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Sully | Recensioni

Recensioni del film Sully, diretto da Clint Eastwood. Contributi di Roberto Escobar, Pier Maria Bocchi, Peter Debruge

Il comandante Chesley Sullenberger, detto “Sully”, è un esperto pilota di linea ai comandi di un aereo che decolla la mattina del 15 gennaio 2009 dall’aeroporto LaGuardia di New York ed impatta contro uno stormo di uccelli pochi istanti dopo, perdendo l’utilizzo di entrambi i motori. Il comandante si rende conto che l’unico modo per cercare di salvare le persone a bordo (155 tra equipaggio e passeggeri) è tentare un ammaraggio nel fiume Hudson, e riesce nell’impresa senza provocare vittime. Sully viene acclamato e considerato un eroe dall’opinione pubblica; tuttavia viene posto sotto inchiesta dall’ente aeronautico per non aver seguito il protocollo di volo ed aver messo in grave pericolo l’equipaggio e i passeggeri. Anche l’assicurazione lo accusa di aver causato la distruzione dell’aereo.

Combattuto tra i sensi di colpa e la soddisfazione per aver salvato tante persone, Sully deve affrontare la commissione d’inchiesta che cerca di dimostrare che il pilota avrebbe avuto la possibilità di atterrare in aeroporti vicini all’area del guasto. In particolare l’accusa si avvale sia di simulazioni di volo al computer che di sessioni al simulatore di volo che confutano la tesi che il pilota non avrebbe avuto altra scelta che l’ammaraggio sull’Hudson. In una drammatica sequenza finale, Sully dimostra che le condizioni su cui si basavano le simulazioni erano imprecise ed errate, oltre che studiate ed elaborate per lungo tempo (quando nella realtà un pilota che sta per rischiare un incidente non ha molto tempo per prendere le sue decisioni), e che solo la sua rischiosa scelta avrebbe potuto salvare i passeggeri. Riesce così ad essere scagionato ed a venire ricordato come un eroe.

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AL TORINO FILM FESTIVAL
«Sully»: Clint Eastwood e l’elogio al coraggio del comandante Hanks
Diretto da Clint Eastwood, il film sull’ammaraggio di emergenza nell’Hudson di un airbus con 155 persone a bordo, nel 2009, premia l’eroismo senza effetti speciali
di Paolo Mereghetti

Non in concorso (il Torino Film Festival è riservato alle opere prime, seconde e terze: questo è il 35° film di Eastwood!) ma, attesissimo, Sully non tradisce le aspettative. E lo fa trasformando un possibile film «catastrofico» — l’ammaraggio di emergenza nell’Hudson di un airbus con 155 persone a bordo, il 15 gennaio 2009 — in un film intimista, dove le scene più appassionanti non sono quelle dell’incidente ma piuttosto quelle in cui il comandante Chesley Sullenberger — per tutti Sully — e il suo copilota Jeff Skiles devono difendersi dall’inchiesta che le autorità hanno istruito sull’evento. E scegliendo di affidare a Tom Hanks e Aaron Eckhart i due ruoli principali, è come se Eastwood svelasse in anticipo le carte che vuole giocare, cioè quelle di un encomio dell’Uomo e della sua Professionalità («abbiamo fatto un buon lavoro» è il commento-complimento che Sully fa a Skiles alla fine dell’inchiesta) contro il tecnicismo burocratico di chi si affida agli algoritmi e alle simulazioni per ricostruire i 208 secondi in cui il pilota ha preso la decisione di tentare un ammaraggio e l’ha portata a buon fine.

