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Larry Flynt – Oltre lo scandalo | Recensioni

Recensioni italiane del film Larry Flynt - Oltre lo scandalo, diretto da Milos Forman. Contributi di Alessandra Levantesi, Tullio Kezich, Emanuela Martini, Irene Bignardi, Alberto Crespi, Roberto Silvestri, Roberto Escobar, Massimo Lastrucci

La Stampa
Alessandra Levantesi

Rivale da sempre dell’editore di Hustler, Bob Guccione non ha tardato a sferrare l’attacco contro il discusso film Larry Flynt – Oltre lo scandalo di Milos Forman, presentato ieri a Berlino, e nel numero di febbraio della sua rivista Penthouse ha pubblicato un’intervista a William Rider, per anni addetto alla sicurezza di Larry. Il contenuto consiste in una serie di accuse pesanti: il presunto martire della libertà d’espressione teneva sotto controllo tutti i telefoni di casa e dell’ufficio, spinse la moglie Althea alla tossicomania e alla morte, molestò le figlie, evase il fisco e ulteriori nequizie. Però perfino Penthouse non ha dubbi su un punto: nell’88 la sentenza della Corte Suprema che diede vittoria a Flynt nella causa contro il reverendo Falwell, da Hustler pesantemente satireggiato, è stata fondamentale per le libertà civili e di stampa. È proprio questa la posizione di un film che, pur pervaso dall’inconfondibile tocco umoristico-satirico del regista Forman, è molto nelle corde espressioniste del produttore Oliver Stone. Nell’incisiva, intrepida interpretazione di Woody Harrelson (candidato all’Oscar), il ritratto a tutto tondo di Flynt è in realtà un altro elemento del puzzle sull’America degli ultimi trent’anni che la filmografia di Stone va componendo. Il film inizia in piena era hippy nel ’72, quando sotto forma di newsletter il nostro fonda il “pornoginecologico” Hustler, dimostrando che a suo modo anche Larry è figlio di quel momento libertario. Dall’infanzia povera all’apertura del locale di strip-tease, dalla fondazione dell’impero editoriale all’arresto per oscenità, dal matrimonio con la bisessuale Althea all’attentato che lo rese paralitico e impotente, il film segue la tormentata odissea del protagonista senza perdere di vista i mutamenti di costume, culturali e politici sullo sfondo. Alla fine la sensazione è di aver assistito a un capitolo della storia della democrazia americana, per cui non c’è da stupirsi se qualche critico Usa ha definito la pellicola patriottica. Quanto all’esaltazione di Flynt, a parte la sua nobilitante (e bellissima) storia d’amore con Althea, che Courtney Love impersona in una chiave emozionale di dolente sensibilità probabilmente autobiografica, non ci sembra che Forman ne faccia un eroe positivo. Spesso sgradevole, il personaggio resta ambiguo e insondabile, mentre, a ben guardare, a far trionfare il vessillo libertario è il giovane avvocato di Flynt: un tipo che, con l’accattivante understatement del bravo attore Edward Norton, sa convincere i giudici che il cattivo gusto non è un problema di legge. È lui, senza averne l’aria, il cuore di questo bel film anarchico, spregiudicato e, a dispetto della materia, elegante.

 

