New York, anni settanta: Royal Tenenbaum, avvocato, e la moglie Etheline, archeologa, hanno tre figli piccoli, Chas, Margot e Richie, dotati di un grandissimo talento. Il primo a 12 anni è già un genio della finanza, la seconda, adottata (Royal non l’ha mai amata come una figlia vera e propria), è una talentuosa drammaturga e il terzo un campioncino di tennis.
Ma il tempo passa e le cose cambiano: a causa dei continui tradimenti di Royal, il matrimonio entra in crisi e la coppia si separa. I tre ragazzi crescono e il loro talento svanisce. Chas, vedovo con due figli, Ari e Uzi, è un ipocondriaco ossessionato dai pericoli; Margot, sposata con un noioso neurologo e accademico, Raleigh St. Clair, non scrive più, è una depressa cronica, fuma di nascosto e si perde in un malinconico declino; Richie sembra badare solo al suo falco addestrato ed è segretamente innamorato della sorellastra. Ma un giorno, dopo molti anni di assenza, Royal si ripresenta alla famiglia per cercare di salvare quel che può essere ancora salvato. Per stare con i suoi familiari finge di avere un cancro allo stomaco, ma verrà smascherato da Henry, il commercialista di Etheline e sua nuova fiamma. Così viene cacciato di casa e diventa portiere di ascensori insieme al suo assistente Pagoda.
Richie cerca di suicidarsi a causa del rapporto con Margot che non può sbocciare. Successivamente i due si confronteranno: anche lei prova amore per lui, e gli propone di coltivare una relazione in segreto.
Poco dopo Royal decide di cercare di mettere le cose a posto e divorzia ufficialmente da Etheline, in modo che lei possa finalmente sposarsi con Henry. Al matrimonio, Eli Cash, caro amico d’infanzia di Richie e con problemi di droga, arriva a gran velocità in macchina, sfonda la finestra e uccide il cane di Ari e Uzi. Royal si presenta con un nuovo cane per i due bimbi e Chas lo ringrazia: il loro rapporto, sempre conflittuale, si fa più sereno. Chas sarà l’unico ad assistere alla morte del padre, avvenuta per infarto a 68 anni. Il film si chiude con il funerale di Royal, al quale assistono i figli, Etheline e Henry, Eli, Raleigh, Pagoda e altri amici.
* * *
Il Giorno (28/3/2002)
Silvio Danese
I trent’anni che sconvolsero la famiglia, in un divertente, colorato, riuscito ritratto di padre fedifrago, della moglie regina offesa e dei figli scentrati ma simpatici. Vignettistico, ma non superficiale, né manierista. Royal T., che Hackman interpreta riassumendo divorziati e adulteri, ignavi ed eleganti lussuriosi, è un capofamiglia farabutto, decennale assente, esuberante e menzognero: squattrinato, per tornare a casa simula la malattia tumorale. Sullo sfondo, la cultura di massa che ha accompagnato la parcellizzazione delle istituzioni, il liberismo parentale, il libertinaggio sentimentale e la bizzarra formazione di nuclei aperti, incrociati, sovrapposti, singoli. Gusto per la sfumatura temporale (i ’70-2000 della rivoluzione dei costumi) e spaziale (una New York londinese), personaggi di contenuta emotività anglosassone, oggetti in accumulo, ambienti stilizzati, musica in linea per suggerire un’epoca, la traslazione briosa e straniata di un evento: dopo 5.000 anni, la famiglia non sarà mai più come prima. Un esordio eccellente. Il primo pop art family movies.
* * *
Il Resto del Carlino (3/4/2002)
Alfredo Boccioletti
S’è spenta la fiaccola della statua della genialità, e ogni eroico tentativo per rivitalizzarla appare votato al fallimento, sullo sfondo d’una New York iperreale, per una volta filtrata da un umorismo di stravagante eleganza che sfugge al monopolio yiddish. Sfogliati otto capitoli di saga familiare, conforta appena il clima di serena rassegnazione, con il ritrovato orgoglio dei Tenenbaum e la restaurazione degli affetti. C’è molta letteratura, c’è la leggerezza di un microcosmo alla Schultz, e c’è soprattutto il gusto colto dell’immagine (anche da copertina) nella commedia che il regista «genietto» Wes Anderson, 32 anni, texano, ha scritto insieme a Owen Wilson sul tema dei talenti irrimediabilmente spesi. Il gruppo di famiglia in posa per i poster, con 8 stelle 8, da Gene Hackman ad Anjelica Huston, a Gwyneth Parltrow, Ben Stiller, Danny Glover, Billy Murray, Luke e Owen Wilson, e le loro vite parallele rispetto al mondo esterno offrono un’ingannevole riferimento alla famiglia Addams. Quando invece la mostruosità autentica è il genio precoce dei tre rampolli Tenenbaum: una commediografa, un tennista e un mago della finanza. Genio che resta congelato per diciassette anni in coincidenza con l’abbandono di papà Royal, avvocato radiato dall’albo e irresistibile briccone. Si rifà vivo, il patriarca squattrinato, mentre la moglie sta per cedere alla corte del suo commercialista perbenista, attempato e di colore. E con lo stratagemma di una finta malattia tenta di riprendere il posto che non merita. Giganteggia Hackman nel ruolo forse meno originale; ma, a partire da quello dell’astenica Gwyneth Paltrow, intellettuale con un’allegorica protesi al dito anulare, anche gli altri ritratti di famiglia sono da galleria del grottesco.
