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FIDEL CASTRO SECONDO LE GRANDI FIRME DEL “CORRIERE DELLA SERA”

Raccolta di articoli su Fidel Castro pubblicati dalle grandi firme del Corriere della Sera

IL COLPO DI GRAZIA

di Augusto Guerriero

Anche Batista se ne è andato. Se vi era bisogno ancora di una prova del fatto che le dittature – o, come più propriamente le chiamavano gli antichi, le tirannie – sono sempre infette di un sinistro male, per cui fatalmente degenerano e volgono al peggio, ebbene, questa prova, eccola: Cuba l’ha fornita. Perché Batista originariamente non era affatto il tiranno crudele che è stato negli ultimi tempi, ne era un corrotto. I suoi propositi, all’inizio, erano buoni e i suoi primi provvedimenti furono ottimi. Ma il potere lo corruppe e, a poco a poco, il suo regime diventò peggiore di quello di Machado.
Venticinque anni fa, tutto il popolo cubano, compresi i socialisti, compresi i comunisti, acclamava a Fulgencio Batista e imprecava a Machado. E ora lo stesso popolo cubano impreca a Batista e acclama a Fidel Castro. Sarà stata colpa di Machado allora e sarà colpa di Batista, adesso. Ma non sarà anche colpa dei popoli dell’America Latina, che non riescono a crearsi Governi migliori di queste dittature e a cambiarli in modo più ordinato?(…)
Batista diceva di essere «un idealista»: ma – aggiungeva -«un’idealista pratico». Difatti, aveva dato il Casinò da gioco in appalto a noti esponenti della malavita americana, per non parlare del resto: la corruzione imperava come ai tempi di Machado. Anche Fidel Castro, il vincitore, è «un idealista»; lo dicono tutti: e lo è veramente. La questione è che non si sa fino a qual punto, lo sia o in quale senso lo sia. Batista lo ha accusato più volte di essere un comunista. I suoi seguaci dicono che non lo è affatto e che solo intende attuare un programma di riforme per salvare Cuba. Il problema è se la rivoluzione sia avvenuta contro Washington o con la tacita benedizione di Washington. L’interesse supremo degli Stati Uniti, nel mare dei Caraibi, e soprattutto a Cuba, è che l’ordine sia mantenuto e che non sorgano Governi nemici. Il regime di Batista sembrava stabile ed era amico. Quindi, per lungo tempo il Governo di Washington lo sostenne e lo rifornì di armi e di munizioni.
È probabile che la cessazione degli aiuti e dei rifornimenti da parte del Governo degli Stati Uniti abbia deciso la sorte della guerra civile. Se Fidel Castro serbi rancore agli Stati Uniti perché una volta aiutavano Batista, o gratitudine, perché smisero di aiutarlo, non si sa. Ma quali che siano i sentimenti dei vincitori, Cuba ha interesse vitale a marciare con gli Stati Uniti. Un Governo che non si rendesse conto di questo interesse o agisse contro di esso, farebbe forse molto male agli Stati Uniti e a tutto il mondo libero, ma certo farebbe la rovina di Cuba.