Il senso del film è tutto qui, nell’elogio perfettamente in linea con l’ideologia all american di Clint Eastwood per il coraggio, la decisione, il sangue freddo di chi sa portare il suo «gruppo» fuori dai guai. Ieri poteva essere la carovana dei coloni, oggi è un aereo di linea. A trionfare è sempre il singolo, l’individuo, l’homo americanus che sa affrontare i pericoli e superare gli ostacoli che la «natura» gli mette di fronte (qui, guarda caso, uno stormo di uccelli che rendono inservibili i due motori dell’aereo). Senza dimenticare, però, che in mano a un regista meno «classico» di Eastwood il film non avrebbe probabilmente raggiunto i vertici di semplicità ed efficacia che invece vanno riconosciuti a Sully. Quasi «aristotelico» nella sua vicinanza di tempi e luoghi (Sully non può nemmeno tornare a casa perché deve rispondere ai giudici dell’inchiesta), il film usa i flash back solo per dare forma visiva alle domande sulla ricostruzione e procede spedito nel cercare — e trovare — l’empatia con il suo eroe. Concedendosi solo qualche piccola deviazione per sottolineare l’efficienza dei salvataggi scattati appena dopo l’ammaraggio (l’acqua era intorno ai 2 gradi) e per stigmatizzare i comportamenti della stampa, sempre pronti a spettacolarizzare ed esagerare. Forse per togliersi qualche sassolino contro chi non ha mai visto di buon occhio i suoi endorsement per i repubblicani…

Corriere della Sera, 19 novembre 2016

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‘Sully’, nessuno è perfetto ma Clint uomo vero è tornato a esserlo
di Paolo D’Agostini

Dovremmo avercela con Clint per la sua sponsorizzazione di Trump? Pazienza, se la sua tensione creativa — a 86 anni — si conferma tanto forte, personale, ispirata. Nessuno è perfetto. L’episodio, documentato nella realtà dalle immagini finali con il vero comandante, il vero equipaggio e i veri passeggeri che sorridono sollevati festeggiando increduli la sopravvivenza e ringraziando il loro schivo eroe dai capelli bianchi, risale al 15 gennaio 2009. Appena decollato dall’aeroporto La Guardia di New York un volo di linea della Us Airways pilotato dal veterano (prima militare e poi civile, 42 anni di volo, un milione di passeggeri trasportati) capitano Sullenberger detto Sully si ritrova entrambi i motori fuori uso a causa di uno stormo di uccelli che ci è finito dentro. Uomo solo al comando con uniche compagne la propria esperienza e la propria coscienza, Sully ha una manciata di minuti per decidere che fare. Non è possibile tornare indietro o atterrare su altre piste vicine, sotto il velivolo la distesa del fiume Hudson: unica chance, piena di rischi, l’ammaraggio. Il miracolo si compie, tutti e 155 rispondono all’appello e nessuno si è fatto male salvo una hostess leggermente ferita.

Con il magico tocco della migliore semplicità, essenzialità, sobrietà, in una parola classicità di cui ha dato tante prove questo grande del cinema contemporaneo, il film si snoda — brevemente, altra virtù — intorno al paradossale processo che Sully e il suo secondo devono subire da parte delle autorità dell’aviazione civile. Le quali contestano l’ineluttabilità della sua decisione, sospettano un suo errore e la conseguente irresponsabilità nell’esporre tante vite umane ad altissimo rischio, mettendo così in forse la degna conclusione della sua carriera e perfino la pensione. Albergo, uffici e aula dell’udienza, telefonate a casa, flashback sugli aiuti prodigati nel salvataggio sul fiume, testimonianze di affetto e ammirazione, media scatenati e sempre pronti a insinuare o a mutare radicalmente versione: a trasformare l’eroe in pericoloso incompetente. Tanto più che le simulazioni esibite come argomento a carico di Sully gli danno torto. Ma le simulazioni prescindono dal fattore umano, i simulatori così come chi deve giudicare il suo operato non erano lì alla guida di quell’aereo in picchiata con pochi secondi per decidere.