* * *
la Repubblica (30/3/2002)
Roberto Nepoti
Terzo film di Wes Anderson, I Tenenbaum è la storia tragicomica di una famiglia perseguitata dal virus del talento. Il prologo, accompagnato dalle note di Hey, Jude e scandito da didascalie esplicative in funzione ironica, ce li presenta: Margot (Gwyneth Paltrow), drammaturga di successo ai tempi delle medie, Chas (Ben Stiller), esperto di finanza internazionale sui banchi di scuola, e Richie (Luke Wilson), superdotato per il tennis. Vent’anni dopo li ritroviamo già decaduti, precipitati nel cono d’ombra a causa della separazione dei genitori. Anche il patriarca Royal (Gene Hackman), squattrinato artista della menzogna che vive tra gli hotel di lusso e la galera, è a modo suo un genio fallito. L’unico che ha mantenuto le promesse è Eli Cash (Owen Wilson), il migliore amico dei superdotati fratelli, divenuto romanziere di successo. Di qui in avanti il film – articolandosi per capitoli, come un libro – racconta i tentativi di Royal per riconquistare l’ex-moglie Etheline (Anjelica Huston), alla vigilia di nuove nozze, e i rampolli, di cui non ricorda neppure i nomi. I Tenenbaum era uno dei titoli migliori in competizione a Berlino, dove avrebbe meritato migliore fortuna; altrettanto dicasi per gli Oscar, che lo vedevano in gara solo per la sceneggiatura (davvero) originale. Ma i giurati dell’Academy, si sa, prediligono le storie drammatiche, possibilmente con l’handicap: come fosse fin troppo facile realizzare una commedia pop colorata e piena d’inventiva, che mescola il dramma col sorriso aggiungendoci un bel po’ di osservazioni intelligenti sui precari equilibri famigliari. Irresistibile sotto molti aspetti, il film di Anderson lo è soprattutto per l’uso, autenticamente significativo, che fa di ambienti, arredi, oggetti di scena, costumi. Ogni personaggio, ad esempio, è caratterizzato da un solo abito: Margot una pelliccetta, Richie una tenuta ispirata a Bjorn Borg, l’amico Eli un completo da uomo del Far West. Quanto al vedovo Chas e ai suoi due bambini, indossano sempre tute da ginnastica rosse; salvo sostituirle con tute nere quando devono partecipare a un funerale.
* * *
La Stampa (30/3/2002)
Alessandra Levantesi
Non capita a chiunque di essere considerato autore di culto già all’opera terza, come è successo a Wes Anderson con I Tenenbaum, una commedia grottesca che capovolge il mito americano del successo e delle carriere dall’ago al milione. Fingendo di basarsi su un immaginario libro, che pare scritto sulla falsariga di un romanzo di Salinger da uno dei suoi precocissimi protagonisti, Anderson (insieme all’amico Owen Wilson, co-sceneggiatore e interprete del film) mette in scena la bizzarra saga di un clan di decaduti, «per un quarto ebrei e per tre quarti irlandesi cattolici». Uscito di casa 17 anni prima, il patriarca Gene Hackman, che è un bugiardo patentato, si fa passare per malato terminale allo scopo di poterci rientrare: il primo motivo è che è senza un soldo, ma questa per lui è una condizione abituale; il secondo, ben più grave, è di impedire che la moglie Anjelica Huston convoli a nozze con il nero Danny Glover. Intanto stanno tornando in famiglia anche i figli, che da ragazzini erano dei piccoli geni: Ben Stiller riusciva a risolvere qualsiasi problema di alta finanza, Luke Wilson vinceva un campionato di tennis dietro l’altro e Gwyneth Paltrow sembrava destinata a un futuro di successo come drammaturga. Ma ora, divenuti adulti, i tre vagolano alla deriva votati al fallimento, tanto sul fronte esistenzial-affettivo che su quello del lavoro. Riuscirà il cialtronesco papà Gene, cui i figli attribuiscono la colpa dei loro disastri, a risollevare la situazione? Pur essendo texano, il cineasta Anderson sente di appartenere a New York, il luogo dove ha scelto di vivere: ambientato in una Manhattan di fantasia, tutta in mattoni rossi com’era un tempo, I Tenenbaum è innanzitutto un omaggio a questa grande città e alla sua sofisticata cultura realizzato con piglio originale. Però, forse per eccesso di artifici stilistici, Anderson non riesce a dare un ritmo interiore alla storia, congelandola in una sorta di staticità. Ogni personaggio vive isolato dall’altro, come presentato sotto vetro e circondato da un’ideale cornice; il che rende il film meno divertente di quel che potrebbe e ne penalizza la componente emotiva laddove gli elementi di coinvolgimento non mancherebbero. Nell’ottimo cast risalta l’interpretazione di Hackman un attore straordinario che conferisce il suo personale spessore a qualsiasi personaggio.
