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C’ERA UNA VOLTA IL WEST: IL RITO E L’ENFASI – di Roberto Pugliese [Segno Cinema]

L’amplificazione dei ritmi e delle pause trova in C'era una volta il West la sua massima celebrazione e ragion d'essere. Saggio di Roberto Pugliese

L’amplificazione dei ritmi e delle pause trova in questo film la sua massima celebrazione e ragion d’essere

di Roberto Pugliese

Io non sono prolifico, perciò per me diventa sempre più difficile trovare la rispondenza a questa tematica in ambienti che sconfinano da quelli già toccati, diventa veramente un lavoro. Capisco perché alcuni pittori poi riescono ad essere limitati nella loro produzione ed altri ad essere invece così prolifici: è il modo di concepire le cose che è diverso. Riuscire come Morandi ad esprimere tutta la sua poesia, ammesso che ci sia, attraverso le sue bottigliette, è la cosa più difficile del mondo… Molto più facile fare, come ha fatto Guttuso, i fichi d’india, le ragazze sulla spiaggia o la Marzotto in varie pose…
—Sergio Leone

Il tema centrale di C’era una volta il West è il Tempo. Nella duplice accezione di Tempo della storia e Tempo della Storia. Due momenti chiariscono questo che è il postulato filosofico più lucido di tutto il cinema di Leone (lo stesso C’era una volta in America non ne rappresenta, in fondo, che una variazione-prosecuzione): l’interminabile prologo dei titoli, dove appunto il Tempo della storia viene dilatato sino a perdere significato; ed una frase di Frank (Henry Fonda) all’Uomo dell’Armonica (Charles Bronson) prima dello scontro finale: “Il futuro non riguarda più noi due. Io non sono qui né per la terra né per il denaro né per la donna. Sono qui per te, perché ora tu mi dirai cosa cerchi da me”. Ovvero il Tempo della Storia che perde egualmente senso, si appanna e dissolve dinanzi all’eterno ricorrere delle passioni e all’implacabile battere della pendola del Destino.
Questa smisurata amplificazione dei ritmi, che ritualizza i gesti, scandisce gli sguardi, enfatizza i silenzi e le pause, insomma eleva i tempi morti al rango di protagonisti, trova in Cera una volta il West massima celebrazione ma anche massima ragion d’essere. L’allentamento delle strutture formali infatti sembra corrispondere ad una riflessione sulle procedure del racconto non dissimile a certe conquiste del linguaggio musicale avanzato dell’Otto o Novecento. Non a caso s’è detto che nel tempo impiegato da Leone a girare la sequenza dei titoli John Ford avrebbe probabilmente girato un intero western: esattamente come si disse che un solo movimento di una sinfonia di Mahler dura quanto, se non di più, un’intera sinfonia di Mozart o di Beethoven o di Schubert.
Tutto questo è naturalmente reso più decisivo dal periodo storico affrontato da Leone; quello in cui barrivo dell’industrializzazione e dell’urbanizzazione (simboleggiate dal tòpos della ferrovia) sconvolge l’assetto tradizionale dei rapporti di forza e modifica i comportamenti dei singoli. C’era una volta il West è di fatto il film della trasformazione, del mutamento rivoluzionario, dello sconvolgimento sociale; sembra proporsi come svolta rispetto alla trilogia astrattista con Clint Eastwood e preludio alla riflessione leninista-decadente di Giù la testa. Si colloca, simbolicamente, in un tempo sospeso della Storia nel quale gli individui galleggiano incerti sul da farsi. “Sono solo un uomo” dichiara ancora Frank. “Di una razza vecchia”, gli risponde Armonica. I padroni del nuovo ordine, infatti, rappresentati con disprezzo dall’invalido e infido Morton (Gabriele Ferzetti), stanno per sopraggiungere e cancellare l’esistente. Chi cerca di adattarsi e trarre vantaggio dal cambiamento (la famiglia Mc Bain, all’inizio) è spazzato via; chi resiste in splendida e irriducibile solitudine (il bandito Cheyenne) si estingue quasi per legge biologica. Resistono le donne come Jill, sostenute da una titanica capacità di sopravvivenza, e i “puri” come appunto Frank e Armonica, la cui superiorità alla Storia è connotata dall’atteggiamento contemplativo, costantemente osservatore e in qualche modo distaccato, nei confronti di ciò che li circonda.
