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Spartacus (1960) – Recensione di Ernesto G. Laura

Spar­tacus ha il pregio di inserire una voce autentica nella grande produzione di Hollywood e dunque di incidere sul gusto di milioni di spettatori e di dimostrare che incassi ed impegno d’arte non sono per forza in contraddizione fra loro.

di Ernesto G. Laura

Quello di Spartacus costituiva di per sé un esperimento curioso ed un imprevisto approdo da parte d’un regista come Stanley Kubrick, finora misuratosi con i ristretti mezzi delle produzioni in economia dei gruppi «Off-Hollywood», gli indipendenti. Quando girò Spartacus — tre ore di proiezione, migliaia di comparse, technirama e technicolor, una sfilata di «mattatori» famosi, da Kirk Douglas a Laurence Olivier, da C. Laughton a Peter Ustinov — Kubrick aveva, 1959, trentun anni. Dietro, come s’è detto, c’era la poca esperienza professionale di quattro film girati con pochi soldi e in condizioni sperimentali, anche se uno, l’ultimo, Paths of Glory (Orizzonti di gloria, 1957) aveva richiamato l’attenzione della critica più impegnata di ogni paese sul suo allora ventinovenne autore. Ci troviamo davanti, è chiaro, ad un «enfant prodige», ma il termine lo usiamo senza il fastidio — o il sospetto o la diffidenza — che usualmente vi si accompagna, perché Kubrick ha saputo prestissimo scrollarsi di dosso i lambiccamenti formali è le esteriori avanguardie che pesano in genere sui giovani di talento. Senza dubbio, in Killer’s Kiss (Il bacio dell’assassino, 1955) prevaleva il gusto della bella immagine dell’ex-fotografo di «Look» ed in The Killing (Rapina a mano armata, 1956) si toccava con mano il piacere del montaggio d’effetto, del resto rigorosamente funzionale al meccanismo di «suspense» d’un poliziesco spettacolarmente perfetto. Quel tanto di Orson Welles che c’è in ogni giovane americano agli esordi, era già dimenticato; Kubrick, ed in questo rivelò subito la sua autentica maturità di artista, ridimensionava rapidamente, di film in film, la bravura tecnica a ciò che voleva esprimere, formandosi uno stile sempre in maggior misura realistico. The Killing e Paths of Glory mostravano anche come sapesse districarsi con abilità — per essere uno che se ne era stato sempre al di fuori del «giro» della produzione e che non aveva fatto apprendistato di alcun tipo per prepararsi alla regia — fra le maglie del «fare spettacolo», piacendo al pubblico normale. Allo stesso tempo, aveva qualcosa da dire, e Paths of Glory costituì non a caso uno dei film di più nobile e sentita polemica contro la guerra. Ma anche nei temi minori, vi erano dei corsi e ricorsi, delle affezioni ad ambienti, a tipi, che facevano da spia ad una personalità compatta, con un proprio mondo da comunicare. Si veda, ad esempio, la predilezione per il mondo del pugilato: la forza non come esaltazione della persona ma come sua condanna alla sofferenza, dal pugile in ansia alla vigilia dell’incontro che fu al centro del suo cortometraggio d’esordio, Day of the Fight (1949), al pugile perseguitato di Kil­ler’s Kiss sino al lottatore che intrattiene la polizia nel bar in The Killing. Il tema stesso della guerra, spogliato d’ogni colorazione retorica e presentato in una luce rigorosamente umana, era stato preparato, prima di Paths of Glory, da Fear and Desire (1953), film che qualche distributore d’ingegno potrebbe far circolare in Italia. Ecco infine Spartacus, che costituisce un primo coronamento di dieci anni di esperienze. C’è stato Paths of Glory, d’accordo; ma Spar­tacus, anche se di indubbio minor esito poetico, ha il pregio di inserire una voce autentica nella grande produzione di Hollywood e dunque di incidere sul gusto di milioni di spettatori e di dimostrare che incassi ed impegno d’arte non sono per forza in contraddizione fra loro. Abbiamo iniziato l’accostamento a quest’ultimo «kolos­sal» accennando all’età dell’autore; ci sembra un metodo giusto quello di prendere le mosse dai dati più esterni — lo spettacolo —  esattamente come fa il pubblico di fronte ad un’opera del genere. Lo spettacolo c’è: il confronto con Ben-Hur del pur abilissimo Wyler, con la sua squadra di collaboratori, si risolve alla pari sul piano del mestiere e in vantaggio per Kubrick quanto a capacità di suscitare una rispondenza emotiva nello spettatore che vada un po’ in là del consueto stupefarsi per questa o quella scena grandiosa. Il fatto è che dietro, e dentro, Spartacus, c’è un tema, dietro Ben-Hur c’è il vuoto; a prescindere da questo, Ben-Hur, macchina da spettacolo sia pure più dignitosa di tante altre, disperde i suoi personaggi in un affollamento di episodi marginali e a sé stanti, pretesto appunto allo spettacolo, mentre Spartacus non devia da una linea precisa, concedendo qualcosa soltanto all’amore fra Spartaco e Varinia, in alcuni momenti (l’incontro nel bosco, ad esempio) molto, e in misura disturbante,” hollywoodiano. Da quel che ci tramanda la storia, Spartaco fu una sorta di Pugaciov, e come lui mise in pericolo la stabilità di un impero, movendosi da Capua alla conquista dell’Italia fin verso Modena, da dove fu ricacciato indietro e sconfitto. La guerra «servile» terminò con la morte in battaglia dello schiavo ribelle, il cui corpo non fu mai ritrovato, e con la crocifissione di tutti i superstiti, circa seimila.

