TELEVISIONE
SE IL TIFO STASERA FOSSE PER LIVERPOOL?
29 maggio 1985
di Beniamino Placido
QUESTA sera si tifa per il Liverpool. Sì, questa sera – immobili e tesi davanti al televisore per Juventus-Liverpool, finale di Coppa dei Campioni (RaiDue, ore 20,10) – non faremo nulla (per quanto è in nostro potere) perché la Juventus vinca questa Coppa che da decenni sospira; faremo tutto il possibile – mordendoci la lingua imprecando all’arbitro, formulando i debiti scongiuri – perché la vinca ancora una volta il Liverpool. Tiferemo Liverpool perché Liverpool è la città dei Beatles, unici grandi poeti del dopoguerra. Ma tiferemo Liverpool, soprattutto, perché il Museo dei Beatles nella città di Liverpool è deserto e abbandonato. Per cinque mesi all’anno, d’inverno, lo chiudono. Quand’è aperto non ci va nessuno. Si pensa di venderlo, tutto così com’è, con i cimeli famosi di John Lennon e di Ringo Starr, ai soliti giapponesi. Tiferemo Liverpool per solidarietà. “L’ex capitale della rivoluzione industriale inglese oggi è in sfacelo”, abbiamo letto nei giornali (in particolare, Beppe Severgnini sul Giornale), quarant’anni fa era uno dei più importanti porti commerciali del mondo. Ottant’anni fa era la seconda città dell’Impero. Poi l’Impero è finito, il commercio marittimo ha preso altre strade. Il porto di Liverpool non ha saputo adattarsi alle nuove rotte commerciali, non ha saputo (o non ha potuto, più probabilmente) attrarre i nuovi flussi di merci ed è entrato in una decadenza che sembra inarrestabile. La vecchia e celebre e dignitosissima Società di navigazione “Cunard” (ho conosciuto professori universitari che andavano in America solo per nave, e solo su una “Cunard”) si è trasferita a Londra. I “pubs”, i famosi “pubs” sul porto dai nomi risonanti: “Dominion”, “Victoria”, “Rule Britannia” – e persino il “Baltic Fleet”, “La flotta del Baltico”, costruito a forma di una nave – sono vuoti e tristi. O affollati, quando sono affollati, da gente nervosa e litigiosa, pochi soldi in tasca, la disoccupazione alle porte. Ci sono nove disoccupati su cento nella zona di Londra. Ma ce ne sono sedici – su cento – nella zona del porto di Liverpool. È fra questi disoccupati, o sottoccupati, che è scoppiato l’incendio del 1980. Un incendio vero e proprio, non un qualsiasi disordine come tanti altri. È finito in fiamme anche un delizioso teatrino liberty, il “Rialto”. È dalle masse di questi disoccupati, o sottoccupati, o minacciati da prossima possibile disoccupazione, che vengono fuori le schiere dei tifosi del Liverpool. Quelli che accompagnano la squadra; che hanno ancora in tasca i soldi per farlo. E quelli che restano a casa. Ma che chiederanno conto alla squadra – unico loro simbolo: di orgoglio, di speranza, di prestigio – per quanto avrà saputo fare a Bruxelles, questa sera. È bene che la Juventus lo sappia. No, noi questa sera non tiferemo per il Liverpool, malgrado i Beatles, malgrado la “Flotta del Baltico” e i meravigliosi piroscafi della “Cunard”. Figuriamoci, abbiamo tifato perfino per la Roma, l’anno passato, e rischiato il colpo al cuore quando Graziani sbagliò quel disgraziato rigore. Ma se è vero quello che ha dichiarato Sven Eriksson, gran tecnico, grande profeta: “vincerà la squadra più cattiva”, allora la Juve ha già perso: vinceranno gli altri. È bene che i giocatori della Juventus lo sappiano. Loro che vivono sereni in una città economicamente florida (almeno rispetto a Liverpool) e possono anche vedere l’Avvocato, qualche volta, è bene che lo sappiano, con quale vigore, con quale atletico furore i loro avversari questa sera si batteranno. E non pensino di aver preso la gatta (cioè la coppa) prima di averla messa nel sacco.
