel tempo. “L’esercito delle 12 scimmie” sembra veramente un film di Terry Gilliam, l’autore di “Brazil” e di “Il re pescatore”, nato da un’ineccepibile e poco augurabile radice intellettuale, tradotto in una visionaria riflessione a cavallo di passato e futuro in un mondo futuro malinconico e pessimista, e con molti motivi per venire incontro alle nostre brame di fantastiche inquietudini. L’unico motivo di consolazione riguarda la metamorfosi di Willis, trasformato da feroce criminale nel presente in eroe disinteressato nelle avventure attraverso il tempo. Gli scienziati non sono molto precisi nel proiettarlo nel mondo dove oggi e ieri regnano insieme: riportato nel 1996 l’eroe finisce addirittura in manicomio, dove inizia un rapporto con la psichiatra incuriosita Madeleine Stowe che gli sarà di grande aiuto nella tappa successiva quando, sempre per errore, l’intrepido Willis finisce in una trincea della prima guerra mondiale buscandosi una pallottola, mentre le trovate del film s’intrecciano con gli effetti speciali e con i discorsi pseudo scientifici. La storia mostra i suoi limiti quando si prende “seriamente”, mostrandoci Christopher Plummer nelle vesti di uno scienziato premio Nobel e suo figlio Brad Pitt a capo di un gruppo malefico di untori che, salvando gli animali, porta la razza umana alla perdizione. Finché Willis e la psichiatra Stowe, nelle strade vuote di una metropoli abbandonata con orsi e leoni che gli si parano davanti minacciosi, combatteranno l’ultima decisiva battaglia. Se non gli chiediamo ordine e plausibilità “L’armata delle 12 scimmie” è un film stimolante, altrimenti ci accorgiamo del suo vagare tra episodi che ne aggrovigliano inutilmente la trama su uno scherzo invaso dalle preziosità visive del regista, e con un interprete molto bravo come Bruce Willis. La Stowe dona un tocco di grazia e di ottimismo, e Brad Pitt si perde nell’anonimato.
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Cahiers du cinéma
Frédéric Strauss
“L’esercito delle dodici scimmie” è la storia di un uomo la cui immaginazione delirante diverte, infastidisce o lascia indifferenti, mai presa sul serio, fino al giorno in cui si comprende che era un vero visionario. Una storia che cambierebbe di poco diventando quella di Terry Gilliam, la cui immaginazione delirante diverte, infastidisce o lascia indifferenti, mai veramente presa sul serio (…) fino al giorno in cui “L’esercito delle dodici scimmie” rivela un vero cineasta. Se il paragone funziona è, al di là del verdetto finale (rischioso per Terry Gilliam dal momento che il suo personaggio è vittima delle proprie visioni…), perché il “paragone” è il soggetto stesso di “L’esercito delle dodici scimmie”, ciò che dà la misura dell bizzarria del film. Quando James Cole spiega ciò che vuole fare ai materialisti incuranti del pericolo del 1996, è preso per un pazzo, e si può immaginare quello che è capitato a Terry Gilliam quando ha spiegato ai suoi produttori che voleva fare un film dove Bruce Willis riprendeva il ruolo dell’eroe di un cortometraggio di Chris Marker del 1963, “La Jetée”. Come James Cole, Gilliam, non aveva che da mostrarsi convincente, e questa è la prima qualità che contrassegna “L’esercito delle dodici scimmie”: un accanimento a convincere dell’impossibile, a provare che l’accostamento tra una macchina pensata per il box-office e un’opera nata dal pensiero di un cineasta, risolutamente fuori norma, poteva avere luogo e divenire la materia di un film. Cioè