Kubrick ha attinto ispirazione ad un romanzo di Howard Fast, Spartacus (1951), di scarsi pregi letterari e di ancor meno interesse storico. Se sul piano letterario il romanzo è irrimediabilmente compromesso dalla pedestre minuzia di descrizione che è propria di molti»di quelli che, rievocando un periodo storico, reputano interessante soffermarsi di continuo sugli usi e costumi, gli abiti, gli arredi ecc., sul piano storico esso ha più del «pamphlet» che del frutto di un serio accostamento ad un’epoca passata. Per Fast, il mondo romano è solo vizio, corruzione, ipocrisia, violenza, sopraffazione: non vi sono principii-base, non una religione praticata e vissuta, non una visione dello stato e della società a cui corrisponda un’adesione convinta da parte della classe dirigente. Sappiamo dalla storia che Crasso, il generale vincitore di Spartaco, si arricchì con le speculazioni edilizie; ma Fast preferisce mostrarcelo invece come un omosessuale e un megalomane, distruggendolo insomma da ogni lato. Può essere che alla nostra sensibilità moderna risponda maggiormente la civiltà ellenica, col suo culto per l’individuo, che non la civiltà romana, basata sulla collettività e lo stato; ma è schematico e falso ridurre solo a questo la civiltà romana e dimenticare la sua complessità che si fece dramma quando essa cercò di recepire l’insegna­mento greco senza distruggere del tutto il proprio sistema di valori. L’epoca di Spartaco, di Cicerone, di Cesare, è appunto un’epoca vivacissima da questo punto di vista. «Sia la cultura politica e filosofica di Roma, sia la stessa dottrina stoica nel suo adattamento al mondo romano», scrive Ettore Paratore in un suo studio recente1, «soffrirono per più di un secolo di una profonda antinomia interiore, di una vera e propria dolorosissima slogatura, che rese l’anima della Repubblica pari a un infermo tormentosamente condannato alla immobilità da una feroce lacerazione, di cui però esso avverte nelle sue carni straziate tutte le lancinanti pulsazioni. È il triste dissidio in cui si macerano Cicerone e Varrone… Da un lato lo Stato romano, agitato dal contrasto tra la forza centripeta della tradizione e quella centrifuga delle correnti nova­trici, si convelleva nello sforzo di istituire, mercé l’ausilio delle dottrine filosofiche, una nuova esperienza dello spirito individuale che servisse da base per una nuova struttura politica; e il maggiore sforzo era di compiere questo pericoloso esperimento senza mandare in frantumi tutto quanto aveva costituito finora la forza espansiva e coordinatrice di Roma. D’altro canto l’anima individuale, ripercorrendo e ricreando in sé l’esperienza etica del­l’ellenismo, non poteva, a Roma, non sentire assillante l’aculeo della problematica proposta da quell’esperienza ai fini della vita associata. Era tutto un groviglio di contrastanti esigenze, sotto il cui impulso la ruota delle contingenze politiche girava vorticosamente a vuoto, fra spruzzi di sangue». In Fast detta complessità non esiste, il personaggio di Cicerone (che nel film è scomparso) è ridotto ad un avvocato arrivista e cinico che, con le sue acrobazie verbali, inventa gli alibi ideologici per coprire le nefandezze d’una classe dirigente marcia: Gracco, che nel film impersona con dignità l’ani­ma della Repubblica in contrasto al conservatorismo di Crasso, e trova una morte catoniana quando cade in disgrazia, nel romanzo è un politicante arruffone pronto sempre a dar ragione al più forte. Delineato così il quadro, era facile per lo scrittore contrapporvi uno Spartaco «puro», buono, dolce, simbolo del popolo oppresso e farne un antesignano dei moti popolari di questo nostro secolo, un rivoluzionario «ante litteram» che soccombe al più forte, ma ha coscienza che non si può venire a patti col mondo romano. «Spartaco, tu devi distruggere Roma», dice a se stesso2. «Il mondo intero appartiene a Roma, dunque Roma deve essere distrutta e di essa deve rimanere soltanto