LA TRAGEDIA DI BRUXELLES
ORE 19, CRONACA DI UNA STRAGE
30 maggio 1985
dal nostro inviato Mario Sconcerti
BRUXELLES – Ho visto la scintilla di un massacro accendersi improvvisamente quasi per gioco e allargarsi in modo incredibile, pauroso, fino a travolgere una vita dopo l’altra. Mentre scrivo sono appena passate le 21. Juventus e Liverpool avrebbero dovuto finire adesso il primo tempo di questa tragica notte di Coppa dei Campioni. Dai sotterranei dello stadio continuano invece a passare soltanto barellieri, infermieri, medici e poliziotti. Quello che è diventato un improvviso bollettino di guerra parla adesso di trentotto morti, quasi tutti italiani, moltissimi con la cassa toracica schiacciata contro i muri di recinzione, altri con la gola aperta dalle grandi punte metalliche che chiudono le transenne. Ma c’è una confusione indescrivibile, soprattutto panico. Lo stadio Heysel è praticamente assediato dalla polizia. Dovunque piccoli ospedali da campo improvvisati, gente sanguinante, sconvolta, gente che si cerca, si chiama. La piccola infermeria dello stadio è letteralmente scoppiata in pochi minuti. Vi hanno portato un morto dopo l’altro e uno dopo l’altro veniva fatto scomparire nel fondo di ambulanze che continuavano ad arrivare da tutta la città. Assurdamente, con atti di fede e di disperazione, molti morti sono stati portati via avvolti nelle bandiere bianconere della Juve. Tutto è cominciato verso le 19. Lo stadio era già pieno, di gente immersa nei soliti riti di festa che precedono la grande cerimonia della partita. Non c’erano segnali di paura. Nel pomeriggio era giunta notizia di un ferito, ma era sembrato quasi un tributo normale per orge di follia come questa. Allo stadio colpivano comunque subito i vasti spazi che si aprivano in una curva. Era una specie di territorio di nessuno che si allargava fra una parte dei tifosi juventini e il settore dove quasi tutti gli inglesi erano stati instradati dalla polizia belga. C’era molta paura di questi tifosi del Liverpool rissosi per tradizione, molto spesso ubriachi. I belgi li avevano affidati a milleduecento agenti fin dal loro arrivo ad Ostenda due giorni fa. Li avevano tutti relegati in un paese nei pressi di Bruxelles e condotti allo stadio con linee speciali della metropolitana. Stipati nel loro settore gli inglesi hanno cominciato ad ondeggiare paurosamente poi hanno cercato il loro spazio vitale al di là delle transenne. Non un poliziotto presidiava quell’ideale, fragilissima, terra neutra. Gli inglesi si sono immediatamente allargati a macchia d’olio entrando in collisione con le prime file dei tifosi juventini. Sono subito volate botte, anche violente, ma per qualche istante è sembrata la solita rissa da stadio, malinconica e inevitabile. La gente indicava e quasi sorrideva. Faceva colore. Poi è successo qualcosa di tremendo, come lo sfondamento di un fronte. Di colpo quell’improvvisa linea juventina ha ceduto, la gente è cominciata a scappare sotto i colpi di giovanissimi energumeni inglesi. Scagliavano mattoni, bottiglie e colpivano con un’incoscienza bestiale venendo sempre più avanti. È esploso il panico. Gli italiani sono precipitati l’uno sull’altro travolgendosi a vicenda, cercando scampo in spazi che si restringevano a vista d’occhio. Quattro-cinque mila persone in pochi istanti si sono accalcate contro il muro di recinzione laterale sbandando paurosamente, continuando a precipitare dalle gradinate. Una fuga tragica e disperata che si è trasformata in un assalto alle transenne. L’unica speranza era il campo, il terreno di gioco, e tutti hanno cercato di passare quella acuminatissima barriera metallica. Sconvolti, imbottigliati, ancora pressati da assurde avanguardie inglesi che continuavano a picchiare, i tifosi italiani hanno cominciato una tremenda corsa al suicidio. Ho visto decine e decine di persone cadere dall’alto delle transenne e stramazzare al suolo con il sangue che schizzava violento. E gli altri che fuggivano come pazzi. È successo tutto in pochi minuti e senza che la polizia belga abbia mai mosso un dito. Quando è arrivata in forze ed ha caricato gli inglesi, le tribune e il campo erano già un cimitero. Uno spettacolo agghiacciante, indescrivibile, che ha finito di accendere il resto dei tifosi italiani. Per un attimo siamo stati ad un passo dalla battaglia generale, definitiva. Dalla curva opposta gli italiani hanno infatti sfondato le reti e a decine si sono precipitati dall’altra parte. Per fortuna stava appena entrando la polizia a cavallo che è riuscita a tamponare almeno questo assalto. Una fortuna misera che pochissimo toglie allo sgomento. Sono adesso le 21,40. Dentro lo stadio è tutto così tornato assurdamente normale che le squadre stanno perfino entrando in campo. Fuori tre grandi tende allargano sempre più l’ospedale di questa battaglia del calcio. La verità è che nessuno sa come far uscire cinquantamila nemici dallo stesso luogo senza altri incidenti. Si dice che stia arrivando l’esercito. La partita sarebbe solo un grottesco tentativo per prendere tempo. Impossibile sapere se avrà una qualche ufficialità. C’è da augurarsi di no per quello che di umano resta in questa notte di pazzia. Mentre si gioca, l’altoparlante annuncia messaggi strazianti. Nomi su nomi che cercano, gente che si dà appuntamenti disperati immersa nella paura che non verrà nessuno. Nella curva del massacro sono rimasti adesso soltanto i resti della tragedia. Documenti, sciarpe, bandiere, vestiti stracciati, scampoli di vita che non appartengono più a nessuno. Ma intanto si gioca. Lo stadio è ormai presidiato. Nessuno può muoversi dal proprio posto, in qualunque settore. Fuori, centinaia di camion e cellulari continuano a scaricare agenti. Mentre Boniek cade in area e Platini realizza il rigore, la radio annuncia che tra i morti ci sarebbero undici bambini, tutta la squadra giovanile dell’Anderlecht. Avevano appena finito di giocare, una sorta di avanspettacolo felice che permetteva poi a tutti di vedersi la partita da sotto le tribune. Sarebbero rimasti schiacciati dalle transenne in cemento che facevano da base alle reti di recinzione travolte nel momento della grande fuga. Quando la partita finisce si scatenano scene di entusiasmo. Fuori centinaia di feriti son stati portati in dieci ospedali tra la città e la provincia. Dentro il dubbio è solo se la Coppa sarà valida o no.
