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JUVENTUS-AMBURGO 0-1: FINE DI UN SOGNO

Dieci anni dopo la sfida di Belgrado con l’Ajax, la squadra bianconera ha sorprendentemente fallito la sua seconda finale nel più prestigioso torneo continentale - Un gol di Magath è bastato per assicurare ai tedeschi dell'Amburgo il trofeo

Ad Atene davanti a 40 mila tifosi italiani

Trap lo disse: ’’Sara l’anno più duro!”

Battuta la Juve va all’Amburgo la Coppa Campioni

Giovanni Arpino racconta la previsione che l’allenatore bianconero gli fece il giorno della finale mondiale a Madrid: «L’anno prossimo sarà il più difficile per me. Sarà tremendo». Con i campioni variamente sponsorizzati si può solo perdere, perché la caviglia e la tibia non le rischiano più. La vecchia Coppa Uefa 1977 vinta con Furino e Morini valeva di più d’una Coppa dei Campioni 1983.
Non credo nella «stregoneria» di un trofeo proibito alla Juve. La sconfitta di Atene ha una logica: se rinunciano alla difesa anche i brasiliani possono perdere nel mondiale una partita «impossibile» per gli azzurri, ma se diventano umili anche i tedeschi – spesso traditi dalla loro arroganza atletica – possono beffarci.

di GIOVANNI ARPINO

Non ha vinto la Vecchia Signora. Non poteva vincere e lo ha ampiamente dimostrato. Non voleva – forse: anche qui la nemesi gioca il suo ruolo – per non creare disturbi nazionali. L’anno e non solo santo ma anche, alla greca, ortodosso, e torse un pochino protestante, con quei tedesconi dal piglio di contadini pero «panzerizzati» a dovere.
Fu esattamente a mezzogiorno del giorno 11 luglio ’82, davanti allo stadio Bernabeu di Madrid, in attesadellatinale del «mundial», che incontrai Trapattoni. E li, in un solicello a quarantadue gradi, il gran Trap mi disse: «L’anno prossimo sarà il più difficile per me. Sarà tremendo».
Con i campioni variamente sponsorizzati si può solo perdere. Forse, con loro, rischia di perdere tutto il calcio, questo «linguaggio», come lo definì Pasolini. Si perde perché i supercampioni lisciati, oleati, vezzeggiati, scatatissimi nelle interviste qui e al di la delle Alpi, la caviglia e la tibia non le rischiano più, talora risparmiano anche il sudore. La palla gli va regalata o quantomeno portata su un piatto d’argento, la conquisti un gregario, cosa importa a te campione che hai tanti problemi di sopravvivenza e commercio?
La vecchia Coppa Uefa ’77, vinta dal Trap con Furino e Morini, valeva di più d’una Coppa Campioni ’83: perché allora – e il Trap lo ha ricordato nelle ultime interviste ad Atene, proprio nel caldo della vigilia – bisogno battere ben due Manchester. E quest’anno la magna Juve incontro avversari sbolliti, finche arrivo l’Amburgo, che grazie ad Happel (volpe piu gatto) ha giocato come il Padova del gran Nereo Rocco: tutti indietro, anche il tigresco centravanti a liberare, e poi contropiedi come Italia (d’una volta) comanda. E non cito un certo «herr» Magath, ottimo ma non massimo giocatore, che ad Atene è apparso irresistibile, quasi un doppio Di Stefano corretto al cognac. Lo guardavano a vista, lasciandolo fare, lasciandolo libero di respirare tutta l’aria della pur sgangherata Acropoli. Mai turista fu più felice. Forse verrà ospitato anche, in vacanza premio, da Melina Mercouri, nota ministressa della cultura greca.
E cosi gli juventini dabbene, che sono tanti e sputano polmoni, restituiscono tutto: le glorie di Madrid e Barcellona, i cavalierati anticipati seppur meritati, la lunga pazienza, la fatica.
I titoli sui quotidiani si sono sprecati: molestosamente in troppi hanno parlato di «streganza». E cosa vuol dire? La stregoneria interviene quando tu ti fai bimbetto, hai paura, non sai agire, ti perdi nel bosco delle difese altrui, pensi ai preziosi ginocchi e non scappi – quantomeno – in avanti. Almeno in avanti.
Lasciamo perdere i toni tragici. La partita di Atene ha avuto una sua perfetta, leggibilissima, controllabilissima logica interna. Basta ripercorrerla nella memoria. Il gol fatto mette alla pari quelli parati o sbagliati in altre occasioni. E un ipotetico zero a zero poteva consumarsi nel giro di due settimane, visti gli «stalli» che i tedeschi sapevano creare a centrocampo.
Se fossi tifoso, come – haimè – non sono, sfodererei epiteti divertentissimi a proposito di questo e quel giocatore. Me ne astengo, anche se romanzescamente tentato. Detesto il muro del pianto, il pozzo del dolore inconsolabile, le avventure che non sbocciano nel lieto fine, le squadre che secondo le testimonianze sarebbero vittime delle stregonerie dettate dalla sorte, inimica e vile.
Sta cambiando il calcio: tutto qui il «busillis». Appena rinunciano alle loro pur sapienti difese, ecco i brasiliani perdere contro gli «azzurri» una partita per noi impossibile. E i tedeschi, che nella loro spocchia (motivata da invidiabile arroganza atletica) pretendono tutto e vengono regolarmente beffati, non appena si fanno umili vincono pure loro. Ma già. I bianconeri avevano un professore che crede di dettar calcio dalla Sorbona e un Rossi che non sa più «anticipare» le botte altrui, come il mestiere e il giusto cinismo avrebbero pur dovuto insegnargli. Allora cosa puoi fare da solo, o Bettega, se non partire per il Canada?
Ma la verità storica e naturalmente segreta e un’altra: la Vecchia Signora, che ha garbo, che ha stile, che sa obbedire anche alle tra-dizioni negative, che non mangia i suoi figlioletti pur se lievemente traditori, ha scelto la sconfitta di Atene per far sorridere «fratello Zeffirelli», che subito dopo la partita ha pubblicamente ringraziato (disturbandolo) Iddio per tanta grazia ricevuta. Non sappia-mo se il Padreterno gli ha risposto: forse preferisce restare neutrale, e non immischiarsi con i santini di celluloide del celeberrimo regista toscano.
Lo stile pero e tutto, e l’uomo. I bianconeri che schiumavano furore impotente ad Atene (sette su undici) lo sanno, e il celeberrimo «Zef» no. L’Acropoli «dixit».

