di Alberto Moravia
Dicono che 2001. Odissea nello spazio di Stanley Kubrick sia costato sette miliardi. Di fronte a questa somma colossale, i meno di cento milioni che sono stati spesi, per esempio, per un film d’arte come I pugni in tasca di Marco Bellocchio formano un contrasto pieno di significato. Per molti, questo significato, certo, si riassumerebbe così: “Vergogna! Il buon cinema si può fare con pochi soldi! Sprechi inauditi! Arte commerciale!” Ma crediamo che sarebbe un commento affrettato. Diciamo, invece, che I pugni in tasca sono un’opera d’arte; e il film di Kubrick, un prodotto. Ora, per fare il primo, i soldi, molti o pochi, non contano; mentre sono indispensabili e determinanti per fare il secondo. Qualcuno obietterà: la maggior parte dei film di maggiore successo, oggi, a Roma sono dei prodotti; però non sono costati sette miliardi ciascuno. Rispondiamo: qui sta il punto. È vero che i film di maggior successo a Roma, oggi, sono anch’essi dei prodotti, i quali, però, sono costati molto meno di 2001. Ma, infatti, sono dei cattivi, dei pessimi prodotti, giacché, per fare un buon prodotto ci vogliono i miliardi. Si capisce anche perché: il prodotto deve gareggiare nientemeno che con la poesia. S’intende che la gara è perduta in partenza. Tuttavia, a forza di miliardi, il prodotto può procurare allo spettatore sensazioni ovviamente diverse dall’opera d’arte, ma di intensità non inferiore.
2001 è senza dubbio un ottimo prodotto. Essenzialmente, è la storia dell’ammutinamento di un computer o robot calcolatore a bordo di un’astronave lanciata negli spazi inter-planetari. Durante un viaggio di perlustrazione nel sistema solare, gli uomini dell’anno 2000 hanno scoperto su Giove una strana stele o tavola di marmo nero. Questa stele o tavola è… Dio; o per lo meno sta a indicarne l’arcana presenza. Temerari, al solito, gli uomini partono in volo per andare a esaminare la stele e decifrarne il significato. Ma il computer dell’astronave, Hal, conscio della propria potenza, ambisce di prendere la direzione dell’impresa. Hal, con un trucco malvagio e molto umano, riesce a far fuori tutti i membri dell’equipaggio salvo il pilota. Quest’ultimo a sua volta vendica i compagni sconnettendo, con un semplice cacciavite, i centri nervosi del computer. Priva di controllo, l’astronave precipita con velocità vertiginosa negli abissi del tempo e dello spazio. In uno scorcio fulmineo di specie einsteiniana, il pilota si ritrova in casa propria, prima vecchio, poi, subito dopo, decrepito; e finalmente morente. Davanti al suo letto di morte, si erge la tavola misteriosa. Eccolo, a un tratto, rinascere, infante chiuso nel ventre della madre. La vita continua, eterna.
2001 è un prodotto ottimo soprattutto perché la storia o intreccio è semplice e poco importante e il massimo sforzo è dedicato alla costruzione meticolosa di una realtà ambientale che consenta a questa storia di essere credibile. In altri termini il romanzesco è molto ridotto e la verosimiglianza, sia pure fantascientifica, molto curata. Da questo segue che le cose migliori del film sono in fondo le ipotesi sul modo di vivere degli uomini durante il viaggio, a bordo dell’astronave. La rarefazione, astrazione e solitudine della vita umana in un mondo tutto elettronico e cibernetico; i sinistri rapporti tra uomini e computer; il buio, il gelo, l’infinito che negli spazi interplanetari prendono il posto della luce, del calore e dei limiti della terra, tutto questo è rappresentato con spettrale efficacia. A questa funebre e plausibile descrizione della condizione umana, bisogna aggiungere alcuni pezzi di bravura spettacolare, come la caduta a ritroso dell’astronauta nel vuoto che lo risucchia; la fuga dell’astronave fuori del tempo in una vertiginosa esplosione di scie multicolori. Infine la trasformazione dell’osso, maneggiato dal nostro antenato subumano, in missile elettronico è una notevole trovata cinematografica che permette al regista di saltare a piè pari cinquanta milioni di anni.
2001 non è un’opera individuale ma collettiva, come, del resto, tutti i prodotti. In maniera analoga ai grattacieli e ai ponti di New York, non ci dice niente sul suo autore e molto sull’America: l’infantilismo di una società che inventa i missili e si diverte coi fumetti; il titanismo avveniristico; il terrore che questo titanismo un giorno possa essere punito dal Dio biblico, un po’ come furono puniti i giganti che eressero la torre di Babele. D’altronde è giusto concludere che anche i pessimi prodotti del cinema italiano attuale dicono poco o niente sui loro autori e molto sulla società italiana. Ma questo è un altro discorso.
Articolo apparso originariamente su l’Espresso del 29 Dicembre 1968 e ripubblicato in Alberto Moravia, Al cinema. Centoquarantotto film d’autore, Bompiani, 1975.