UNA COLPA CHE PESA SU TUTTI
30 maggio 1985
dall’inviato GIANNI BRERA
BRUXELLES – Ero venuto come tantissimi altri per assistere e in certo modo prendere parte alla celebrazione di una grande festa di sport. Sono letteralmente sconvolto dall’orrore. Confesso che, per un momento, mi sono rampollate dall’animo tutte le rabbie che a me giovane avevano instillato i politici del nostro paese, non meno caro che disgraziato (allora). Poi, a mia volta, mi sono sentito in colpa. Voci spaventose giungevano dall’antistadio, dove gli impreparatissimi belgi avevano apprestato un pronto soccorso. Chi riferiva di dieci, poi di diciotto, infine di trenta, e adesso addirittura di quarantuno morti, e forse non è finita. Purtroppo, quasi tutti nostri connazionali, che il terrore aveva spinto a cercare salvezza calpestando chiunque incontrasse nella disperata fuga. Tra quella parte di tribuna occupata da una minoranza di italiani e da una folla preponderante di liverpoolesi, tre sparuti impotenti poliziotti belgi. Eccitati dall’odio, di cui si conoscono capaci come pochi al mondo, e ancora dall’alcol, di cui sono tragicamente avidi fino all’incontinenza più smaccata, non meno di cento mascalzoni si sono scatenati lanciando mattoni sassi e bottiglie. Il fuggi fuggi è stato accorante. La polizia belga è giunta sempre più in forze ma, ahimè, troppo tardi. Ormai l’attesa festa era bruttata da un eccidio senza precedenti in questa parte civile d’Europa. Mentre tento di esprimere la mia mortificazione di uomo di sport, i superstiti dell’immonda mattanza passano ciascuno a raccontare la propria storia, piena di orrore e degna di umana pietà.
LO STADIO, il caro ma obsoleto Heysel, è come gravato da una cappa di angoscia. È inevitabile pensare a quello che incombe su tutti buoni e malvagi, che si erano illusi di celebrare una festa: come far sgomberare lo stadio da due moltitudini fra loro ostili fino all’odio più acre ed esasperato? Gli italiani hanno a lungo insultato i poliziotti belgi troppo inferiori al loro compito: il minimo insulto era “buffoni!”: ma adesso mi chiedo in quali disperate ambasce si trovano le autorità di Bruxelles. Sono presenti almeno quindicimila italiani e altrettanti inglesi. Cosa sarà di loro, se si troveranno soli ad affrontare lo sfollamento? Se non ci fosse aria di tragedia, verrebbe fatto di ricordare come per eccessi di molto inferiori a questo è stato proibito da noi il gioco del calcio nel secolo XVI… L’imbarazzo sfiora il rimorso in tutti noi che allo sport credevamo come all’antidoto più puro e sincero della guerra. Così come siamo caduti, la voglia è di mandare tutti al diavolo. Se vogliamo prenderci a calci, stiamo a casa nostra. E si vergognino quei popoli che, atteggiandosi a civili, mandano per il mondo questi mascalzoni efferati e ahimè più volte recidivi nei loro eccessi delittuosi. Alle 21,40 inizia una partita che alcuni bene informati dicono finta. Questo per consentire alle forze dell’esercito acquartierate in Bruxelles di preparare due vie di ritirata e quindi di sfollamento per i gruppi nemici. A quale punto siamo giunti. Poiché si gioca, mi tocca guardare.
‘LA PARTITA, UN ATTO DI CINISMO’
31 maggio 1985
ROMA – “Far disputare Juventus-Liverpool è stata una grande prova di cinismo. Se fosse dipeso da me, la partita non avrebbe avuto luogo”: il presidente del Consiglio Craxi non ha usato giri di parole commentando con i giornalisti, sull’aereo che li riportava in Italia da Mosca, la tragedia di Bruxelles. “Ho cercato di parlare da Mosca con la Thatcher, poi con il primo ministro belga Martens, infine con qualcuno allo stadio Heysel dove s’era appena compiuto quel fatto orribile: sono solo riuscito a parlare col ministro belga degli Interni, Nothomb, ma quando il match tra Juventus e Liverpool era già cominciato da cinque minuti. Avessi potuto, avrei fatto sospendere la partita. Non ci sono riuscito. Ho detto a Nothomb che l’opinione pubblica mondiale avrebbe deplorato la sua decisione”. Craxi ha indicato ragioni di ordine morale al Ministro belga che adduceva invece quelle di ordine pubblico. Il presidente del Consiglio aveva in precedenza saputo da Roma che i dirigenti della Juventus si erano dichiarati in un primo momento contrari alla disputa della partita. Ma ormai era tardi. Di parere diametralmente opposto a quello del capo del governo ieri si è detto il ministro dell’Interno, Scalfaro: “Io stesso ho avuto qualche pressione politica affinché mi adoperassi perché la partita fosse rinviata. Però credo che la decisione di farla disputare, anche se penosa, sia stata la più saggia: è stata presa esclusivamente per motivi di ordine pubblico”. Scalfaro, ricordando l’organizzazione italiana di Roma-Liverpool dell’anno scorso, ha criticato l’organizzazione e la designazione di Bruxelles come sede della finale. Sul tema del disastro logistico che ha preparato la tragedia sono fioccate ieri le prese di posizione, le interrogazioni e le interpellanze al Senato e alla Camera che come tutti gli edifici pubblici avevano abbrunata la loro bandiera. Manifestando sdegno, il segretario della Dc De Mita