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Boogie Nights | Recensioni

Recensioni italiane del film Boogie Nights, diretto da Paul Thomas Anderson. Contributi di Lietta Tornabuoni, Tullio Kezich, Emanuela Martini, Irene Bignardi, Michele Anselmi, Massimo Lastrucci, Franco Marineo

La Stampa (27/2/1998)
Lietta Tornabuoni

Sesso promiscuo, naturalmente. Ma anche gli usi e gli idoli degli anni 1997-1984 in California: spinelli, Bruce Lee, la Ferrari, Al Pacino nella parte di Serpico, Hi-Fi, chitarre, Guerre stellari, l’ossessione del proprio aspetto e l’idolatria per le scarpe, Travolta, disco music, video e videocassette, pantaloni a zampa d’elefante, troppa cocaina e le belle ragazze comatose in overdose che perdono sangue dal naso. Boogie Nights (il titolo non evoca soltanto il nome d’un locale notturno di Hollywood), secondo film dopo Sidney del ventiseienne produttore-soggettista-sceneggiatore-regista Paul Thomas Anderson, rievoca il costume d’epoca in modi prevedibili ma in un ambiente speciale come quello del cinema pornografico: soprattutto racconta l’ascesa e la caduta d’un pornodivo giovanissimo, “una miniera d’oro di diciassette anni e di trentatré centimetri”. È il film più sfacciato e inconsueto della stagione, uno dei più forti e interessanti, magari un poco turpe, molto lungo. All’inizio il protagonista, sguattero adolescente in un ristorante della San Fernando Valley, domanda a Burt Reynolds che lo fissa con insistenza: “Vuoi da cinque o da dieci?” (cinque dollari per lasciarsi guardare i genitali, dieci per lasciarsi guardare mentre si masturba). Alla fine il ragazzo tutto vestito di bianco si scruta un attimo prima di andare sul set, si apre i pantaloni, lo tira fuori e se lo guarda allo specchio, come per rassicurarsi contemplando l’origine della sua fortuna. Tra inizio e fine, narrando l’esultanza del successo e la desolazione del fallimento, illustrando romanticamente il pornocinema come un luogo di solidarietà amichevoli e di affetti famigliari (Burt Reynolds bravo regista-padre, Julianne Moore brava diva-madre), Anderson sa mettere insieme oscenità e pathos, corpi venduti e sentimenti, sesso coatto e vitalità: tutti i suoi personaggi desiderano progredire e nessuno ci riesce, Reynolds vorrebbe “fare un vero film, onesto e drammatico”, il ragazzo vorrebbe “essere una star per sempre”, la diva vorrebbe sentirsi una consolatrice materna, una psicoanalista e insieme una psicoanalizzata. Il protagonista è Mark Wahlberg, ex rapper detto Marky Mark, cattolico ammiratore di James Cagney, ex indossatore di mutande per Calvin Klein: molto giovane, molto efficace. Il giovane regista fa del film un bazar dove si affastellano scene, immagini ed atmosfere di altri film (soprattutto di film diretti da Martin Scorsese): la sola realtà possibile é l’irrealtà del cinema, l’unica forma d’arte é il plagio appassionato.

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Corriere della Sera (28/2/1998)
Tullio Kezich