Corriere della Sera
Tullio Kezich

L’avete visto anche voi, sui manifesti e sulla copertina dell’Espresso, Woody Harrelson coperto solo da una bandiera americana usata come perizoma e crocifisso sul pettignone di una femmina. Di dubbio gusto, l’immagine sintetizza il significato del film Larry Flynt – Oltre lo scandalo presentato ieri a Berlino, oggi visibile in Italia. Sotto l’egida del produttore Oliver Stone, Milos Forman, regista di Amadeus, racconta l’odissea del più sfacciato pornografo d’America, processato varie volte come editore della rivistaccia Hustler, ridotto sulla sedia a ruote dalle fucilate di un cecchino bigotto che lo scelse come bersaglio in una replica da tre soldi dell’attentato di Dallas. Scritto dai bravi Alexander & Karaszewski già autori del copione di Ed Wood, autorizzato con impagabile faccia tosta dall’interessato, «The People vs. Larry Flynt» si diffonde sul rapporto sadomaso del pornografo con la moglie Althea (una incandescente Courtney Love), pansessuale, drogata e stroncata dall’Aids. Tuttavia il fine ultimo è quello di esaltare la sentenza della Corte Suprema, che nell’88 sancì il diritto di Flynt, a suo tempo condannato per lo stesso motivo, a pubblicare una pesante satira nei confronti di un melenso predicatore televisivo. Forattini e gli altri nostri sciabolatori della matita possono stare tranquilli, la licenza di sfottere è ormai garantita ai più alti livelli della legislazione planetaria. Anarchico e ribaldo, il film scansa qualsiasi tentazione di ipocrisia per affermare che in una società democratica anche un tipo come Flynt può aspirare a qualche garanzia. Harrelson lo impersona con aggressiva gradevolezza, in contrasto con la sgradevole grinta (che si constata anche nel film, dove incarna un giudice cattivo) del personaggio vero. Dal quale, se devo essere sincero, non comprerei una macchina usata. Come contravveleno a quel tanto di edificante che c’è in Forman, suggerisco la lettura del numero di febbraio di Penthouse, la rivista di Bob Guccione acerrimo concorrente di Flynt. D’accordo, è Cencio che parla male di Straccio, ma in un’intervista con William Rider, ex capo della sicurezza dell’uomo di Hustler e suo cognato in quanto marito della sorella della compianta Althea, si desume che Larry non è una versione sia pure degradata del Grande Gatsby. Lungi dal rimpiangere la moglie amatissima, Flynt le avrebbe fatto iniettare il virus per spingerla alla morte, avrebbe inviato sicari contro Guccione, Hugh Hefner di Playboy e Frank Sinatra; e sarebbe un molestatore delle sue stesse figlie, imbroglione fiscale e insomma «il peggior figlio di puttana della terra». Pur facendo una tara a tante iniquità, il personaggio descritto da Rider somiglia poco allo stralunato Don Chisciotte di Woody Harrelson. E allora godiamoci questo film attraente e disinvolto, e la sua morale letificante, come se fosse una favola senza grandi nessi con la realtà, una commedia politica di Frank Capra trasferita al giorno d’oggi.

 

Film TV
Emanuela Martini

Firmata da due sceneggiatori tanto pazzi da essere i prediletti di Tim Burton (Scott Alexander e Larry Zaraszewski), prodotta da Oliver Stone, al quale devono essere piaciuti gli andirivieni del protagonista per le corti di giustizia, e diretta da Milos Forman, che deve aver tirato un respiro di sollievo all’idea di ritornare dopo tanto Settecento (Amadeus, Valmont) a un’ambientazione contemporanea, arriva la storia scandalosa dello scandaloso Larry Flynt. Un personaggio demente e tanto coraggioso da sfidare lo Stato in difesa di un’astrazione, il Primo emendamento, che garantisce la libertà di opinione e di stampa, anche in nome dell’immoralità. E un film che ha il coraggio di non sottrarsi alla follia testarda e alle perversioni di Flynt, impietoso e doloroso nel raccontare la storia d’amore tra Larry e sua moglie Althea (lui “sciancato e demente”, lei “drogata e malata di Aids”), ma che perde un po’ di nerbo nella narrazione del caso giuridico. Come se il personaggio (un magnifico Woody Harrelson, come è magnifica Courtney Love-Althea) avesse divorato il film.

 