Tom Hanks calza a pennello. Nuovo Gregory Peck o Henry Fonda costretto a difendere il proprio onore dalle ombre che ingiustamente lo minacciano. L’uomo integro — con i suoi difetti, che rendono ancora più apprezzabile la sua integrità — che assume sulle proprie spalle il peso schiacciante della responsabilità. Riducendo al minimo le parole, l’esternazione di sentimenti e risentimenti. Un uomo vero, insomma. Conosce la sua strada e la percorre. Sentendo di aver fatto il giusto, incluso abbandonare l’aereo che affonda per ultimo, fiero di aver salvato tutti, smanioso di tornarsene a casa e alla vita di sempre lontano dai riflettori e dall’enfasi, e un po’ vergognoso dei 110 battiti al minuto rilevati da medico che lo visita subito dopo l’impresa.

Clint ha il talento del cantore dell’individualismo americano che — come in Gran Torino e in Million Dollar Baby, ma anche nell’ostico American Sniper — è coscienza della responsabilità e virilità delle e nelle scelte.

La Repubblica, 1 dicembre 2016

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RIFLESSI NEL GRANDE SCHERMO
Che cosa è un eroe
di Roberto Escobar

Chi è un eroe? Da ultimo, Clint Eastwood se l’è domandato in American Sniper (2014), che i più superficiali hanno scambiato per un’apologia del cecchino patriota, dell’uccisore “a fin di bene”, ma che svela quanto un tale assassino in buona coscienza possa fraintendere se stesso, e quanto il suo mito sia carico di morte. Eroe, suggerivano già nel 2006 Flags of Our Fathers e Lettere da Iwo Jima (2006), non è chi uccide in una guerra, ingiusta o giusta che sia, ma chi si senta responsabile nei confronti dei vivi. Di questa responsabilità si carica il protagonista di Sully (Usa, 2016, 96’).

Tratto da un fatto di cronaca, e scritto da Todd Komarnicki, il film racconta di Chesley Sullenberger detto Sully (Tom Hanks), che ai comandi di un Airbus A320 il 15 gennaio 2009 salva le vite di 155 uomini e donne, e insieme la propria. Appena dopo il decollo dall’aeroporto Fiorello LaGuardia, entrambi i motori del suo aereo sono messi fuori uso da un fitto stormo di uccelli. Dalla torre di controllo gli dicono che può tornare a La Guardia o atterrare sette miglia più in là a Teterboro, nel New Jersey. Con Jeff Skiles (Aaron Eckhart), il suo secondo, Sully valuta entrambe le possibilità. A disposizione non ci sono che pochi minuti. Il rischio è che l’aereo si schianti contro gli edifici di New York.

Pilota da quarant’anni, Sully decide di non affidarsi né al direttore di volo né ai protocolli del costruttore. Vira in direzione del fiume Hudson e ammara sopra le sue acque gelide. Sono passati 3 minuti e mezzo dal guasto e dopo altri 24 tutti i 155 sono messi in salvo dai traghetti di linea e dagli elicotteri della polizia. Sully è l’ultimo a uscire dall’aereo, ma solo dopo averne ripercorso due volte la carlinga, per assicurarsi che non vi sia rimasto intrappolato nessuno. In diretta, le tivù ne fanno un eroe, ma l’Agenzia federale per la sicurezza del volo apre un’inchiesta, ipotizzando che la sua decisione, autonoma e irrituale, abbia fatto correre rischi inutili ai passeggeri e all’equipaggio.

Questi sono i fatti, e poi c’è Clint Eastwood con la sua attenzione alla moralità del singolo. Si può condividere il mondo di valori dell’autore di film all’apparenza diseguali come Mystic River (2003) e Gli spietati (1992), e si può anche rifiutarlo. In ogni caso, il senso morale del suo cinema non dipende da una somma di principi da cui i protagonisti si limitino a far discendere in modo immediato le proprie decisioni. Al contrario, si esprime nella radicalità tragica della decisione, nel momento in cui il singolo se ne prende la responsabilità Così fanno il Nelson Mandela di Invictus (2009), il Frankie Dunn di Million Dollar Baby (2004) e Butch Haynes, lo U.S. Marshall di Un mondo perfetto (1993). La loro moralità non ha l’astrattezza di un protocollo di norme, umane 0 divine, ma l’urgenza concreta delle vite degli uomini e delle donne con cui si trovano a condividere la propria. Ben lontana dall’essere più semplice e più comoda, la loro moralità pretende coinvolgimento, assunzione consapevole di rischi. E non conosce autoassoluzioni. Chi decide, sa che nessun principio e nessun protocollo potrà poi valergli a discolpa.