3 gennaio 1959

* * *

A LA SIERRA CON FIDEL

di Cesco Tomaselli

Ho lasciato Cuba da poche ore; sono a Miami, incomincio il racconto delle quattro giornate allucinanti «a la Sierra con Fidel». All’aeroporto dell’Avana, mentre aspettavo che chiamassero il mio volo, lessi del disastro ferroviario accaduto giovedì a Camagilei con una decina di morti e oltre cento feriti. Un convoglio di carri grigliati, carico non di canna da zucchero, ma di giovani, miliziani, era stato tamponato da un altro che gli veniva dietro senza rispettare l’intervallo di prudenza perché gli ordini erano di far presto, di decongestionare la linea sulla quale non si viaggiava che in una sola direzione, da oriente a occidente.
Noi eravamo passati da Camagüei, capoluogo della provincia centrale, esattamente cinque ore prima. Alla piccola stazione di Yara, ai piedi della Sierra Maestra, l’intasamento ci era apparso, spettacoloso. Fra questa stazione e quella più a monte, dove noi salendo avevamo fatto l’amarissima esperienza del «tren azucarero», il treno dello zucchero, ossia seduti sul nudo pavimento di ferro, vedendo il paesaggio tropicale scorrere fra le griglie come in una trasferta carceraria, stava impacciato tutto il parco ferroviario della repubblica di Cuba. Per portare un milione di uomini sulla Sierra (questa era la consegna di Fidel) non si poteva fare diversamente da come si fece; cioè fermare per quattro giorni la vita del Paese, sospendere il servizio dei viaggiatori su tutte le linee, in una parola mobilitare un sesto della popolazione per un raduno e un discorso. (…)
Quando vi giungemmo eravamo irriconoscibili. (…) Eravamo proprio sfiniti.
I nostri compagni di viaggio erano, come già dissi, i «delegados», ossia i convenuti al primo congresso latino-americano della gioventù. Castro li aveva invitati dalle tre Americhe. Ce n’erano anche di statunitensi. Uno con la barbetta a punta nella faccia color cacao, recava attraverso la pancia vistosa una scritta: «Freedom for the negro in the United States now», «subito libertà ai negri degli Stati Uniti». Sulla Sierra avrebbe ripetuto il grido cinque volte sotto la tribuna di Castro che gli sorrideva estasiato.
Parecchie le ragazze. Molto sangue misto, anche nei tipi più pallidi si indovinava il fondo indio o atzeco. Il Governo rivoluzionario li aveva ospitati nel più americano dei grandi alberghi dell’Avana, il grattacielo della catena Hilton, che ora si chiama «Habana libre». Erano serviti da personale gallonato, dormivano nelle camere dei miliardari che venivano a giocare alla «roulette», ammutolivano di reverenza nella visita di prammatica alla «suite» del ventitreesimo piano dove Fidel Castro aveva abitato un mese con la sua guardia del corpo di «barbudos» in attesa che disinfestassero il palazzo residenziale.
Nella lunga attesa per ricevere il biglietto del treno non si poteva rifiutare il legittimo obolo a chi ci appuntava addosso una coccarda, una bandierina cubana, una spilla con la faccia del «purificador». (…) La gente convenuta alla stazione per vederci salire in treno non sapeva di questa curiosa mescolanza di giornalisti e di «delegados»; il che aveva i suoi inconvenienti.
Ad esempio non possedendo i requisiti per essere un rappresentante della gioventù, io venivo segnato a dito con particolare curiosità; probabilmente sospettavano in me l’antico rivoluzionario intrufolatasi fra i giovani per rivivere un’ora romantica.

3 agosto 1960

* * *

CASTRO

di Indro Montanelli

Forse l’aspetto più angoscioso dell’angosciosa crisi in cui l’umanità si trova coinvolta è che a determinarla sia bastato un Fidel Castro. Non è la prima volta, d’accordo, che la Storia, per realizzare i suoi vasti disegni, si serve di figure di mezza tacca. Ma da alcuni anni questo scherzo si va ripetendo a un ritmo così serrato che Castro rischia sul serio di assumere, agli occhi della gente, le stesse gigantesche proporzioni degli avvenimenti cui fornisce il pretesto.
Guardiamoci da questa illusione ottica. Castro è un pistolero, e nulla più. (…)
Castro combattè poco (in tre anni di gloriosa campagna, i barbudos hanno avuto 250 morti e ne hanno fatti 400). Ma rivelò un notevole talento nell’orchestrazione della campagna a proprio favore specialmente sulla stampa nord-americana che gentilmente si prestò. Herbert Matthews di «Time» fu ricevuto con tutti gli onori e diventò l’aedo della rivoluzione. Venne anche la televisione, sotto le cui macchine da ripresa Castro posò pazientemente mostrandosi eccellente attore nella interpretazione del guerrigliero romantico, campione della libertà e della giustizia. In questo va e vieni di giornalisti e di cineasti che gremivano la corte di un ribelle alla macchia, cui un esercito intero dava inutilmente la caccia, c’era qualcosa che esilarava la fantasia della gente, ma che soprattutto lusingava l’esibizionismo di Castro, che più volte mise a serio repentaglio la vita propria e dei suoi per condurre a termine queste imprese pubblicitarie. Ora i suoi esaltatori adducono a propria giustificazione che il Castro d’allora non sbandierava le idee di oggi, era un sincero democratico, smanioso soltanto di ripristinare la democrazia e la moralità. Può anche darsi, perché effettivamente Castro è capace di dire qualunque cosa e il suo contrario.
Trovarsi al centro del dramma, vedere il proprio nome allineato nelle testate dei giornali accanto a quelli di Kennedy e di Kruscev, è per questo spavaldo fanfarone un tripudio.
Ogni emergenza, anche la più mortale, per lui è sempre benvenuta purché gli consenta di salire su un podio, di attirare il flash e di pronunciare un discorso.
La stampa di destra lo qualifica comunista, rendendogli un onore del tutto immeritato. Castro non è nulla. Il suo regime è il solito pasticcio sudamericano, fritto misto di giustizialismo e di satrapismo, di riforme demagogiche annullate dall’inefficienza dell’amministrazione, di corruzione spicciola, di prepotenze private, di autoritarismo corretto dall’anarchia. Castro ha giocato la carta di Mosca perché solo come aculeo russo conficcato nel fianco del continente americano poteva diventare un personaggio importante, un protagonista della storia contemporanea. E c’è riuscito grazie alla geografia.