Un’atmosfera di pigrizia patologica, di imbarazzante accidia, avvolge questi personaggi, a cominciare dai tre killer dell’inizio (nei cui panni, ricordiamolo, Leone avrebbe voluto significativamente il buono, il brutto e il cattivo Eastwood, Wallach e Van Cleef) che mentre attendono la propria vittima si trastullano in occupazioni come scrocchiarsi le dita, raccogliere acqua dal cappello o titillarsi con una mosca catturata nella canna di una pistola.
Tutto scorre con esasperante lentezza, con ipnotica rarefazione dinamica. Persino i ricordi affiorano poco alla volta, quasi in emulsione (il flashback cruciale di Armonica, scoperto un poco alla volta sino alla rivelazione finale: espediente ripreso da Per qualche dollaro in più, che tornerà in Giù la testa e non a caso utilizzato anche da Dario Argento, coautore del soggetto di C’era una volta il West insieme a Leone e a Bernardo Bertolucci, nel suo Quattro mosche di velluto grigio), in qualche modo restii ad offrire spiegazione, conclusione, possibilità di decisione.
Questa radicalizzazione dell’immobilità (interiore ed esteriore) porta con sé anche la radicalizzazione di alcuni stereotipi leoniani. E chiaro che Armonica, Cheyenne e Frank sono ancora in qualche modo “il buono, il brutto e il cattivo”: una triade morale ed estetica perennemente in bilico e basata su ruoli potenzialmente interscambiabili. Ed ancora una volta, come già in Per qualche dollaro in più, dietro il redde rationem finale c’è un vecchio conto personale da regolare, il tassello di un passato doloroso che può essere rimesso a posto solo con la morte. Ma stavolta gli elementi di novità sono tali da sovvertire qualunque scenario precedente.
Ad esempio la scelta degli attori, che fu piuttosto laboriosa e sofferta, e il rispettivo modellarsi dei personaggi su di loro. Molto interessante intanto e la distribuzione dei ruoli cosiddetti “minori”, spesso altamente significativa. Mai in Leone una faccia è lì per caso. Così il bellimbusto nostrano Fabio Testi, peraltro ancora semisconosciuto, è uno dei tirapiedi di Frank; il sanguigno e “irriducibile” Frank Wolff è McBain, e il piccolo Enzo Santaniello (volto di bambino popolarissimo all’epoca per gli spot televisivi) è suo figlio Timmy, l’ultimo a venire trucidato; Lionel Stander è l’oste che intrattiene Jill sulle “bellezze” locali, mentre Paolo Stoppa è il vetturino che la conduce in paese; Keenan Wynn, volto leggendario del western americano, è lo sceriffo; Gabriele Ferzetti è straordinario nel ruolo di Morton, l’incarnazione stessa dell’impotenza dell’Utopia capitalistica, lo storpio che crede di comandare e dominare tutto col denaro e che diviene il bersaglio del disprezzo generale (e della pietà dello spettatore). Infine da non dimenticare due dei tre killer dell’inizio: Jack Elam, irregolare e popolarissima maschera di tanti western (Rio Lobo, L’uomo di Laramie, Pat Garrett & Billy the Kid, Rancho Notorious) e il nero Woody Strode (I dannati e gli eroi, Cavalcarono insieme, L’uomo che uccise Liberty Valance, I professionisti, Shalako). Ed anche il terzo, Al Mulloch, quello che si scrocchia le dita, era il pistolero senza un braccio che ne Il Buono il Brutto il Cattivo tenta invano di vendicarsi di Eli Wallach sorprendendolo nella tinozza.
Ma veniamo ai protagonisti. Charles Bronson (Armonica) è molto di più e molto di meno di Clint Eastwood, dal cui personaggio eredita le stimmate di Innominato, di Uomo Senza Passato Né Futuro, venuto dal nulla e nel nulla destinato a scomparire. Qui, per la prima e l’ultima volta, la completa, ieratica inespressività dell’attore assurge ad una funzione quasi metafisica. Lo sguardo sempre perso in un’indefinibile altrove della memoria, il sorriso da antica maschera azteca, il distillare delle parole estremizzano un atteggiamento “teatrale”, iperstatico, nel quale il momento dell’azione è solo l’ultimo anello di una lunga catena di aspettative. Persino l’astuzia e l’opportunismo esibiti in alcuni frangenti (la sequenza del pozzo, nel ranch dei McBain) o la fredda, feroce determinazione di altri (la tortura ad uno degli uomini di Frank per farlo parlare) dissimulano in qualche modo un atteggiamento di scetticismo, di paziente e fiduciosa attesa che “qualcosa” accada.