molto più di un adattamento. Sceneggiatura a parte, “L’esercito delle dodici scimmie” si sforza di dissipare le avvincenti zone d’ombra del film di Marker a forza di elucubrazioni che conducono la storia verso paure attuali (mediche, ecologiche, millenaristiche), per un esito allo stesso tempo seducente e artificiale. È dunque nella forma che il film si gioca, mantenendo sempre una relazione di specchio con il suo personaggio poiché questa questione di forma è anche una questione di tempo, che avvicina due momenti della vita: l’età un cui si crede che il cinema sia una sorta di occhio magico, capace di tutto e che niente può fermare, e l’età in cui si comprende che, per un campo-controcampo, per esempio, la camera deve riprendere due volte, in cui si scoprono le leggi elaborate della tecnica (l’assoluto contrario della magia dapprima percepita) ma anche la forza del’inquadratura e del montaggio (la magia ritrovata). Terry Gilliam è per eccellenza un regista della prima età: lui gira in un flusso continuo, in movimento, senza niente che possa far pensare a una costrizione che mascheri al massimo gli inevitabili raccordi del montaggio (da dove uno sguardo indaga, più che mostrare e non segnala niente, non sceglie, noioso come il teatro). (…) Brad Pitt è qui un istrione che isterizza ognuna delle sue scene, in un ruolo secondario di esaltato senza sorpresa – legato al motivo ecologico aggiunto nel corso della storia – un personaggio che va semplicemente in avanti, su dei binari – come quelli delle montagne russe e la camera sembra in quei momenti diventata segno distintivo di un intrigo ubriacante, meccanico. Con Brad Pitt, siamo dalle parti di un cattivo film di Terry Gilliam, dove gli attori hanno sempre un ruolo secondario, sperduti nelle vicende della messa in scena e il carico visivo. Con Bruce Willis, è un’altra cosa. Il suo personaggio viene non solamente da “La Jetée”, ma dall’avvenire e, invece di andare in avanti progredisce a ritroso , logicamente non al suo posto nel 1996 più che in un film di Terry Gilliam. Questo sentimento di eterogeneità (totalmente inedito in lui), il regista lo lavora, lo modella, dando a Bruce Willis il posto che gli spetta, quello di un attore di primo piano (per contratto e per talento), attorno al quale, per dirla in altro modo, la messa in scena si deve ricostruire. E come il film è insieme insensato e sensato, la direzione in cui Willis guida Terry Gilliam riflette quella verso cui Jame Cole (che proviene da un futuro molto “terry-gilliamesco”) è guidato dalle immagini che lo ossessionano, alla maniera dell’eroe di Marker: lampi di una memoria premonitrice, focalizzata su dei piani molto strutturati che si organizzeranno per la sequenza finale dell’aeroporto, fatta di tagli superbi. Velocità, direzioni e sguardi contrari e contrariati e che si urtano: in questo densissimo blocco di immagini Terry Gilliam trova la via di un film ispirato, dove passa una sensazione del tempo poco comune (quasi palpabile) e dove lo spettatore ha uno spazio di scelta. Quella di una psichiatra (Madeleine Stowe), di cui Brad Pitt e Bruce Willis sono i pazienti. Tra questa donna e James Cole, che la trascina nella sua storia, una certa idea di paragone è ugualmente all’opera (il richiamo), in scene spesso molto riuscite (il loro dialogo sulla strada, soprattutto), che sono la migliore metafora del film e della forza di cui testimonia Terry Gilliam per trascinare, questa volta, il suo spettatore con sé.