Avviso agli spettatori d’ambo i sessi. Ci potreste restar male quando nell’ultima inquadratura il protagonista di Boogie Nights esibisce la ragione per cui femmine e produttori gli sono corsi dietro tutto il film. Ma non fatevi abbagliare e soprattutto non istituite paragoni a vostro discapito: quel membro virile di mostruose proporzioni è solo una finzione, rientra nel dominio degli effetti speciali. Si tratta comunque dell’apriti sesamo che permette allo sguattero Eddie di trasformarsi in Dirk Diggler, un idolo dell’ancor folta clientela delle «luci rosse» a cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta. Insieme al trionfo e alla decadenza del protagonista, quando il crescere d’età e la cocaina non gli concedono ormai di essere sempre pronto alla bisogna, il film di Paul Thomas Anderson racconta infatti l’ultima stagione d’oro del porno-cinema su grande schermo, un rito collettivo destinato a svilirsi nel commercio delle videocassette a privato uso masturbatorio. È una trovata aver fatto di un produttore hard un don Chisciotte del film artistico nemico della pornografia volgare. Mentre gli affari vanno male, Jack Horner (una robusta e ispirata personificazione, che ha valso a Burt Reynolds la nomination) si attesta ostinatamente sullo specifico pellicolare e giura che non si abbasserà al video: passo al quale gli eventi successivi ahimè lo costringeranno. Il senso amaro del film è che nonostante i vizi e le droghe, le grettezze e le brutture,l’ambiente del sottocinema di vent’anni fa era più umano di quello odierno. Fondata o meno l’ipotesi, l’autore (che si professa gran conoscitore della porno-filmografia) si impegna nel rappresentare quell’ambiente scomparso tenendo d’occhio La dolce vita e Nashville. Fra i tanti modelli del film figura anche un’esplicita citazione da Tarantino nella scena in cui Eddie per disperazione si lascia trascinare a compiere una rapina con risvolto paradossale. A volte la tentazione descrittiva prevale sul ritmo, mentre i personaggini da tener d’occhio diventano troppi. Però i ritratti principali sono adeguati e ben serviti dal protagonista Mark Wahlber, da Julianne Moore che si batte per l’affidamento del figlioletto dalla posizione giuridicamente scomoda di attrice disinibita, da Heather Graham ragazza sui pattini e da tutto resto dell’affiatata compagnia.

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Film TV (22/3/1998)
Emanuela Martini

Chiuso dentro una decina d’anni (comincia nel 1977 e termina alla metà degli Anni ’80) e un pugno di feste, Boogie Nights, scritto e diretto dal ventisettenne Paul Thomas Anderson, non è un film “di sesso”, e nonostante sia tutto ambientato nell’industra del cinema porno fiorente all’epoca nella San Ferdinando Valley, non è neppure un film “sul sesso”. È un film sulle relazioni interpersonali, sulle famiglie allargate che negli Anni ’70 sostituivano con la loro tenera tolleranza le famiglie “ufficiali”, sulla “caduta”, il cinismo e la disillusione, ma anche sulla possibilità di “ripresa” attraverso la solidarietà, appunto, di quella famiglia rappezzata e divagante. È un fan che sa di Anni ’70 non solo per l’ambientazione, ma soprattutto per gli umori che mette in circolo e per la scelta stilistica, perfettamente coerente con questi umori: più Altman che Tarantino (la strizzata d’occhio a Tarantino, la rapina nella tavola calda è uno dei momenti più fragili del film), con tocchi di Scorsese (soprattutto nella seconda parte quella della caduta). È curioso che sia fatto da un regista che allora era appena un bambino, ma che evidentemente ha assorbito quei “miti” e quei linguaggi. Film-affresco, è il segnale più forte degli ultimi anni di nuove tendenze (e nuovi “padri”) nel cinema americano.

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la Repubblica (27/2/1998)
Irene Bignardi