Così fa Sully, che rifiuta di farsi scudo morale del mito eroico che le televisioni e l’opinione pubblica gli costruiscono attorno. Mai utilizza la salvezza dei 155 per giustificarsi, né di fronte all’Agenzia per la sicurezza del volo né, ancor meno, di fronte a se stesso. Se ha sbagliato, così pensa, sulla sua coscienza graverà un peso che nessun riconoscimento sociale potrà alleggerire. Ho fatto del mio meglio, assicura per telefono alla sua Lorraine (Laura Linney). Ma nemmeno questo gli darebbe sollievo, se scoprisse che davvero ha messo inutilmente a rischio 155 vite.

È un eroe, Chesley Sullenberger? E poi, è importante che lo sia o non lo sia? La sua risposta è la stessa che darebbero Nelson Mandela, Frankie Dunn, Butch Haynes. Non conta essere eroi. Conta assumersi la responsabilità delle vite degli altri, insieme con gli altri.

Il Sole 24 Ore, 4 dicembre 2016

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di Pier Maria Bocchi

Forse Clint Eastwood sta cercando di chiarire la propria identità d’autore; però a sé stesso, prima che agli spettatori. E lo sta facendo ora, durante questo nuovo mondo, in questa realtà, con più forza e determinazione – se possibile – che in passato. Non bada all’uniformità del pensiero dominante dell’establishment dello spettacolo statunitense, non sceglie il conformismo ideologico, e insegue prima di tutto, prima di tutti, un sé mai veramente piegato né messo in dubbio eppure oggi, suo malgrado, probabilmente travolto da eventi e cose più grandi di lui. Un sé, insomma, costretto a fare i conti ancora una volta con la Storia, tuttavia con una Storia che corre sempre più veloce, e che si trasforma, e trasforma le sue dinamiche e i suoi mostri.

Facile pensare a Eastwood come a un monolito “classico” e immobile, mentre tutto intorno ruota e procede, cambia di abito e di importanza, si rilancia e guarda altrove: ma è un luogo comune, e non serve più a niente. E poi, a conti fatti, non è vero, perché gli ultimi film di Clint Eastwood si muovono, frugano, inquisiscono, osservano. Senza dubbio si tratta di un cinema fondato come sempre su idee perentorie e certe, ma quali registi così longevi e così produttivi non le hanno? Quel che mi sembra veramente interessante è che, almeno da Gran Torino (2008) in poi, lo sguardo eastwoodiano si sia spostato in prevalenza su un tentativo di ritrovare criticamente l’io autoriale, piuttosto che ambire a una critica rappresentazione autoriale del mondo.

Non è meno importante, specialmente se consideriamo quanto Eastwood sia diventato nel tempo un concetto e una prospettiva, tanto per i fan, quanto per i detrattori. Ma lui pare fregarsene, e gira film che braccano da vicino quello stesso concetto e quella stessa prospettiva. Invictus – L’invincibile (2009) e Jersey Boys (2014) erano al riguardo limpidi e trasparenti, le avventure di un regista dato a tal punto per scontato da risultare invisibile davanti al proprio specchio. Come se anni e anni di fascicoli critici l’avessero vampirizzato.