la Repubblica
Irene Bignardi

La storia di Larry Flynt è presto riassunta (anche se i dettagli sono appassionanti, e negli Stati Uniti in questo momento nelle librerie ci sono almeno quattro libri dedicati al suo caso). Nato povero, è diventato ricco, anzi ricchissimo, nei liberi anni ’70 facendo l’editore di riviste porno (ma distribuisce anche la New York Review of Books). Qualcuno che non apprezzava lo stile di Hustler – la testata capofila del gruppo – gli ha sparato, costringendolo su una sedia a rotelle. E chi lo ha portato in tribunale con l’accusa di oscenità, lo ha visto trasformarsi in un paladino del primo emendamento – quello della libertà di espressione – e uscire vittorioso dallo scontro che, come recita il titolo originale del film, oppose nel 1988 The People vs. Larry Flynt, il popolo degli Stati Uniti contro il miliardario pornografo, che compare con la sua vera faccia grassissima e infantile nel ruolo del presidente di uno dei tribunali chiamati a giudicare il Flynt cinematografico. “Se proteggono uno schifo come me, proteggeranno tutti voi” dice Larry Flynt, nel suo paradossale ruolo di tutore delle libertà civiche, della Corte Suprema, da cui è uscito vincitore nello scontro con il Reverendo Jerry Falwell da lui crudelmente caricaturato su Hustler. Era scritto nelle stelle l’incontro tra un simile personaggio e un provocatore nato come Oliver Stone. Ed è stata astuta la sua decisione di fare il film per interposta persona – essendo la persona prescelta Milos Forman, che a otto anni dalla pallida parentesi di Valmont ritorna in gran forma alla regia su un tema che gli sta evidentemente a cuore. E il film che Stone produttore, Forman regista, Woody Harrelson protagonista hanno messo insieme è, almeno per metà, molto divertente e intelligente, colorato e brillante, provocatorio e anarchico. Ma a lungo andare, mentre ci si appassiona alla cronaca delle avventure e delle disavventure giudiziarie, dei problemi medici, del grande amore che ha legato Larry Flynt alla moglie Althea Leasure, bisessuale e tossica (che è la molto bella e molto brava Courtney Love), si comincia anche a sospettare che il film non sia del tutto onesto, che pieghi abilmente i fatti alla sua posizione, che taccia e sterilizzi degli elementi di giudizio per trascinare lo spettatore dalla sua parte, a sostenere la tesi, incontrovertibile ma troppo semplicistica, che la libertà di espressione è tutto. L’accusa di aver fatto un ritratto compiacente è piovuta sia da una femminista storica come Gloria Steinem sul New York Times, sia da un rivale come Bob Guccione, l’editore di Penthouse. Il problema è che Flynt ha ragione quando, nel film, obbietta al fatto che “il sesso in questo paese è brutto e sporco”, e che quindi è brutto e sporco Larry Flynt. Ha un po’ meno ragione quando lascia fuori dal film le prove contro Flynt: copertine che non sono puramente “oscene;” ma misogine, vignette razziste, suggestioni che confliggono con altri diritti. L’astuto paradosso del film (ammesso persino dagli sceneggiatori Scott Alexander e Larry Karaszewski nell’introduzione alla sceneggiatura) sta nel fatto che si batte per la libertà di espressione, ma censura – magari semplicemente con l’arma del ridicolo – quelle punte e quegli eccessi di Flynt che potrebbero far inclinare le simpatie dello spettatore per i suoi nemici ideologici: con il risultato di diventare a tratti predicatorio (si veda la scena in cui Flynt proietta alternativamente delle delicate immagini porno a delle truculente immagini di Hiroshima e My Lai), e un po’ tedioso quando tratta agiograficamente due personaggi – Flynt e sua moglie Althea – che sono interessanti proprio perché eccentrici e “devianti;” rispetto alla bella normalità americana. Per un po’ ci si diverte. Segue dibattito.

 