un brutto ricordo: allora, dove sorgeva Roma costruiremo per tutti gli uomini una nuova vita da vivere in pace, fratellanza e amore, senza schiavi né padroni, senza gladiatori né arene, e sarà un’età felice… Edificheremo nuove città senza mura intorno. Distruggeremo Roma e ciò in cui Roma crede». Così, la figura di Spartaco diventa un’astrazione, disancorata da ogni verità storica (quanto gli preferiamo il Pugaciov di Puskin, violento, ubriacone, sanguinario, ma in ciò vivo e umano!): non un esponente delle «rivoluzioni spontanee» ma uno dei primi promotori di un «moto organizzato», secondo una consapevolezza ideologica che non poteva che essere ignota al vero Spartaco. Non vorremmo con ciò dare l’impressione che un artista debba necessariamente legarsi a filo doppio col dato storico incontrovertibile; ma un legame siffatto è certo richiesto per chi voglia fare romanzo storico, con l’ambizione di essere realista. Il senso dell’epoca, la ricchezza dialettica delle posizioni in contrasto, sfuggono invece al Fast, che si muove sul terreno della Roma antica con la stessa pesantezza d’uno scrittore fedele ai principii di Zdanov. Spartaco non era un uomo libero fatto schiavo dagli occupanti romani, come dice Fast, né un figlio di schiavi da generazioni come afferma Kubrick: era un soldato dell’esercito romano in Macedonia ridotto in servitù perché disertore. Non si propose coscientemente di rovesciare la Repubblica, ma tentò di lasciar l’Italia per via di terra, cioè valicando le Alpi, come Annibale, senonché, resosi conto della difficoltà dell’impresa, ripiegò verso il mare e dovette accettare battaglia con Crasso. L’immagine di Spartaco disegnata da Kubrick è lontana sia dalla realtà che dalla deformazione di Fast. Nel romanzo, v’era una idea che poteva prestarsi ad un giuoco intellettuale raffinato per un regista in vena di avanguardismi: Spartaco non c’era, la narrazione iniziava quando il trace era già morto, ma egli sopravviveva — vero vincitore — nella memoria di tutti, dei compagni, come l’ebreo David, che di poco gli sopravvivevano per finire crocifissi, al vittorioso Crasso, alla gente comune che ne faceva argomento di conversazione continua. Una sorta di Rashomon, se si vuole, con le diverse facce d’un’unica, difficilmente definibile verità. Ku­brick ha rifiutato il rischio d’intellet­tualismo e di compiacenza e ha preferito, con Dalton Trumbo, seguire la struttura del romanzo tradizionale, centrato sul protagonista e tutto ruotante attorno a lui. Il suo Spartaco non è né il Pugaciov della storia né il rivoluzionario del testo di Fast. Riepilogando i personaggi dei suoi film precedenti, Kubrick ha ancora una volta puntato su un uomo che cerca soltanto la serena esistenza tranquilla, che non crede ad alcun mito che non sia quello d’una domestica felicità, accanto alla propria donna, nella propria casa, in un clima di libertà. Come l’uf­ficiale di complemento di Paths of Glory, Spartaco rifiuta ogni amplificazione mitica dei sentimenti umani che serva poi a distruggere, nella realtà, i rapporti umani stessi: punta all’uo­mo in sé,, fuori di ogni classificazione, ed in nome di questo si batte. Si tratta di una posizione che potrebbe essere generica se non fosse sorretta da una visione cosciente e netta del mondo storico in cui i suoi temi si sviluppano; anche parlando della Roma di ieri, il suo occhio è di oggi, i suoi personaggi vivono i drammi di coscienza della gente di oggi. Ecco allora la figura di Antonino, il poeta fragile e indifeso che forse non sa combattere ed è tutto ciò che l’uomo forte, il gladiatore, non è. Pure, il trace ribelle avverte l’importanza di An­tonino, perché l’uomo ha bisogno di poesia, cioè di spiritualità: concezione abnorme e sfasata rispetto a quel che dovette essere in concreto la vittoria dei gladiatori, ma che vibra fortemente se guardiamo Spartaco come una allegoria moderna e ci poniamo dentro la nostra epoca con il mito dei progresso tecnologico