* * *
Corriere della Sera (2/2/1930)
Maurizio Porro
È arrivato in Italia I Tenenbaum, “Royal Tenenbaum” non a caso nell’originale, il film del 32enne regista rivelazione Wes Anderson – cognome portafortuna, niente a che fare col vecchio Lindsay o col Paul Thomas Anderson di Magnolia – gonfio di complimenti dei critici più severi, a partire dal New York Times, che lo ha giudicato il miglior film dell’anno. Quello dei regali Tenenbaum è il ritratto di una famiglia in cui non c’è una sola pecora nera, ma lo sono tutti pecore nere, ciascuno pieno di tic e chiuso nel proprio ego. È un dramma eccentrico e sofisticato con una voce fuori campo a far da narratore (in originale è Alec Baldwin, da noi Sergio Di Stefano) e diviso in capitoli scritti a caratteri gotici: il film si merita quattro stellette per personalità.
IL CAST – Il film, dai toni sarcastici, è popolato da personaggi che in passato avrebbero ispirato a Hollywood una bella commedia sofisticata (infatti il regista cita tra i numi ispiratori, Scorsese, la nouvelle vague e i brillanti Kaufman e Hart). Ed è già un caso di cine-sociologia. Perché l’autore ha saputo mettere insieme giovani stelle come la Paltrow, Ben Stiller, il lanciatissimo «antieroe» Owen Wilson, cosceneggiatore dal naso picassiano e voce nasale, oltre ai capifamiglia Gene Hackman (vincitore del Golden Globe) e Anjelica Huston, fino a Danny Glover e Bill Murray. Ma soprattutto perché si fa scudo dello snobismo «intellettual camp», l’apoteosi del kitsch hollywoodiano – quasi una rivincita sui muscoli di Stallone, Willis e Schwarzenegger – con raffinatezza visiva estrema, un audace mix musicale (Satie, Debussy, ma anche i Beatles e i Clash) e un solido cinismo narrativo. Parla di un mondo dove nessuno è perfetto: al confine tra ironia e disperazione c’è l’orgoglio «upper upper class» dei Tenenbaum, parenti degli Amberson di Orson Welles ma anche dei vampireschi «Addams» (tutti da ridere), un po’ cartoon.
LA STORIA – È quella di una famiglia patriarcale in cui manca da anni proprio il patriarca, impersonato da un formidabile Gene Hackman che, spiantato, è andato a vivere in un hotel in cui finisce per fare il lift (pare che in gioventù l’attore fosse portiere in un ristorante di Times Square). Adesso ricompare e vuole rivedere i suoi . Ci sono in mezzo tre figli (la ragazza è stata adottata) tutti ex bambini prodigio – il campione di tennis, la scrittrice di teatro, il finanziere – che non si ritrovano in una dimensione umana da adulti: geniali ma infelici, pieni di soldi ma ossessionati dai sensi di colpa. «Succede il contrario di quanto avviene con i personaggi di Hitchcock – spiega il regista – le mie sono persone straordinarie che devono confrontarsi con la normalità». Wes Anderson assicura che non c’è niente di autobiografico, solo qualche memoria della madre che richiama il padre, finto malato terminale, dando così il via a una catena di reazioni nei figli (fino ad arrivare a un mezzo incesto), nei nipotini, negli amici drogati della porta accanto. Ognuno ha le sue vicissitudini sentimentali: la madre si risposerà col suo amministratore; il figlio finanziere, che si è sempre sentito truffato dal padre che ora odia, rimane vedovo e accudisce patologicamente i suoi due bambini; il fratello tennista abbandona lo sport, gira il mondo e si innamora della sorellastra teatrante che a sua volta lascia il marito psicanalista. E poi ci sono l’amico scrittore strafatto che fa guai ovunque, un indiano compiacente, un cane. Le traiettorie affettive sono tutte sbilenche tra quei geni «compresi» dei Tenenbaum: anche le emozioni hanno un copyright di classe su cui ogni tanto si sorride, ma spesso con una forte malinconia: convivere è difficile.
