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C’ERA UNA VOLTA IN AMERICA: OPPIO E CINEMA, ANNI 30 – di Silvana Cielo [Filmcritica]

Così come il mito americano C'era una volta in America è crudele e sentimentale, come gli anni ’30 è più reale di un sogno ed è solo un sogno.

di Silvana Cielo

C’era una volta in America. Tre ore e quaranta di proiezione impongono una riflessione sulla struttura e sul desiderio, sul progetto. Il progetto è la produzione del Kolossal, del gigantesco. C’era una volta in America deve essere proprio come l’America, senza propor­zioni, ingombrante e sottile, natura completamente sostituita da cultu­ra, da artificio, un labirinto in una infinità di particolari, nella dilata­zione senza controllo dei tempi. Così come il mito americano il film è crudele e sentimentale, come gli anni ’30 è più reale di un sogno ed è solo un sogno.
L’ambientazione, curata nel minimo dettaglio, risulta perfetta sen­za essere patinata, comunica, proprio all’opposto dello straniamento di un Coppola, o della dichiarata artificiosità ironica di uno Spielberg, una dimensione di realtà. Tanto marrone e tanto legno dei passati western di Leone, ben si fondono con le automobili, i locali, gli abiti dei sognati anni ’30. L’America che Leone ricerca è l’America della memoria, quella che ha ancora alle spalle le praterie, e di fronte il futuro, le possibilità infinite.
L’immagine presenta quindi un doppio statuto. Nella qualità individuale è mimetica, così vicini i tempi filmici ai tempi reali, nell’insieme nella struttura, è fabulatoria, sognata oppiata. Il film è costruito ribaltando il rapporto tra passato e presente, tra il crono­logicamente ordinato e il flash back, tra la principale e le subordinate. I tempi del presente sono brevi e contratti, la vera narrazione si svolge nella memoria se non addirittura nel sogno. Con questa strut­tura Leone si può muovere agilmente lungo l’intero arco di una vita, ma il suo movimento è lento e rotondo, dalla giovinezza alla vecchiaia del protagonista, De Niro, che offre una prestazione esem­plare. L’uomo è stato richiamato ai luoghi della sua adolescenza-matu­rità, deve scoprire chi lo ha chiamato e perché. Così indaga e mentre cerca, per felici processi associativi, ricorda e noi vivamo/vediamo il suo passato, la fanciullezza, il suo rapporto di amicizia con James Woods, il suo amore per Elizabeth Me Govern. Elementi fondamenta­li intorno a cui ruota la memoria per ricordare eventi, intorno a cui ha lavorato Leone per formare l’intreccio. La narrazione, lenta e rotonda, ha spigoli di crudeltà che corrispondono a momenti di accelerazione. È rotonda appunto e l’ultima scena torna sulla prima come a svelare il mistero. Si tratta di una fumeria d’oppio. C’è De Niro, c’è la droga, il suo indimenticabile sorriso. Si aprono due possibilità interpretative, l’una a inseguire il reale, l’altra ad esaltare l’artificio, in entrambi i casi un azzeramento della struttura narrativa. Si può trattare di un sogno, l’ultimo ricordo di chi ha appena scoperto qualcosa che preferisce ignorare e allora è esistita una storia, un personaggio, un destino. Ma c’è una seconda lettura, tutto il film può essere letto come un’allucinazione da droga e allora la storia non è mai esistita, niente di quello che abbiamo visto è mai accaduto, l’uomo in «realtà» non si è mai mosso dalla fumeria d’oppio, ha inventato un passato probabile, un futuro duro e cinico. È Leone che ci avvisa, nel complice sorriso di De Niro. Il film ha la doppia natura della mimesi e dell’artificio, carico, saturo di particolari ma evanescente, è fiction che non insegue riproduzioni di realtà ma l’immagine e l’immaginario. In questo suo essere completamente cinema, in questo non avere referenti, se non altre immagini, il prodotto si avvicina ai prodotti americani anche se seguendo una via di serietà di realtà tutta europea.
È chiaro che C’era una volta in America è una favola così come vuole il titolo, cinica e sentimentale come possono essere le favole oggi, ed è cinema.

Filmcritica, Anno XXXV, n. 348/349 – Ottobre-Novembre 1984; pp. 451-452

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