25 ottobre 1962

* * *

L’AZZARDO E LA VISIONE

di Arrigo Levi

Nel viaggio del Papa a Cuba si intrecciano destini personali e disegni politici assai diversi. Il Papa polacco e Fidel, i due protagonisti, appartengono non soltanto alla storia ma alla leggenda del secolo che sta per chiudersi; e il cammino di ognuno dei due è partito da molto lontano. (…) Fidel era sembrato un mito capace di esportare la rivoluzione in tutta l’America Latina: il mito fallì anche troppo presto, con la disgraziata spedizione nelle sierre boliviane del suo grande compagno, il «Che». Stretta d’assedio dalla potenza americana, nel 1962 la Cuba di Fidel cercò di spezzare il cerchio prestandosi all’avventura krusceviana dei missili, che portò il mondo più vicino a un olocausto nucleare di quanto sia mai stato prima o dopo. Il fallimento del colpo di mano preparò la caduta di Kruscev e condannò la Cuba di Castro all’isolamento e a un graduale declino economico e ideale. Guardando indietro a quella storia si ha l’impressione che siano passati assai più di pochi decenni. (…) La lontananza da Mosca salvò il regime di Fidel dal crollo cui furono condannati tutti gli altri «satelliti». Ma la storia del castrismo è ormai giunta all’epilogo. Ed è soltanto a questo punto che si sono create le condizioni per rincontro del Papa polacco, che ha influenzato l’America Latina del nostro tempo assai più di Fidel, con il dittatore cubano. Nel viaggio il disegno politico di Castro s’intreccia con quello ben più ambizioso di un vecchio Papa, che non interromperà il suo pellegrinaggio se non quando il suo Dio lo chiamerà a sé. Gli obiettivi di Fidel non sono un mistero. La sua debolezza e il declino della sua popolarità gli consigliano di cercare appoggi ovunque ciò sia possibile. La speranza che il Papa (che visitò indenne ben altri stati dittatoriali, senza mai abbassarsi a compromessi) gli dia un vitale avallo politico difficilmente si realizzerà. Fidel ha fatto una scelta ambiziosa ma pericolosa; anche se non è escluso che la visita aiuti a spianare la strada verso la rottura dell’embargo.
Ma quando l’embargo finirà, quando le frontiere cubane si apriranno al mondo, in un’America Latina che ha intanto scelto con successo la democrazia e il mercato, il declino del castrismo non sarà rallentato ma potrà soltanto avviarsi a una fine precipitosa. Un giorno anche Washington lo capirà.

22 gennaio 1998

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CASTRO MALEDICE IL PATTO USA-EUROPA

di Ennio CaretTo

Si è capito perché l’altro ieri, nel discorso di Clinton all’Organizzazione mondiale del commercio a Ginevra, Fidel Castro, seduto in prima fila a tre metri dal podio, avesse preso attentamente appunti. Era per rispondere al Presidente americano, a cui aveva mostrato una gelida cortesia, alzandosi in piedi all’ingresso e all’uscita e applaudendolo alla fine. E in particolare per rispondere al suo elogio della «grande vittoria» del capitalismo sul comunismo, e dell’accordo Usa-Ue sulla legge Helms-Burton contro le società straniere che investono a Cuba, e la legge D’Amato-Kennedy contro quelle che investono in Iran e in Libia. Ieri al suo turno, il vecchio leone del marxismo ha tirato fuori gli artigli. Dal podio da cui aveva parlato Clinton, Castro ha accusato i Paesi ricchi di condizionare l’Organizzazione mondiale del commercio «a danno dei Paesi poveri»; ha bollato d’infamia il compromesso Usa-Ue, «oscuro, contraddittorio, pericoloso per molte nazioni, oltre che immorale»; e ha rinfacciato alla superpotenza, che gli ha imposto un embargo di 36 anni, il «genocidio economico» dei cubani. Il líder maximo ha concluso il suo intervento con l’auspicio che l’euro trionfi sul dollaro: «Benvenuta, se diverrà una moneta prestigiosa e forte. Sarà a vantaggio dell’economia mondiale». (…)
Castro ha chiesto all’Ue di «riesaminare il compromesso sulla Helms – Burton» e alle nazioni povere di «fare dell’Organizzazione mondiale del commercio lo strumento per un mondo più giusto e migliore». Clinton, ha ammonito, «non ha pronunciato una sola parola di speranza per i diseredati…Il suo accomodamento con l’Europa illustra a quali procedure ricorra per colpirci… Il boicottaggio Usa ci è costato 60 miliardi di dollari». (…)

20 maggio 1998

 

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