E dunque anche Sully è limpido e trasparente, nondimeno capace di una sintesi inedita. Non c’è un’immagine di più. Ed è evidente quanto autore e protagonista siano speculari, entrambi alla disperata ricognizione di un’identità non perduta ma improvvisamente debole, a dispetto di celebrazioni e onorificenze, eroismi e santismi, voti e targhe. Anche un evento imprevisto e straordinario è la riproduzione (benché in scala ridotta) del mondo, e Eastwood è lì dentro che verifica il proprio statuto di icona. Non ci fa a pugni, però ne rivendica quantomeno la specificità. Può farlo, mentre le cose crollano, gli ideali spariscono, i valori prendono una piega sgradevole. In un film dove la verità giunge attraverso un incubo o un ricordo ad occhi aperti (e bisognerebbe imparare anche da qui, dalla grammatica di una visione e di un flashback: l’abc cinematografico, ma a saperlo applicare è un altro paio di maniche), e dove il giudizio è prepotentemente, assurdamente e caparbiamente interrogato, Clint Eastwood e Chesley Sullenberger detto Sully hanno un solo desiderio, riacquistare il diritto ad essere uomini.

«You are looking for human error. Then make it human». Se vogliamo parlare, se devono esserci un dialogo e un contraddittorio, che sia allora uno scambio fra identità e intelletto. Non è un caso che l’ultima mezz’ora di Sully si affidi al confronto diretto fra persona e computer, raziocinio e invenzione, mente e artificio: come in uno dei film più belli dell’anno, Deadweight di Axel Koenzen (presentato anche questo al Torino Film Festival 34, ndr), la simulazione è usata quale punto di vista per torchiare la ragione sociale a favore della logica umana. È l’individuo che ha la meglio, ma non quello contraffatto: Eastwood e Sully sono infine salvi, dopo aver recuperato – fra macerie e imitazioni, pettegolezzi e religioni, dicerie e idolatria – l’immagine di sé.

Rintracciare dunque un’autoconsapevolezza solo temporaneamente annebbiata e intorpidita: questo cinema eastwoodiano, schietto e aperto, non fa che proseguire sulle orme lasciate da Coraggio… fatti ammazzare (1983), Il cavaliere pallido (1985) e Gunny (1986), che già all’epoca sottoponevano a indagine ruoli e archetipi, ispessendoli e flettendoli. Un cinema in prima persona, perché Eastwood crede di dover riprendersi l’identikit predisposto da altri in più di quarant’anni di film e di critica. Ed è giusto così.

Cineforum, 28 novembre 2016

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by Peter Debruge

If there’s one Hollywood star you would trust to crash-land a commercial airliner without injuring a soul on board, it would surely be Tom Hanks. After risking his life in order to save his crew in Captain Phillips, the two-time Oscar-winner takes to the skies — and mere moments later, to the chilly waters of the Hudson River, after a flock of birds blows out both engines of US Airways Flight 1549 — in a remarkable true story that inspires confidence not only in its leading man, but in honest, hard-working Americans everywhere.

Directed by Clint Eastwood with the same kind of unpretentious professionalism the film makes a point of celebrating in its protagonist, Sully retells the so-called “Miracle on the Hudson” through the eyes of Capt. Chesley Sullenberger, who pulled off the incredible landing — if “landing” is indeed the right word when a plane touches down on open water — based on his book, “Highest Duty.” For audiences, getting to witness the feat in question is far and away the film’s biggest selling point (and no doubt the reason why it will be opening simultaneously on Imax screens Sept. 9), but Eastwood and screenwriter Todd Komarnicki have opted for a counterintuitive approach, withholding the flight itself for as long as possible and focusing primarily on the aftermath of the accident, as Sully tortures himself with questions of what he might have done differently, and as a team of National Transportation Safety Board investigators attempt to ask him the same thing.

While that means more of the film is set in the hot seat of inquest chambers and courtrooms than in the cockpit itself, starting after the plane has safely landed is a shrewd storytelling strategy for multiple reasons. Not least of these is that it allows Eastwood to parcel out multiple impressions of the incident — from extended flashbacks to crude simulations — over the course of movie, effectively offering audiences six plane crashes for the price of one.