ha condannato la “totale insufficienza e la leggerezza” dell’organizzazione. Poi, parlando degli incidenti, ha detto: “Un teppismo ai limiti del razzismo, una violenza che non trova alcuna giustificazione nei contrasti sportivi”. In casa dc, però, c’è anche chi non è d’accordo con Scalfaro. Tre deputati democristiani hanno presentato un’ interrogazione per conoscere i motivi che hanno consentito lo svolgimento della finale. I tre sollecitano anche un provvedimento disciplinare contro il telecronista Bruno Pizzul, che ha parlato “di giornata radiosa per il calcio italiano”. Nilde Jotti e Francesco Cossiga, presidenti della Camera e del Senato, hanno commemorato in mattinata e nel pomeriggio le vittime della tragica serata. Per tutto il giorno si sono incrociate le telefonate di cordoglio tra Re Baldovino e il presidente Pertini, che ha ricevuto il ministro dei Trasporti e l’ambasciatore belgi al Quirinale, latori di messaggi di cordoglio del governo. Craxi ha ricevuto un telegramma dello stesso tenore da parte del premier belga, Martens. Il Consiglio dei ministri di oggi si occuperà in apertura della tragedia di Bruxelles. Per il Pci, il presidente dell’Arci, Serri, ha chiesto che sia fissata la data, dopo il referendum, per una discussione del Parlamento sulla “violenza negli stadi”, e ha criticato il modo in cui si è comportata la Rai, critica questa che è stata ripresa da diversi altri parlamentari. Democrazia proletaria ha chiesto alla Federcalcio di sospendere il calcio di serie B e C, domenica prossima, in segno di lutto e per favorire la riflessione. Ancora: il ministro socialdemocratico Nicolazzi, reduce da Bruxelles, ha diffuso la sua testimonianza concordando con la necessità di giocare, posizione che era della grande maggioranza dei parlamentari che ieri pomeriggio hanno dibattuto al Senato con il governo gli aspetti della tragedia. “Ma se si è giocato per l’ ordine pubblico”, ha detto il senatore dc D’Onofrio, “è incredibile che la Juve non abbia poi rinunciato alla Coppa”.
CON UN TELEGRAMMA AL PRESIDENTE CEI IL PAPA ESPRIME “VIVO ORRORE E CONDANNA”
ROMA – Con un telegramma inviato a suo nome dal segretario di Stato, Casaroli, al presidente della Cei, Ballestrero, il pontefice ha espresso il suo “vivo orrore” e la sua condanna, per la tragedia di Bruxelles, provocata da “comportamenti feroci e irrazionali”. Giovanni Paolo II auspica che “organizzazioni sportive, autorità competenti e strumenti di comunicazione sociale si adoperino con concorde e tempestivo impegno per creare una visione dello sport che sia veramente al servizio dell’uomo”. Un altro telegramma è stato inviato da Casaroli, sempre a nome del papa, all’arcivescovo di Malines-Bruxelles: “Il santo padre mi incarica di assicurarvi che egli è profondamente colpito da una simile violenza e dalle sue conseguenze, che egli deplora dal fondo dell’anima.
CON TANTA NOSTALGIA DI UNO SPORT NOBILE
31 maggio 1985
di GIANNI BRERA
POVERO calcio, di noi povera gente: sport per eccellenza plebeo, proibito per secoli in quanto a praticarlo erano gli umili, troppo spesso confusi con i villani! Le plebi hanno preso quota nell’ordine politico-sociale delle nazioni e anche i loro gusti hanno finito per imporsi. Giocò a calcio in Italia anche un principe del sangue: e i suoi compagni erano quasi tutti nobili o grandi borghesi. Poi si accorsero che pedatare squalificava, nel Paese-guida dello sport moderno e passarono al golf, al tennis, rimanendo pur sempre alla scherma e all’equitazione. I pedatori furono allora di schiatta piccolo-borghese, e belli come poteva essere chi da qualche generazione pappava bistecca. Infine raggiunsero il plus-calore anche i poveri del quarto e quinto stato: e decadde la qualità ma crebbe il numero. Noi italiani siamo a questo punto. Gli inglesi, loro hanno incominciato a cedere un tantino nei confronti della pedata volgare. Decaduta la boria imperiale, bisognava consolarsi dov’era possibile. Il calcio ha preso quota allora anche presso i non indigenti (come da poco in Svezia e Danimarca), ma il relativo benessere del singolo cittadino ha consentito a troppi di spostarsi nelle vesti di pseudo-turisti. Erano spesso i fanatici a imbrancarsi: e tanto più feroci quanto peggiori erano le condizioni economiche del loro quartiere o della loro città. Ora la più decaduta tra le città inglesi è proprio Liverpool. E le sue due squadre eccellono come per una rivalsa che in altri campi non è possibile. I belgi hanno conosciuto l’Everton l’anno scorso e pareva non avessero altro da apprendere sui seguaci del Liverpool. Purtroppo hanno fatto penosissima cista. Il loro Heysel, un tempo onorevolissimo, è ormai insopportabilmente obsoleto. Ha le due curve in terra battuta con gradini sorretti da pietre malferme: in queste curve gli spettatori sono costretti a stare in piedi. Ammassare oggi folte moltitudini sugli spalti di curve senza posti a sedere significa esporsi a rischiose calamità pubbliche. Per loro disgrazia, i belgi hanno ottenuto dalla Uefa l’incarico di organizzare la Coppa Campioni. Sapevano di aver a che fare con orde di inglesi