che spesso soffoca la vita dello spirito. La forza, la potenza, sono sofferenza o in ogni caso non sono importanti; si torna alle figure di pugili, ai temi del Kubrick dei film precedenti. Il film, insomma, vive nel dolore degli occhi di Kirk Douglas, attore di esemplare intensità, quegli occhi che esprimono tragedia e sconforto anche quando egli sorride o per un attimo, guardando. Varinia, sembra dimenticare. Non c’è dunque la balda sicurezza del ribelle che pensa di poter scardinare il mondo romano né l’ebbrezza d’un Pugaciov nel godere d’un potere assoluto, anche se di breve durata, dove prima c’era miseria e servitù. Lo Spartaco di Kubrick sin dai primi istanti si oppone ad un esercizio violento del potere e rivendica soltanto il diritto di conquistare via mare porti più sicuri per poter ricostruirsi un’esisten­za migliore. La lotta con Roma è Roma che la vuole; egli non si spinge nel Nord, ma da Capua muove per la via più breve al porto che crede più sicuro, Brindisi, e per strada viene sconfitto. Con ciò non è un vile: sa combattere e in un primo momento vincere contro un esercito addestrato come quello romano perché combatte per difendere la sua libertà e non per desiderio di gloria; e, una volta vinto, sa morire con dignità sulla croce, senza implorare pietà. Nella conclusione (in cui si applicano a Spartaco alcuni particolari di quella che nel testo è la morte sulla croce di David) il regista ha ceduto un poco al gusto di una forzatura, facendo di Spartaco una specie di Cristo «laico», con evidenti paralleli fra le pagine evangeliche del Calvario e quella fine sulla strada di Roma, con Varinia in atteggiamento di Madonna dolente. Pur nell’ampiez­za della misura narrativa d’un film a grande spettacolo, il regista ha saputo nel complesso essere compatto e mirare dritto allo scopo, quello d’un racconto di dolore che, al di fuori d’una pedissequa fedeltà storica, acquista significato universale di canto della lotta per necessità, la necessità di non perdere i connotati umani, annullandosi nel numero degli schiavi. Di robusto rilievo è, a questo proposito, la descrizione della lotta inutile, per il piacere degli altri: quanti hanno visto al cinema a più riprese i giuochi dei gladiatori ne misurano solo qui la violenza crudele, con una descrizione mai compiaciuta (e si veda quel momento altissimo dell’attesa, nell’oscurità della capanna, della chiamata nell’arena, quando i gladiatori dovranno uccidersi fra loro pur senza odiarsi). A differenza del romanzo di Howard Fast, e di ciò va dato merito a Trumbo, tornato a firmare come sceneggiatore, dopo l’allontana­mento di diversi anni, l’ambiente romano è più ricco e complesso di motivi, esemplificato nelle tre figure di Crasso, che impersona le ragioni d’una conservazione ormai fuori tempo ma ancora rispettabile, di Gracco, pronto al compromesso con disinvoltura ma fiducioso nello spirito nuovo che anima la Repubblica, di Cesare, in qualche misura intermedio fra i due, pronto ad assumere un ruolo storico di superamento del .dissidio nella fondazione dell’Impero. Anche qui non manca una colorazione moderna dei contrasti politico-sociali del tempo, ma abilmente impastata con i toni dell’autenticità (al personaggio di Crasso dona credibilità l’interpretazione di Laurence Olivier, mentre Charles Laughton non risparmia qualche marginale gigioneria nel disegnare la figura di Gracco). Con Spartacus, in definitiva, non ci sembra che Stanley Kubrick abbia compiuto il passo indietro da qualcuno denunciato: senza dubbio, se è lecito l’affresco quanto il quadretto di modeste dimensioni, nel cinema affresco vuol dire grande sforzo produttivo e di conseguenza un minimo di compromesso. Ci sembra però che il regista abbia tenuto conto delle esigenze dello spettacolo nella misura più discreta, senza cercare l’oleografia né la parata, servendosi con rigore del technirama per rendere una coralità necessaria ad un tema come quello prescelto.