Jason Robards (Cheyenne), bandito con tutte le carte in regola, è pedinato da un’ombra di malinconia senile assolutamente sconosciuta a Tuco (Eli Wallach) ne Il Buono il Brutto il Cattivo; malinconia che si esprime soprattutto nel rapporto con Jill (che Cheyenne non a caso paragona alla propria madre) e che sfocia nella sua morte quasi pleonastica, poco prima dei titoli di coda. Henry Fonda (Frank) è l’elemento-sorpresa del film, soprattutto perché mai come qui Leone è riuscito ad usare un attore, e tutto il suo carisma, contro la parte. In proposito è fiorita tutta un’aneddotica sulle riprese, ma basterà qui osservare che il lento carrello circolare che dalle spalle scopre poco alla volta il viso celeberrimo dell’interprete di Furore, Sfida infernale e Il massacro di Fort Apache, un attimo prima che questi spari col sorriso sulle labbra ad un bambino, ha proprio lo scopo di sbigottire lo spettatore dinanzi all’enormità, all’empietà di questa presenza. Certo non è la prima volta che Fonda interpreta un personaggio negativo (proprio Il massacro di Fort Apache costituiva un precedente) ma mai un divo della faccia “buona” di Hollywood era stato piegato a tanto: solo col delirante Gregory Peck-Josef Mengele de I ragazzi venuti dal Brasile (1978) di Schaffner si raggiungerà in seguito qualcosa di simile.
Spietato assassino con ramificazioni di sadismo perverso (il rapporto con l’invalido Morton, suo padrone), Frank è la personificazione del Male senza motivazioni, come pura arma di sopravvivenza; ma anche della Volontà di Potenza e di un oscuro attaccamento alle regole, messe in discussione proprio dall’avvento di nuovi equilibri. Egli vuole, sino all’ultimo negli spasimi dell’agonia, “sapere”, conoscere chi ha di fronte e perché. La sua condanna è proprio nel non capire: non capire perché la bella Jill gli si concede e quale segreto si nasconde nel ranch, né perché Armonica gli salva la vita durante un agguato, né perché infine questi lo stia così inesorabilmente “puntando”. Quando comprenderà, divenendo partecipe finalmente dell’ultimo tassello del flashback di Armonica, sarà troppo tardi.
L’ultimo decisivo elemento di novità nella ripartizione drammaturgica del film è la presenza femminile di Jill. Si tratta della prima volta che una figura di donna assume una tale importanza nel cinema di Leone; e forse anche dell’unica, se consideriamo che il personaggio di Deborah in C’era una volta in America, per quanto importante, è pur sempre secondario rispetto a quelli maschili. Qui invece Jill è di fatto il “quarto polo”, insieme ad Armonica, Frank e Cheyenne, ma in certo senso è colei che muove la storia (e alla fine, forse, la Storia); si direbbe quasi la sola che, in un contesto di personaggi intenti pressoché unicamente ad attendere, sia in grado di decidere e agire, spesso ‘ si veda la sequenza in cui si concede per opportunismo a Frank) a proprio rischio e pericolo. La mediterranea bellezza di Claudia Cardinale è accompagnata da un’espressione perennemente imbronciata, incupita, di chi tutto ha già visto e vissuto e poco può ancora temere dalla vita; quindi di chi non ha nulla da perdere. L’eccidio iniziale della famiglia di colui che avrebbe dovuto sposare, serve all’ex prostituta solo ad iniziare la risalita di una china che potrà portarla, forse, finalmente al riscatto personale e all’autonomia.
Per Sergio Leone il West che cambia è anche questo, una civiltà dove gli uomini si gingillano con le mosche, con i ricordi o con i trenini, ma dove le donne lottano, pagano e soffrono per sopravvivere e avanzare.

Segno Cinema n. 68, Luglio-Agosto 1994; pp. 19-21

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