avvinazzati e feroci. Non hanno riflettuto però che gli spiantati liverpooliani non potevano competere con i ricchi juventini di tutta Italia, e che metà della curva destinata agli ospiti albionici sarebbe stata accaparrata – magari a borsa nera – dagli italiani. Così non hanno ritenuto i belgi di dividere più efficacemente i rappresentanti di due popoli l’uno all’altro inviso per troppo differenti destini passati e presenti. Alla tradizionale spocchia degli inglesi, il visibile benessere degli italiani doveva suonare come un’offesa patente, uno sberleffo tragico della sorte: dunque, ai più scalmanati non è parso vero di farla subito fuori. I pochi sparuti poliziotti belgi sono stati travolti. Gli italiani, prima sorpresi, poi atterriti, si sono ristretti fino a soffocarsi. I vecchi spalti interrati dello Heysel sono divenuti orrendo cimitero. Mortificati e stravolti, i belgi hanno taciuto lì per lì la tragedia, hanno chiamato allo Heysel tutta la polizia a disposizione nel regno: non è bastato. La partita, che pareva giocata per tacitare i manigoldi, si è risolta a favore della Juventus, il cui tripudio ha un po’ stupito dopo tanti decessi. Gli inglesi di Liverpool sono tornati alle loro tane, alla loro quotidiana mortificazione di paria. Gli italiani, fino a ieri sottovalutati e derisi, hanno meritato la sincera comprensione di tutti. Giorno verrà – non è affatto lontano – che il calcio perderà i suoi satanici sapori di transfert dalla degradazione e dalla miseria. Allora tornerà ad essere per molti quello che è sempre stato: il gioco forse più bello di tutti. Parola di un povero fra i tantissimi poveri di questo mondo.
UNA COPPA DA RESTITUIRE
31 maggio 1985
di GIANNI ROCCA
DA DOVE cominciare per comprendere ciò che è accaduto a Bruxelles? I dati di fatto e le immagini televisive, col loro carico di angoscia e di raccapriccio, si mescolano. Come si fa ad essere lucidi e freddi di fronte alla “morte in diretta” intrecciata con una gara di calcio? Eppure un’analisi va tentata, uno sforzo per riportarci alla ragione va compiuto. Ed a spingerci alla riflessione c’è la sensazione che sentiamo diffondersi nelle persone civili: difficilmente d’ora in poi – e chissà per quanto tempo – si potrà fare a meno di coniugare il gioco del calcio con l’eccidio dello stadio Heysel. Quel dramma ci ha cambiati. Non potremo più essere quelli di prima. E allora cominciamo. Dai tifosi inglesi, in primo luogo. Violenze negli stadi sono segnalate da ogni parte del mondo, Unione Sovietica compresa. Il “mal sottile” della nostra epoca ha contagiato ogni parte del globo: dalla “civile Europa” ai paesi del Terzo mondo. Ma se nessuno può scagliare la prima pietra, è certo che la tifoseria inglese da molti anni a questa parte ha assunto un triste primato. C’è, in queste ore, chi tenta di criminalizzare un intero popolo, quello britannico, per ciò che è accaduto. La reazione sdegnata del governo di Londra e dei massimi responsabili contro il teppismo sportivo del loro paese comprova la consapevolezza della gravità del fenomeno e la precisa volontà di non coprirlo. Bene, ma che alle parole seguano i fatti. Un paese civile come l’Inghilterra non può restare fermo a generiche recriminazioni.
DI FRONTE al massacro di Bruxelles occorre un segnale ben preciso, una riparazione verso i morti, i grandi dimenticati della tragedia. Si proibisca ai tifosi inglesi, fino a quando non vengano adottate tutte le garanzie necessarie, di seguire le loro squadre all’estero. Ovunque sono stati hanno lasciato una scia di lutti, di vandalismi, di ubriachezze di massa, violente e moleste, uno spettacolo complessivo di inciviltà. La signora Thatcher è conosciuta nel mondo come la “signora di ferro”. Ecco, lo dimostri, dispieghi per lo meno la stessa energia con cui ha contrastato lo sciopero dei suoi minatori. Proseguiamo nell’analisi chiamando in causa gli organizzatori di quella che doveva essere una serata sportiva. Quali garanzie hanno richiesto, quali controlli hanno esercitato i dirigenti del calcio europeo per uno spettacolo sul quale pesava tanta e ben conosciuta tensione? Era Bruxelles la sede adatta? Era quello stadio sufficientemente capiente? Quali misure di polizia sono state sollecitate, ben conoscendo i tristi bilanci di precedenti manifestazioni? O gli uomini che dirigono l’Uefa credono che i loro compiti si esauriscano nei sorteggi? Non sanno, essi, che cos’è diventata, per la posta in gioco, una finale internazionale di calcio? Oggi, anche i dirigenti dell’Uefa debbono rispondere di quei morti, i grandi dimenticati della tragedia. Troppo facile, dopo, scaricare ogni colpa sulle autorità belghe. Che indubbiamente esistono, eccome. Chi pagherà a Bruxelles per l’inadeguatezza delle forze di polizia, incapaci e impotenti? Chi dovrà rispondere della mancata “strategia” nei compiti dell’ordine pubblico, priva addirittura di quell’elementare norma di sicurezza, oggi unanimemente accettata, che impone la divisione “fisica” fra le due schiere di sostenitori? È altamente apprezzabile la visita dei reali del Belgio alle povere salme. Ma perché quel saluto non