UNA NEW YORK SOGNATA – Si è molto parlato dall’11 settembre in poi, di New York e del suo deturpato «sky line». Un texano che ama Manhattan: un ossimoro? Anderson in questo film ha reinventato una New York deserta, onirica e letteraria che va dal ’20 al ’50, girando dal vero ma restituendo l’impressione di una città fantasma percorsa dai bus Greenline e da taxi zingareschi, favola di una Manhattan letteraria ispirata a Scott Fitzgerald, Salinger e alle annate più ricche del New Yorker. Chi ama i piani americani di Hopper, chi va a vedere a Milano la mostra del Whitney Museum, chi ha visitato la Freak Collection e si sintonizza sulla Manhattan di Woody Allen, adorerà questa storia disperatamente eccentrica, con epicentro in una cadente villa di calcare di Harlem tra la 144.ma strada e Convent Avenue.
LOOK VINTAGE – Tutti i Tenenbaum sono vestiti tra la moda dei Cinquanta, disegni originali e griffe d’oggi. La geniale commistione è il copyright dei costumi di Karen Patch, che in realtà si chiama Guarnieri ed è di origine italiana. Il cowboy scrittore porta giacche a frange come il Buffalo Bill di Altman, ma le indossa sopra pantaloni di Gucci; Margot, che guarda all’infinito e oltre, usa vestitini Lacoste, ha sempre con sé la borsa Kelly, porta scarpe basse e cappotto-pelliccia di Fendi, quasi un omaggio al Peter Sellers del Mondo privato di Henry Orient; il doppiopetto di Gene Hackman, infine, sembra ispirarsi al Mike Jagger di Gimme Shelter mentre Glover indossa camicie parigine di Charvet.
IPER REALISMO – È un occhialuto nuovayorkese underground alla sua opera terza, che odia i compromessi, ma scrittura un cast di star. Che cosa gli interessava esprimere? «Le dinamiche interiori di un gruppo di famiglia in interno nuovayorkese in stile iperealista Usa». E ci riesce molto bene , rivolgendosi a un pubblico selezionato, capace di sorridere sui drammi altrui (ma senza commuoversi, i personaggi «incasinati» non sono campioni di simpatia), con una conoscenza dei processi di famiglia che rende il giovane autore un teste privilegiato e fa del suo film un esame sul tasso medio di solitudine americana: anche quelli del Central Park piangono.
* * *
il Manifesto (30/3/2002)
Roberto Silvestri
Un misterioso e affascinante film-giocattolo, anche se ha irritato Libération, dopo la Berlinale e l’Oscar sfiorato per il copione, I Tenenbaum, è il regalo perfetto per Pasqua (assieme a Il consiglio d’Egitto di Emidio Greco, Almodovar, Tredici variazioni sul tema, perché c’è Clea Duvall, Rollerball e E.T.). «È il miglior film dell’anno» ha sentenziato il New York Times, diffidente sugli estranei che mettono il naso dentro le faccende intime della Grande Mela. E che invece tira fuori paragoni tra i Tenenbaum e la famiglia Glass di J.D. Salinger, appassionandosi all’idea che il regista sia frutto di una sensibilità distorta da letture infantili inadatte all’età, come il «tutto John Irving». Una commedia grottesca ma difficile da maneggiare e giustiziare con un solo aggettivo, e nemmeno slapstick, e con trenta stuntmen, è già qualcosa di inusuale. Poi. Di fuori il film è dolce, come cioccolato fondente, infarcito com’è di tante star in gran forma (Anjelica Huston, Gene Hackman, Bill Murray, Danny Glover, Gwyneth Paltrow, Ben Stiller, il redivivo Seymour Cassel…) e di gypsy-taxi (?) che attraversano avenue da Waldorf Astoria. Le immagini sono vivide, acide e immasticabili, ma più s’illuminano meno trasparenti appaiono (Robert Yeoman ha dato già la luce agli inquietanti Drugstore cowboy e Dogma). Però è dentro il bello. C’è del materiale inaspettato, un mondo a parte. Come se un film di Frank Capra entrasse in un laboratorio diabolico, alla Cronenberg, per la messa in horror di ogni più limpido sentimento umano. Come se una colonna sonora potessero stiparsi Lou Reed e Joe Strummer, Brian Wilson e Ravel, Ramones e Gymnopedie n.1, ma