l’Unità
Alberto Crespi

(…) Larry Flynt è l’ormai famosissima biografia dell’editore di Hustler: un film che ha «sfondato» i media, conquistandosi copertine in tutto il mondo e provocando, in fondo, più discussioni che incassi. Parlarne in modo non usurato non è facile: proviamoci partendo da Milos Forman. Di fronte all’impatto mediatico del tema «pornografia e libertà d’espressione», stiamo forse dimenticando che Larry Flynt segna il ritorno di un grande regista, sette anni dopo il fiasco di Valmont e ben tredici anni dopo gli Oscar di Amadeus Forman è cecoslovacco, e gli europei hanno un grande occhio nel riconoscere il cattivo gusto americano, ma anche la tendenza a giudicarlo, a deriderlo. Forman è riuscito a fare la prima cosa senza cadere nella seconda. Il film è un tragico, grottesco ritratto del kitsch made in Usa, fatto senza moralismi, con ironia e partecipazione. Non dev’essere un caso che gli sceneggiatori, Scott Alexander e Larry Karaszewski, siano gli stessi di Ed Wood: in fondo i due film di assomigliano, partono da personaggi artisticamente o moralmente discutibili (il peggior regista del mondo, il più bieco zozzone d’America) per calarli nella cultura popolare americana della quale sono, a buon diritto, delle icone. Messi assieme, i due film sono un monumento al cattivo gusto e, se si vuole, alla sua bellezza nascosta. Il copione monta enormemente nella seconda parte. L’infanzia e la giovinezza di Flynt sono narrate un po’ a strappi, mentre il rapporto con Althea, la scalata al successo, le battaglie con i tribunali e la «crociata» contro il bigotto reverendo Falwell hanno un crescendo irresisitibile. La morte di Althea nella vasca da bagno è degna di Viale del tramonto, e nel complesso Larry Flynt è un grande melodramma la cui forza cinematografica va al di là del tema, pur decisivo, che espone. Grazie anche agli attori: a Woody Harrelson, straordinario, e ai non professionisti che lo affiancano. Dalla rockstar Courtney Love al vero fratello di Woody, Brett Harrelson; dal consulente di Clinton James Carville, alla moglie del sindaco di New York, Donna Hanover (che interpreta, ironia al quadrato, la sorella di Jimmy Carter); fino al vero Larry Flynt, che nei panni di un giudice di Cincinnati condanna se stesso – ovvero, il Flynt interpretato da Harrelsonn – alla prigione per oscenità.

 