resti formale e genericamente pietistico, il governo belga punisca chi ha dato prova di così patente incapacità professionale. E veniamo alla tifoseria italiana, duramente brutalizzata e che ha nelle sue file il maggior numero di vittime. La TV ha dimostrato, in modo inoppugnabile, l’aggressione di massa dei supporters del Liverpool. Ed a loro è giusto che sia ascritta la responsabilità principale. Ma davvero nelle schiere juventine non si annidavano gruppi di teppisti? L’avvio degli incidenti non è forse avvenuto nel primo pomeriggio a Bruxelles, quando un tifoso della squadra inglese è stato accoltellato a morte da un italiano? E che dire di quei drappelli di “fans” juventini che prima dell’inizio della gara hanno ripetutamente bersagliato gli agenti di polizia, sfidandoli ad una reazione più che giustificata che, per fortuna, non c’ è stata? Possiamo dimenticare l’austriaco accoltellato a morte a Milano, il tifoso romano ucciso da un razzo, le infinite scene di violenza dentro e fuori i nostri stadi, le carrozze ferroviarie e gli autobus distrutti o saccheggiati dalle turbe dei tifosi italiani in viaggio per la penisola? Anche da noi il gioco del calcio è diventato, per i miliardi investiti e per gli interessi coinvolti, un detonatore di follie collettive. Possiamo continuare ad attribuire tutte le colpe a sparute minoranze di facinorosi o non dobbiamo invece porci il problema di un fenomeno degenerativo che si sta allargando a macchia d’olio? A Bruxelles si è giocato per motivi di ordine pubblico – è stato detto – perché si temeva che l’annuncio della sospensione della gara potesse provocare altri lutti, altri scontri. Ma allora, che senso hanno avuto le partecipate telecronache, dopo il gol di Platini, il tripudio finale dei giocatori bianconeri, lo sventolio delle bandiere del club, l’assordante carosello di auto fino a tarda notte a Torino per celebrare il successo? E tutto ciò mentre migliaia di famiglie impazzite dal dolore cercavano per telefono di aver notizie dei loro cari presenti a Bruxelles. Questo sdoppiamento tra il rispetto per la morte, l’antico e profondo patrimonio di ogni cultura, e la gioia della vittoria non testimonia forse in modo incontrovertibile che la sfida sportiva è ormai di natura guerresca? È contro questa logica che dobbiamo insorgere. A Bruxelles si è giocata una “finta” partita: gli atleti sono stati mandati in campo per evitare altri drammi. Quella Coppa che ieri mattina i calciatori della Juventus agitavano al loro rientro a Torino è macchiata di sangue. Non può essere esposta, senza un moto di raccapriccio, nella bacheche dei trofei di una squadra come la Juventus, che passa per la “signora” del calcio italiano. Anche pubblicazioni recenti hanno accreditato la tesi di uno “stile Juventus”, anzi di uno “stile Agnelli”. Rifletta il presidente di quel club, così amato e popolare, quale lezione darebbe al mondo sportivo rinunciando al simbolo di una vittoria carica solo di dolore. E quale lezione impartirebbe agli inventori del “fair play” se proponesse di rigiocare la gara, a tempo debito, in diverse condizioni, come prologo ad un modo nuovo di fare football. Se su quelle bare allineate a Bruxelles non c’impegneremo, ciascuno per la sua parte, a trarre partito da ciò che è accaduto, il calcio non avrà vita lunga. Altre violenze, altri lutti lo renderanno sempre più sport inviso, plebeo, incivile. E non resterà che praticarlo a stadi vuoti, davanti ai freddi occhi delle telecamere.
‘FASCISTI DEL NATIONAL FRONT IN MEZZO AI TIFOSI DEL LIVERPOOL’
31 maggio 1985
dal nostro corrispondente PAOLO FILO DELLA TORRE
LONDRA – Sono le prime ore di giovedì mattina, nelle vicinanze delle bianche scogliere di Dover ci sono soltanto fotografi, operatori e qualche reporter ad accogliere le navi che trasportano i tifosi del Liverpool, fatti partire con tutta fretta dal Belgio dopo il massacro allo stadio di Heysel. Sbarcano alcune migliaia di giovanotti dall’aria stralunata, molti hanno maglioni dello stesso colore, il rosso, della squadra del cuore. Altri sono avvolti nella Union Jack. Nessuno ha la giacca o la cravatta, non mostrano alcuna cura di se stessi: sporchi, barbe non rasate, abiti sgualciti. Alcuni appaiono tristi, avviliti, scossi dalla tragedia della sera, tra loro c’è chi giura che non metterà più piede in uno stadio ma altri sono polemici rifiutando ogni responsabilità: danno la colpa ai belgi e c’è persino chi afferma: “Gli italiani ci avevano picchiati lo scorso anno a Roma. Noi avremmo voluto dare loro una piccola lezione a Bruxelles. Se non si fossero fatti prendere dal panico e non fossero tutti scappati nella stessa direzione, il muro non sarebbe crollato”. I bobbies che in questa occasione sono efficientissimi, li fanno marciare rapidamente verso i treni speciali che li riporteranno a Nord. L’operazione sbarco-partenza dura pochi minuti. Quattro ore dopo i treni arrivano a Liverpool. È una città piena di orgoglio per i suoi pochi gioielli residui, più splendenti di tutti le due formidabili squadre di calcio. I tifosi britannici hanno una lunga tradizione di violenza. Desmond