soprattutto «Hey Jude» e «Look at me» di John Lennon tra «She smiled sweetly» e «Ruby tuesday» (anche se i fan dei Rolling ci assicurano che nell’lp Between the buttons, sia versione UK che Usa, la seconda canzone non viene subito dopo la prima). Di atmosfere così (anche se la commedia si scioglie costantemente in qualcos’altro e ci si muove dentro il più abusato dei set, nella Manhattan upper class d’oggi) non ne abbiamo mai respirate in una sala cinematografica. Opera terza del texano Wes Anderson, laureato in filosofia, anni 32, si racconta di Royal Tenenbaum e Etheline (non sempre sua moglie) e dei loro tre figli prodigio (un campione di tennis, una scrittrice da Pulitzer e un mago della finanza), da piccoli, e via via traumatizzati dalla loro stessa intelligenza, anche se incolpano il papà irresponsabile e giocherellone dei propri insuccessi, tradimenti, nevrosi, psicodisastri, anche vagamente incestuosi. La famiglia – composta di sole pecore nere – dunque si riunisce, dopo molti conflitti, imprevedibilmente, in un certo giorno d’inverno… Con, nel cast, Alec Baldwin (la voce off è sua nella versione originale) e altri autentici amici di infanzia del regista, i fratelli Luke (è Richie, il tennista prodigio) e Owen Wilson (co-sceneggiatore e «Eli Cash», l’amico di sempre dei tre genietti, scrittore di bestseller western). Intanto la psico-commedia si è già impregnata di follia, la grassa risata viene accoltellata da momenti di irritazione o commozione, o sprofonda nel mare magnum del sorriso indelebile e idiota. Insomma è instabile il rapporto con queste immagini, che maneggiano un set di emozioni incostanti senza mai congelarsi nel grottesco puro o nel demenziale: potremmo essere dentro un passo di P.G. Wodehouse, e, un attimo dopo, in un film di genere degenerato di cui Kubrick era specialista. Meno filosofico e leggiadro di una storia d’amore metropolitana di Hal Hartley, conserva l’originalità di sguardo e di fraseggio del connazionale Linklater (si notino i quadri del messicano Miguel Calderon nell’appartamento di Eli) ma si accomoda profondamente anche dentro una poltrona placida che potrebbe essere appartenuta ai Disney-live anni 60. I 10 Tenenbaum (più cane e falchetto) confliggono in un grande edificio di sogno, ma sono uno incompatibile con l’altro, dal patriarca Royal (Gene Hackman, Golden Globe 2002), che si diverte come un ragazzino ma ha anche l’autorevolezza per permetterselo a tempo intero e che perciò, e non senza un ultimo geniale guizzo per bloccarlo, è costretto al divorzio da Etheline, che arrivata alla mezza età ha scoperto il bridge, l’archeologia urbana e come conquistare il suo commercialista. Chas (Ben Stiller), la figlia adottiva Margot (Gwyneth Paltrow) e Richie (Luke Wilson), il piccolo Rod Lever, vivono nell’edificio con un infinito nugolo di amici, partner, camerieri e figli: il neurologo Raleigh St.Clair (Bill Murray) ex marito di Margot, il commercialista senz’anima Henry Sherman (Danny Glover), Pagoda (Kumar Pallana), cameriere pakistano di Royal, poi con lui ascensorista d’albergo, e Dusty (Seymour Cassel), il finto dottore che diagnosticherà a Royal un inesistente, tattico, cancro anti-divorzio. Ognuno ha segreti strategici per non farsi coinvolgere e sprofondare dentro le sabbie mobili della «famiglia, che non è un sostantivo, ma una condanna», come ci spiega la battuta-perla del film. Ecco Margot che fuma da quando aveva 12 anni, nessuno se ne è mai preoccupato ma quando lo confessa, scatta la tragedia greca. Le reazioni di tutti sono sempre imprevedibili, velocissime e crudeli come in uno scambio di tennis sotto rete, che si risolve in smash. E come nelle altre commedie di famiglia di Wes Anderson, Bottle Rocket (’96) e Rushmore (’98), gli eroi sono astute macchine anti-istituzionali che l’istituzione farà impazzire a base di sedativi. Dal «motion» allo slow motion del finale.