Il sesso non sarà per caso qualcosa di sopravvalutato? Non sarà che per caso se ne parla e lo si rappresenta più di quanto in realtà la gente lo pratichi e – peggio – ne senta veramente un bisogno “attivo”? Vorrei non essere presa troppo sul serio. Ma la domanda nasce dalla visione di uno dei film più divertenti e meglio costruiti di questa stagione, Boogie Nights, diretto da Paul Thomas Anderson, un regista di ventisette anni alla seconda prova, che discende e gareggia ad alto livello – per atmosfere e ispirazione, per come mescola irregolarità e familismo, colore e violenza, piani sequenza magistrali e storie infinite – con Altman e Tarantino, il Milos Forman di Larry Flint e lo Scorsese di Quei bravi ragazzi. L’inquietante quesito dell’incipit nasce dal fatto che in Boogie Nights, che è un grande quadro dell’industria porno a Los Angeles agli inizi degli Anni 70, il sesso è continuamente messo in scena – e non simulato. Ma gli stessi che di questa rappresentazione vivono ne fanno, nella vita privata, molto poco, ai brividi caldi preferiscono le coccole, alle avventure il calore familiare: il sesso è la professione, la tenerezza della famigliastra che attorno a questa industria si crea è la temperatura vera della vita. Così che Boogie Nights, pur nella sua esplicitezza, è un film di rara paradossale castità. Dal mondo del porno Anderson è sempre stato affascinato, visto che già dieci anni fa, ancora teenager, aveva girato un video sulla stessa storia: che ha un modello vero, la pornostar John Holmes, il quale non fece una bella fine… Ma il vero protagonista di Boogie Nights – anche se non lo si vede mai, salvo in una malinconica esibizione finale – è un membro maschile di dimensioni eccezionali. Il “dono speciale” che porta Eddie Adams, sguattero in un night, ammiratore di Bruce Lee e molto disponibile, a diventare Dirk Diggler, divo del porno (l’attore si chiama Mark Wahlberg, ed è una scoperta). Il suo Pigmalione è Jack Horner (Burt Reynolds), celebre regista porno, che lo prende sotto la sua protezione e sotto il suo tetto, lo trasforma in una star, e un bel giorno, quando il giovinotto per troppa cocaina e troppo successo comincia a dare i numeri, lo sostituisce con un altro. “I miei film hanno salvato migliaia di relazioni”, si vanta Horner, cultore soave e paterno del sesso cinematografico come terapia (dando con ciò una parziale risposta ai miei interrogativi). Attorno a lui la famiglia del porno è composta dalla bella Julianne Moore – che, allontanata per indegnità dal suo bambino, incarna la figura materna del clan -, da Heather Graham, che si è assunta il ruolo della figlia e non si leva i pattini a rotelle neanche durante le sue performances erotiche, dal Colonnello, paterno finanziatore di tutta l’impresa (è Robert Ridgely, a cui il film è dedicato, veterano di Hollywood da poco scomparso e amico di casa Anderson). Il mondo attorno è quello felice prima dell’Aids: Anderson rievoca brillantemente l’estetica degli hot pants e delle zampe di elefante, degli zatteroni e delle piscine alla Hockney, nel contesto dell’allegra follia di un’epoca in cui tutto sembrava lecito e possibile e che, sotto l’egida della rivoluzione sessuale, aprì i circuiti cinematografici normali al porno e attribuì a un personaggio centrale del caso Watergate il nome cinematografico di Linda Lovelace. Ma, come ben sappiamo, il mezzo è il messaggio. L’ascesa e la caduta della sexystar Dirk Diggler coincidono, in Boogie Nights, con la trasformazione del “medium” dalla pellicola (e dalle sale cinematografiche) alla solitaria fruizione dei video – trasformazione pilotata nel film da un finanziatore che ha tutta l’aria di essere un emissario della mafia. E al confronto con il poi e le sue tragedie, quella che Anderson rievoca, con una straordinaria maturità di sceneggiatore e di regista, finisce per sembrare quasi un’età dell’innocenza.

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l’Unità (28/2/1998)
Michele Anselmi

«Ho la sensazione che in quei jeans ci sia qualcosa di meraviglioso che aspetta solo di uscire», profetizza il regista porno Jack Homer nel notare al ristorante un giovane sguattero che arrotonda la paga esibendosi a pagamento (cinque dollari per mostrare i genitali, dieci per lasciarsi guardare mentre si masturba). Ha visto giusto, il talent scout, ma noi pubblico dovremo aspettare oltre 150 minuti per vedere l’oggetto di tante attenzioni: in una bella scena che arriva nel finalissimo, il protagonista vestito di bianco prova le sue battute allo specchio, si aggiusta i capelli e a sorpresa tira fuori dai pantaloni l’enorme membro che fu all’origine della propria cine-fortuna. Boogie Nights è un film curiosamente casto per l’argomento che affronta, ma non reticente. Racconta l’ascesa e la caduta nel mondo dell’hardcore di un superdotato che ricorda un po’ almeno nelle canoniche misure dei 33 centimetri, la figura dello scomparso John Holmes. Ma il regista Paul Thomas Anderson, di cui qualche spettatore ricorderà l’interessante Sydney, non sembra avere intenti biografici: gli interessa ricreare l’ambiente del cinema pornografico californiano a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta per estrarne il ritratto di una certa America marginale e viziosa, ossessiva e vitale. Tra Altman e Scorsese, ma con un occhio anche al Larry Flynt di Milos Forman. Il cineasta indipendente si diverte a impaginare un affresco amorale intessuto di un’inattesa pietas: non che il film assolva l’ambiente torvo e sovreccitato nel quale, pochi anni prima, nel ’72, era maturato un “classico” come Gola profonda, ma lo sguardo è inevitabilmente complice, quasi a svelare una dimensione familiare che il porno a venire – quello girato in video, per risparmiare – non avrebbe più avuto. A suo modo Boogie Nights è un film in costume: per come restituisce l’atmosfera, le mode, le musiche e le pettinature dell’epoca. Tra citazioni di Travolta e Bruce Lee, pantaloni a zampa d’elefante, zatteroni e cocaparty ai bordi delle piscine, la storia svela sin dalle prime inquadrature una sua dimensione paradossale. (…) È molto bravo il regista ventiseienne nell’evocare il clima irresponsabile e tragicomico di quell’eppca a sua moda “gloriosa” : non ancora lambiti dalla spettro fune- reo dell’Aids, i personaggi di Boogie Nights vivono allegramente una sessualità più esibita che praticata, tra ammucchiate all’aria aperta, gelosie inaspettate (ci scappa anche una strage) e aspirazioni alla “normalità”. Può darsi che talvolta il film edulcori un po’ il ritratto di quel cinema «parallelo» che pur smuoveva miliardi, ma il ritratto non è mai rassicurante: dietro si staglia una società rapace, violenta, razzista, pronta a uccidere per un grammo di cocaina e a finire in carcere per pedofilia. Se Julianne Moore nei panni della pornodiva infelice non ha proprio il fisico del ruolo, il bentornato Burt Reynolds è straordinario nel ruolo del regista che vorrebbe firmare un film a suo modo d’autore, mentre il protagonista Mark Walhberg (ex tossicomane, ex rapper, ex indossatore di mutante per Calvin Klein, attuale mito gay) porta nel personaggio di Dirk Diggler la giusta dose di arroganza e fragilità, determinazione e ingenuità. Pare che il regista l’abbia preferito a Leonardo Di Caprio per via delle dimensioni del suo pene. In effetti, il ragazzo ha dei numeri.