Morris nel suo studio sul comportamento degli sportivi inglesi, li ha definiti un “tribal disaster” ed è risalito agli inizi del secolo per analizzare gli orrori del loro comportamento. Ancor di recente, ventitré anni fa, il Glasgow Ranger fu squalificato a Barcellona per il comportamento dei suoi fans. Lo stesso è avvenuto per il Tottenham nel 1974. Un anno dopo furono quelli del Leeds a seminare terrore a Parigi. Nel ’77 e nel 1982 fu la volta del Manchester. Ma le squadre di Liverpool erano sempre state al disopra di ogni sospetto. Adesso, come ha scritto oggi un quotidiano popolare, l’immagine del grande Liverpool si è macchiata in un pozzo di sangue italiano in Belgio. I parlamentari della città sono unanimi nel loro giudizio, malgrado la differenza delle loro etichette: “Liverpool sente il peso della vergogna”. Afflitti per la umiliazione subita ad opera dei loro concittadini, appaiono gli abitanti di Liverpool. I pubs sono vuoti, la gente cammina a testa bassa, è difficile vedere qualcuno sorridere. Joe Fagan, l’allenatore del Liverpool dai nervi di ferro, intervistato dalla BBC, ha tentato di sostenere le domande poi è scoppiato in un pianto di disperazione. Il sindaco ed il consiglio comunale avevano preparato una trionfale accoglienza per la squadra di ritorno da Bruxelles, ma bandiere e stendardi sono stati listati a lutto ed il ricevimento cancellato. Il presidente del Liverpool John Smith, un maturo signore molto stimato, ha tenuto una conferenza stampa per informare il governo e l’ opinione pubblica di essere in possesso di prove sull’impegno terroristico del National Front, i neo-nazisti britannici che con la complicità di altri personaggi dell’Internazionale nera, si sono infiltrati tra i tifosi della squadra per alimentare tensioni e per aggravare gli incidenti. Bandiere e stendardi del National Front sono stati notati anche da numerosi osservatori allo stadio belga. Le prove di Smith saranno fatte pervenire al governo. Gli esponenti del “Fronte” hanno rivendicato la paternità dell’azione davanti allo stesso Smith. La rete televisiva inglese ITV ha mandato in onda ieri un filmato in cui si vede un tifoso sparare contro la polizia. Il tifoso secondo la TV britannica veniva dagli spalti occupati dal pubblico juventino.
LA THATCHER STANZIA 700 MILIONI
31 maggio 1985
LONDRA (PFdT) – “Ventiquattro ore dopo la tragedia gli avvenimenti di Heysel appaiono ancor più orribili”, la signora Thatcher ha la voce tremante dalla collera e dall’emozione. Ci appare dinnanzi al portone di Downing Street, indossa un sobrio vestito grigio, ed in poche occasioni è stata vista nervosa ed impacciata come adesso. La lady di ferro non soltanto è turbata, si sente tradita dai killer tifosi del Liverpool. Il Primo Ministro britannico non ha difficoltà ad ammettere che il problema della violenza negli stadi è uno di quelli che maggiormente la preoccupano anche perché sembra difficile intravedere una soluzione. Per controllare la esplosione dei teppisti, la first lady li aveva fatti scortare da duecento policemen. “Questi orrendi individui debbono essere catturati e severamente puniti”, ha detto Margaret Thatcher riferendosi ai “mostri di Heysel”. Il premier ha anche inviato un telegramma a Craxi: “Non vi sono parole per esprimere adeguatamente l’orrore e la ripugnanza che io e milioni di cittadini britannici abbiamo provato di fronte alle scene di violenza a cui abbiamo assistito durante la finale della coppa europea a Bruxelles. Questi terribili avvenimenti hanno arrecato vergogna e disonore ai responsabili e alla loro nazione. Non avrebbero mai dovuto verificarsi. A nome del governo di Sua Maestà desidero esprimere la mia più profonda partecipazione al dolore delle famiglie di tutte le vittime. Sono certa che voi istituirete un fondo per l’assistenza a quelle famiglie. So che il popolo britannico avrebbe il desiderio e l’aspirazione di contribuirvi”. La dama di ferro aveva appena concluso la riunione (durata due ore) del consiglio dei ministri ed aveva proceduto ad avvisare l’Ambasciatore d’Italia Andrea Cagiati della sua intenzione di creare un fondo per le famiglie delle vittime dei “bruti che hanno gettato vergogna e disonore sulla Gran Bretagna” con una dotazione iniziale del Governo britannico di duecentocinquantamila sterline pari a circa settecento milioni di lire. I ministri della lady sono impressionati dalla sua determinazione. Ma i sentimenti del primo ministro sono condivisi da tutta l’ Inghilterra. Un deputato conservatore, Terry Dicks, ha chiesto le dimissioni del ministro dello Sport MacFarlane. Il leader dell’opposizione Kinnock ha espresso da Budapest il suo “orrore e la sua rabbia”, quello socialdemocratico David Owen è apparso altrettanto duro nella sua condanna e così pure l’ Arcivescovo di Canterbury e la Regina Elisabetta. La stessa sovrana, come il principe Carlo e la principessa Diana, hanno inviato un lungo messaggio di solidarietà e rammarico a Pertini ed a Craxi. Il Consiglio comunale di Liverpool vuole visitare Torino per esprimere al sindaco italiano il turbamento della città inglese.