“L’armée des douze singes” est l’histoire d’un homme dont l’imagination délirante amuse, agace ou indiffère, jamais prise au sérieux, jusqu’au jour où l’on comprend qu’il etait un vrai visionnaire. Une histoire qui changerait à peine en devenant celle de Terry Gilliam, dont l’imagination délirante amuse, agace ou indiffère, jamais vraiment prise au serieux (…) jousqu’au jour où “L’armée des douze singes” révèle un vrai cinéaste. Si le rapprochement fonctionne c’est, au-delà du verdict final (risqué pour Gilliam puisque son personnage est victime de ses propres vision…), parce que le “rapprochement” est le sujet meme de “L’armée des douze singes”, ce qui donne la mesure de la bizzarrie du film. (…)Quand James Cole explique ce qu’il veut faire aux matérialistes insouciants de 1996, il est pris pour un fou, et on peut imaginer que c’est ce qui arriva à Terry Gilliam quand il expliqua à ses producteurs qu’il voulait faire un film où Bruce Willis reprendait le role du héros d’un court métrage de Chris Marker de 1963, “La Jetée”. Comme James Cole, Gilliam n’avait plus qu’à se montrer persuasif, et c’est là la première qualité qui marque “L’armée des douze singes”: un acharnement à convaincre de l’impossible, à prouver que le rapprochement entre une machine pensée pour le box-office et un oevre née de la pensée d’un cineaste, resolument hors norme, pouvait s’opérer et devenir la matiére d’un film. Cest-à-dire davantage meme qu’une adaptation. Côté scénario, “L’armée des douze singes” s’évertue à dissiper les zones d’ombre captivantes du film de Marker, à grand renfort d’élucubrations qui ramènent l’histoire vers des peurs actuelles (médicales, écologiques, fin de siècle), pour un resultat à la fois séduisant et artificiel. C’est donc dans la forme que le film se joue, en maintenant toujours une relation de miroir avec son personnage puisque cette question de forme est aussi une question de temps, qui rapproche deux moments de la vie: l’âge où l’on croit que le cinéma est une sorte d’oeil magique, capable de tout et que rien l’arrête, et l’âge où l’on comprend que, pour un champ-contrechamp, par exemple, la caméra doit s’y prendre à deux fois, où l’on découvre les lois laborieuses de la technique (le contraire absolu de la magie d’abord perçue) mais aussi la force du plan e du montage (la magie retrouvée). Terry Gillam est par excellence un cinéaste du premier âge: il filme en un flux continu, en mouvement , sans rien que puisse faire songer à une contrainte et en masquant au maximum les inévitables raccords du montage (d’où le regard plutôt informe, qui montre beaucoup et ne désigne rien, ne choisit pas, ennuyeux comme le théatre). (…) Brad Pitt est ici un histrion qui hystérise chacune de ses scènes, dans un second rôle d’illuminé sans surprise – lié au motif écologique rajouté au décor de l’histoire – un personnage qui va simplement de l’avant, sur des rails – comme ceux des montagnes russes, la caméra semblant dans ces moments-là devenue le pompon d’un manège soulant, machinal. Avec Brad Pitt, on est bien dans un mauvais film de Terry Gilliam, chez qui les acteurs ont toujours le second rôle, noyés dans le tout-venant de la mise en scène et la charge visuelle. Avec Bruce Willis, c’est autre chose. Son personnage vient non seulement de “La jetée”, mais de l’avenir et, au lieu d’aller de l’avant, progresse à reculons, logiquement pas plus à sa place en 1996 que dans un film de Terry Gilliam. Ce sentiment d’hétérogénéité (totalement indédit chez lui), le cinéaste le travaille, le modèle, donnant à Bruce Willis la place que lui revient, celle d’un acteur de premier plan (par contrat et par talent), autour de qui, autrement dit, la mise en scène doit se construire. Et comme le film est aussi insensé que sensé, la directione où Willis guide Terry Gilliam reflète celle où James Cole (qui vient quand meme d’un futur très «terry-gilliamien») est guidé par les images qui le hantent, à l’instar du héros de Marker: flashes d’une mémoire prémonitoire, focalisée sur des plans très structurés qui s’organiseront pour la séquence finale de l’aéroport, superbement découpée. Vitesses, directions et regards contraires et contrariés qui se télescopent: dans ce bloc d’images très dense, Terry Gilliam trouve la voie d’un film inspiré, où passe une sensation du temps peu commune (quasi palpable) et où le spectateur a une place de choix. Celle d’une psychiatre (Madeleine Stowe), dont Brad Pitt et Bruce Willis sont les patients. Entre cette femme et James Cole, qui l’entraine dans son histoire, une certaine idée du rapprochement est également a l’oeuvre (l’attirance), dans ces scènes souvent très réussies (leur dialogue sur la route notamment), qui sont la meilleure métaphore du film e de la force dont témoigne Terry Gilliam pour entrainer, cette fois-ci, son spectateur avec lui.