Note

1. Ettore Paratore: L’Epicureismo e la tua diffusione nel mondo latino, Roma, Ed. dell’Ateneo, Quaderni della Rivista di Filologia classica e medioevale n. I, 1960.
2. Howard Fast: Spartacus, edit. it., Milano, Mondadori ed., 1960.

Pubblicato in Bianco e Nero, Gennaio 1961, pp. 73-78

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1 thought on “Spartacus (1960) – Recensione di Ernesto G. Laura”

  1. Franceco Martinelli

    Un breve commento alla recensione di Ernesto G. Laura Senza essere irriguardoso di fronte a un esperto di tal fama mi esprimo con estrema durezza e sincerità su quanto a detto nel confronto con BEN-HUR (1959) il pluripremiato Kolossal di William Wyler, che il critico in questione definisce privo di contenuto al confronto con SPARTACUS di Stanley Kubrik, che egli definisce un capolavoro fuori dagli schemi del genere . Secondo il critico quest’ultimo è ricco di contenuti, mentre dietro BEN-HUR , c’è il “vuoto”. Ma scherziamo? L’amore che si trasforma in odio , il perdono e la redenzione. Mah !!! Quando Spartacus , uscì nelle sale ebbe giudizi impietosi, ne ricordo uno “alcune scene apparivano ingenue e di poche pretese ( le scene d’amore , ecc. ). A distanza di molti anni , dopo la beatificazione di Kubrik, come regista impegnato post ’68 e antiamericano , tutto è cambiato. Ben Hur , nella plvere , Spartacus sull’altare. E concludo , non c’è peggio dei giudizi politici per falsare le prospettive e l’onestà intellettuale di chi li esprime.

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