In fact, the film, which runs an efficient 96 minutes, in Eastwood’s typical no-fat style, holds back on what really happened until more than an hour in, and instead opens with a vivid nightmare in which Sully imagines a far different outcome had he followed through on his initial strategy of returning to LaGuardia Airport with practically no thrust in either engine, culminating in a fiery demise for all aboard as Flight 1549 crashes into a skyscraper. And then he wakes up.

The unsettling dream sequence is strangely less exciting than such airline-disaster openings as those in Flight and Alive. And yet, distasteful as it may be to watch a plane smash into the New York skyline, conjuring images of 9/11, it’s a reminder that Sullenberger’s actions potentially saved more than the lives of his 155 airline passengers.

This isn’t the first time Eastwood has opened a film with a major CG cataclysm: In the relatively heavy-handed Hereafter, he kicked off proceedings by demolishing the coast of Thailand with a dramatic recreation of the 2004 Indian Ocean tsunami. While only a dream sequence, Sully’s opening feels less like a stunt from a director who alternates between sober, seemingly timeless portraits of exceptional personalities (American Sniper, Million Dollar Baby), and corny, cardboard melodramas too old-fashioned in their approach (Jersey Boys, Changeling), occasionally landing somewhere in the middle (à la Flags of Our Fathers). Sully is an example of the last done right: a straightforward tribute to the extraordinary actions taken by an irreproachable character who refuses to see himself as a hero. It’s not a particularly great Clint Eastwood movie — it ranks perhaps ninth or 10th on a résumé of 35 features, two of them best picture winners — but it’s one that promises to resonate in a big way with Americans at this moment in time.

Ripped from the headlines, Sully offers a rare example of a movie inspired by good news — the best news, as one character points out, that New York has heard in a long time, “especially with an airplane in it.” And because most Americans already know the outcome, it makes sense to focus on the less-known “what happened next” of it all, after Flight 1549 had faded from the TV news cycle. (In the film, whenever there’s a television in a scene — whether in a bar or a hotel or back home at the Sullenberger residence — it’s covering the story.) What most people don’t know is the cruel irony that despite saving everyone’s lives, Sully still had to answer to the NTSB, which felt that his decision to effect a forced water landing had actually endangered everyone aboard. According to protocol, Sully should have returned to LaGuardia, or else tried to land at nearby Teterboro Airport, and both the airline’s insurance company and Sully himself are faced with the consequences of his decision — one that’s informed by the pilot having delivered nearly a million passengers over some 40 years.

Sullenberger may be haunted (visions of crashing planes become a recurring motif), but he’s not alone. His co-pilot, Jeff Skiles (Aaron Eckhart), sticks to Sully’s side like a faithful collie, while his wife, Lorrie (Laura Linney), offers encouragement from home via phone. But Sully’s network of support extends far beyond that, relying on all the other professionals who played a role that day, from the air-traffic controllers to the flight attendants to the emergency-response crew, and though viewers will shake their heads at the injustice of the fact that the authorities held Sully’s feet to the fire for what happened, Eastwood’s message is one of appreciation for those who responded to a crisis in which everyone survived, where the pilot did his job, and where people acted admirably across the board. As Skiles tells the NTSB investigating committee, “You’re not used to having answers to your guesses.” (He also gets the movie’s last laugh, an odd, “OK, I guess we can all go home now” chuckle.)

In terms of acting, there’s not a whole lot for the supporting cast to do other than support, and some of the extras (most notably the passengers) can be distractingly amateurish at times. This is Hanks’ show, and he delivers a typically strong performance, quickly allowing us to forget that we’re watching an actor. With his snowy white hair and mustache to match, Hanks conveys a man confident in his abilities, yet humble in his actions, which could also be said of Eastwood as a director. As unfussy as ever, Eastwood juggles the script’s odd chronology-bending structure, steering by his central character’s conscience throughout, while supplying another of his simple piano scores, which doubles as the melody for end-credits song “We’re All Flying Home” — though if ever there was a film that called for “The Wind Beneath My Wings,” this is it.

Variety, September 2, 2016

 

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