* * *

AMBURGO 1 JUVENTUS 0
Finale Coppa dei Campioni Atene, 25-5-1983

Amburgo: Stein, Kaltz, Wehmeyer; Jakobs, Hieronymus, Rolff; Milewski, Groh, Hrubesch, Magath, Bastrup (56’ Von Heesen). All. Happel.
Juventus: Zoff, Gentile, Cabrini; Bonini, Brio, Scirea; Bettega, Tardelli, Rossi (56’ Marocchino), Platini, Boniek. All. Trapattoni.
Marcatore: Magath al 9’.
Arbitro: Rainea (Romania).
Note: Spettatori 80 mila circa. Ammoniti: Rolff, Bonini, Cabrini e Groh per gioco falloso.

 

* * *

La forza di un gioco

La delusione e stata immensa. Questa coppa tutti la tenevamo per sicura. E quando si dice tutti, si pensa ai tanti appassionati che – pur non essendo tifosi della squadra bianconera – apparivano perfettamente convinti della ineluttabilità della conquista. Si pensa ai quarantamila italiani – non tutti tifosi della Juve – che ad Atene erano andati con la certezza di assistere a una marcia trionfale, di celebrare una festa memorabile come quella azzurra di Madrid, di partecipare a un evento che il più popolare club del nostro calcio aspetta invano da venticinque anni.
Questa convinzione, questa certezza non era frutto precario di labili suggestioni. Il cammino della Juve nella Coppa dei Campioni era stato spedito e sicuro, a volte persino travolgente: i bianconeri avevano dato prova della loro forza e del loro carattere arrivando a battere sul campo inglese l’Aston Villa detentore del trofeo e superando il temutissimo scoglio della “battaglia” con il Widzew Lodz, la ex squadra di Boniek. Questo fuoriclasse polacco e il campione francese Michel Platini avevano aggiunto al volitivo temperamento della Juve e alia efficacia di schemi largamente collaudati un tocco di internazionalità, un’esperienza maturata in altre scuole e su altri campi. Pareva inoltre che la Juve avesse concentrato^tutti i suoi programmi e tutto il suo impegno sul traguardo di Atene, accettando senza agguerrite reazioni la superiorità della Roma sul fronte dello scudetto: e la società bianconera e circondata da sempre da un alone di infallibilità, diremmo di inesorabilità nel raggiungere gli obiettivi che si prefigge. Appariva insomma impossibile che la Juve, avendo fatto una puntata così grossa e così “ufficiale” sulla Coppa dei Campioni, potesse fallire.
Ed invece la Juve ha fallito. Perché la logica del calcio ha sempre un limite, perché questo gioco conserva una percentuale di imprevedibilità capace di vanificare ogni programmazione, perché in questo sport non sempre due più due fanno quattro. Torniamo con la mente all’inizio della stagione e ripensiamo all’immagine con la quale la Juve si presento ai nastri di partenza. Larghissima parte della sua formazione era costituita da azzurri campioni del mondo, al centro del suo attacco c’era Paolo Rossi capocannoniere del mondiale spagnolo, alle spalle ed ai fianchi di Paolo Rossi erano arrivati due tra gli stranieri più celebrati e più bravi, Boniek e Platini. Fu chiamata la Juve delle sette meraviglie. Si disse che questa Juve avrebbe ammazzato l’interesse per un campionato, che metteva in palio per le altre quindici squadre una classifica dal secondo posto in giù: perché lo scudetto 1983 era già virtualmente cucito sulle maglie della super-squadra bianconera. Si giurò che con due stranieri, voluti e acquistati apposta per vincere finalmente la Coppa dei Campioni, il sospirato trionfo europeo non sarebbe potuto mancare. La società era già solida e forte, l’allenatore già sperimentato da tanti successi. Non mancava nulla, ad una Juve ricca e costruita con raffinati criteri aziendali, per diventare l’asso-pigliatutto della stagione.
Ma il calcio rifiuta l’idea di certezza, si ribella spesso alle pianificazioni elaborate e realizzate con razionale freddezza: ti innalza alla gloria del titolo mondiale una nazionale che gli allibratori inglesi proponevano agli scommettitori con la quota di 40 a 1 e ti riduce senza scudetto e senza Coppa dei Campioni una squadra costruita per vincere tutto. Sta tutto qui il segreto del suo fascino straordinario. E pare giusto cogliere, nell’amarezza per la sconfitta di Atene, almeno il piccolo conforto dell’eterna bellezza di un gioco che – a dispetto di ogni tecnicismo – tale vuole tenacemente restare.

Fonte: Calcio, Mensile della F.I.G.C. – Anno XIII – Numero 8 – Giugno 1983

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