QUELLA INUTILE RIUNIONE IN TRIBUNA
1 giugno 1985
di GIANNI MINA
TRE GIORNI dopo la tragedia, siamo in grado di ricostruire la grottesca riunione svoltasi all’interno dello stadio “Heysel”, alle spalle della tribuna d’ onore: otterremo il quadro completo della superficialità, della presunzione delle autorità belghe addette alla sicurezza dello stadio. Erano circa le 20.30, più d’ un’ ora dopo l’ inizio della tragedia e solo allora questi soloni si riunivano per prendere decisioni. Tutto questo cinico distacco contrastava invece con l’efficienza del servizio di soccorso civile. In quel breve lasso di tempo infatti erano già state organizzate tende da campo, autoambulanze, elicotteri per il trasporto dei feriti. Vigili del fuoco e Croce Rossa lavoravano con umanità ed efficienza malgrado l’angoscia per la portata del dramma, mentre il Borgomastro di Bruxelles, bicchiere di whisky in mano, era preoccupato solo di far chiudere bene le tende della vetrata della sala perché la gente che fuori si affannava fra disperazione, rabbia, solidarietà e dolore non si accorgesse di loro. Erano riuniti con il Borgomastro che in Belgio ha funzioni anche di prefetto, il commissario coordinatore del servizio allo stadio, Monsieur Poels, il presidente dell’ Uefa Georges (francese), il vicepresidente lo svizzero Braun Gartner, e, oltre a Boniperti e al presidente del Liverpool, anche i ministri De Michelis e Nicolazzi, il presidente della Federcalcio Sordillo con il segretario Borgogno e i dirigenti della Federazione belga maldestra, per non dire sciagurata organizzatrice della finale di Coppa Campioni. Dentro, nella sala della tribuna d’onore il commissario Poels aveva intanto cercato di difendere il suo operato sostenendo che il piano per il controllo allo stadio era stato preparato accuratamente e che quindi tutto era successo per una tragica fatalità o una insensata, imprevedibile iniziativa dei tifosi del Liverpool. Poels mentiva sui controlli, perché gli stessi scampati dalla carneficina del settore “Z”, ci avevano mostrato un attimo prima feriti, stracciati, o impauriti, le loro borse o i loro tascapane che nessuno aveva mai controllato all’entrata, ma almeno lui cercava di essere preciso, obiettivo. Il Borgomastro di Bruxelles lo smentiva dicendo che tutto era dovuto all’incontenibile aggressività di due fazioni esagitate e violente come quelle dei tifosi del Liverpool e della Juve. Sordillo e Boniperti si battevano subito, data la tragica situazione venutasi a creare, per la non effettuazione della partita. Ma non venivano assecondati. Il comportamento dell’Uefa e della Federazione belga faceva sorgere il dubbio, atroce ma legittimo, che più che l’ordine pubblico o la morale di quello che stava succedendo, interessasse l’incasso da restituire al pubblico oltre ai contributi da ridare agli sponsor presenti con i cartelli allo stadio Heysel. E poi le “querelles” dell’assegnazione della Coppa a tavolino, e i problemi di stabilire la responsabilità oggettiva di quelli del Liverpool piuttosto che di quelli della Juve. Marionette nelle mani di questi cinici burattini diventavano i giocatori delle due squadre. Alcuni di quelli della Juve erano andati poco prima, di loro iniziativa, in mezzo ai loro tifosi, acquartierati nella curva opposta a quella della tragedia, per coscientizzarli. Poi si giocava la partita, tra finzione e realtà e al gol di Platini si capiva che la gente nello stadio, anche la maggior parte degli italiani non aveva capito o non era riuscita ad intendere la portata del dramma. Dieci minuti prima che la rappresentazione finisse tutti i burattinai, fino in fondo inadeguati alle loro responsabilità, se la filavano dallo stadio. Un anonimo dirigente belga consegnava a Scirea una Coppa nello spogliatoio perché la facesse vedere ai tifosi juventini. Sull’aereo che la mattina dopo da Bruxelles ci portava a Città del Messico quattro giocatori della Juventus, Tardelli, Rossi, Scirea e Cabrini ancora stravolti dalla terribile esperienza, spiegavano imbarazzati la loro posizione. “La nostra società e noi non volevamo giocare per rispetto dei nostri morti. Ce l’hanno imposto i dirigenti dell’Uefa e della polizia belga per motivi di sicurezza. Una volta in campo ci siamo resi conto che il pubblico, anche quello italiano, era completamente all’oscuro o poco informato delle reali dimensioni della tragedia. Questa realtà è stata chiara al momento del gol di Platini. Abbiamo comunque continuato a giocare schiacciati da una responsabilità enorme per evitare altri possibili incidenti. La nostra responsabilità era ancora più grande per la latitanza di coloro che ci avevano imposto di giocare e che alla fine della partita erano tutti spariti. Ci hanno consegnato una Coppa e ci hanno detto di mostrarla ai nostri tifosi”. “Non ci rimaneva che terminare la nostra recita. L’abbiamo fatto. Nessuno è venuto a dirci niente. Ci hanno solo raccomandato di rimanere nella metà campo dello stadio dove c’erano i tifosi della Juventus. Non sapevamo assolutamente che fare, se dirigerci verso il luogo del disastro e magari eccitare ulteriormente gli animi oppure recitare soltanto fino in fondo il ruolo che ci avevano chiesto. Lo abbiamo fatto con la morte nel cuore e speriamo soltanto che nessuno ci chieda più una cosa simile, mai più”.