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Ciak (1/4/1998)
Massimo Lastrucci

La nostalgia canaglia a volte si nasconde nelle pieghe della memoria. Paul Thomas Anderson (chi scommette sul suo futuro vince facile) ad esempio si reinventa il mondo del porno anni’70 come una specie di allegro e pulito Far West di anime pure, con il pioniere, buon samaritano, Burt Reynolds (bentornato!) regista con pretese artistiche, che tiene insieme, da patriarca, una specie di comune in cui tutto è permesso. Tra le sue scoperte, spicca Eddie Adams alias Dirk Diggler (Mark Wahlberg) ovvero la versione fiction della biografia della star del porno John Holmes. Se la prima parte ha la felicità e la facilità del recupero/ricalco, affettuoso e curioso, del tempo che fu, la seconda si fa nevrotica, sanguinosa e drammatica. Come una rilettura da primo della classe di Scorsese (soprattutto) e Tarantino.

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Duel (20/4/1998)
Franco Marineo

Che cosa c’è prima del porno psicanalizzato e sociologizzato degli ultimi anni? Da dove proviene la managerizzazione moderna del cinema hard? Che cosa era la Hollywood parallela per adulti che era riuscita creare un solido starsystem, qualche barlume di autorialità e le cerimonie di consegna dei premi annuali? Per rispondere a queste domande (e per tante altre ragioni) Anderson ha realizzato un affresco storicista sulla transizione estetica e sociale dagli anni 70, idealisti e sgargianti, agli anni 80, segnati da una fredda ansia di denaro e da una valanga di cocaina. Ha scelto di canalizzare il suo racconto attraverso una piccola tribù fatta di attori, tecnici, membri della troupe raccolti intorno a un regista che rimane spiazzato dal passaggio del porno dalla pellicola al video. Passaggio doloroso (e simbolico) dal pionerismo della fotografia curata, delle luci, della trama, all’esasperazione del sesso puramente ginnico immesso in un gigantesco mercato che pretende antologie di “scene madri” tenute assieme dai comuni denominatori genitali. Ma Boogie Nights è essenzialmente un film in cui lo stile scavalca e fagocita qualsiasi ricostruzione storica o ciascuna delle sfumature psicologiche dei protagonisti; stile maestoso di un regista consapevole del proprio talento visivo (piani-sequenza simili a quelli di Goodfellas, perfetti spostamenti di campo nei momenti clou), stile corale e totale che tiene insieme (perdendosi in qualche lungaggine nella seconda parte) un gran numero di personaggi e sviluppi narrativi come solo Altman sapeva (e sa) fare. Boogie Nights è un cocktail riuscito di rimandi cinefili e correttezza storica, ma è soprattutto l’omaggio di un giovane e promettente regista ai topoi dei maestri.

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