il Manifesto
Roberto Silvestri

Il peggiore tra noi come un volgare pornografo redneck del Kentucky, con l’aiuto della sua innamorata folle, una candida perversa totale, eroinomane e ammalata di Aids, può divenire un grande eroe. Può salvare perfino la civiltà americana da chi attenta ai suoi diritti e ai suoi valori ideali. Come quello, enorme – ma certo solo scritto sulla carta, finora – di garantire la salute, l’istruzione, la libertà di parola e di stampa, ma soprattutto “la felicità”. Anche la più imbecille, purché non impedisca quella degli altri. The people vs. Larry Flynt rischia di diventare, così riassunto, il capolavoro del secondo mandato Clinton. Produce idee forza salutari, anticorpi democratici rivoluzionari dentro un “progetto” presidenziale, appena annunciato, soporifero, a spinta propulsiva zero e con la benzina in rosso. Così Larry Flynt, editore miliardario di un mensile porno, sulla sedia a rotelle perché qualcuno lo voleva morto, nella reazionaria Georgia, inchioderà la prepotenza perbenista e veramente distruttiva del reverendo Jerry Falwell, il capo della maggioranza morale, il Fini/Feltri d’America, e sgominerà, senza che i media se ne accorsero poi troppo, in un processo, davanti alla Corte Suprema, la cultura e i valori di Reagan e Bush, con un verdetto emesso addirittura da giudici nominati dalla destra repubblicana. Meglio del caso Iran/Contras! Due Globi d’oro, migliore regia e migliore sceneggiatura. Candidature pregiate all’Academy Award. Ma, soprattutto, un magnifico film d’amore e politica, cioè sull’amore per la libertà “di tutti” e su come disinnescare la ferocia dei fanatici che vogliono ridurcela, a Dallas come a Teheran e in Padania. E dunque un film concettuale che narrativamente scorre fluido e rigenera, come acqua sorgiva, teso, avvincente e senza orpelli. E racconta una antica fiaba: non esiste vero amore senza un progettino un po’ più ampio, che scavalchi almeno gli orizzonti limitati di due soli ombelichi o di una razza sola di ombelichi. E spesso non è che lo teorizzi, ti viene così, naturale. È un istinto mistico. Non a caso il rozzo Flynt per un momento ebbe un flirt religioso (chiesa battista, naturalmente, quella meno razzista del mondo) frequentando la divertente sorella di Jimmy Carter… È andato male commercialmente negli Stati Uniti? Solo 35 miliardi di lire, finora. E allora? Anche Lone star, film epocale sul “border line”, di John Sayles, è stato umiliato in Usa da una distribuzione subumana e ancora, nel centro sud, razzistoide. Ma attende, e avrà, vendetta quaggiù… Dunque: viva The people vr. Larry Flynt! Produzione indipendente appoggiata dalla Columbia Tri Star. Ha tre buone ragioni per vincere l’Orso d’oro del festival più europeo di tutti. Prima di tutto non è americano. Né il suo design, né il regista, Milos Forman, praghese, né la maggior parte dei creativi di troupe (quasi tutti est europei, tranne cast e produttore, Oliver Stone). Ligio al codice etico segreto delle Nouvelle vagues, Forman non accetta mai di girare nulla senza il controllo totale e il “final cut”, il montaggio definitivo. Dunque è un film d’autore, doc ma “fuori casta”, cioè vuole e sa parlare a ogni pubblici – non solo diplomato come piace all’Autore Europeo – cioè che vuole programmaticamente comunicare, come Hustler, la rivista porno di Larry Flynt, soprattutto con la feccia più torbida della scala sociale. Fatta anche in questo caso, per il 90% dei casi di ottime persone, solo senza molti strumenti per difendersi. Inoltre. È un caso che tra gli attori ci sia la nipotina di Charlot, Miles Chaplin, nel ruolo della deliziosa segretaria del mensile per “soli uomini, e non ipocriti”? Infatti Forman, come nonno Chaplin, è “talmente adorato” negli Usa, dove si trasferì, con Ivan Passer e altri, perché in Cecoslovacchia, dopo la Primavera, non se ne poteva proprio più, da aver girare solo 7 film dal 1971 ad oggi. Seconda ragione per dargli l’Orso d’oro, il film è arguto e spietato contro il liberismo reale. Contro quei vacillamenti opportunistici, quei buchi neri improvvisi, quelle “parentesi spirituali” le chiamerebbero Benedetto Croce e Renzo De Felice – siano esse nazismo, somozismo o maccartismo – che capovolgono troppo spesso le democrazie, gli stati di diritto e l’economia di mercato (o pianificata) alla dittatura, alla corruzione (come in Italia oggi), alle oligarchie finanziarie e militari e all’annesso fanatismo culturale e religioso, nel primo, secondo e terzo mondo. The people vs. Larry Flynt, e Hustler, la rivista “porno” così “spinta”, così diversa dalle altre, e che nel film è perennemente sotto processo, sono originati, nel loro umorismo e anticonformismo indigeribile, formale e sostanziale, dalla contestazione generale, dalla lotta alla repressione implacabile contro le anime più belle e candide delle Americhe, contro la guerra del Vietman (che ci racconta un inedito slittamento di senso della parola osceno, da quando i mass media godettero fino all’eiaculazione mostrandoci teste recise a vietcong in mano a sorridenti marines) contro il decennio cupo del fondamentalismo apocalittico e monetarista Reagan/Bush. Il film insomma, ottimista, che manda all’America più oscura un commuovente “grazie” (e lo urla uno spiritaccio sarcastico) ritrova antichissimi sapori, odora di “nova ola”, nuova onda, cioè di umorismo (il giudice che condanna a 25 anni Larry Flynt è Larry Flynt stesso), ironia, fragranze espressive e di controcultura anni ’60 e ’70. È di moda, e qualcosa di più. Milos Forman ha capito che la vera America, quella immaginaria, che tutti gli spiriti liberi del mondo amano, è non solo quella che insegna a ribellarsi, a dire no alle ingiustizie, a pensare con la propria testa, a lottare contro chi è più potente e prepotente. Insomma l’America “immaginaria” alla Malcolm X, ma anche quella materialista e volgare, orrida e disgustosa che dalla vita pretende solo, come Larry Flynt, “di fare soldi e divertirsi”. Ma il sesso, come la violenza, è territorio politico, simbolo e terreno di combattimento dei rapporti di forza economici e sociali: non è mai zona indolore. E nel film non si tratta di osceno contro osceno, di Playboy contro Hustler, anzi Flynt è ritratto come maschio decentemente bavoso e sfruttatore. Anthea se ne accorge in occasione della famosa copertina con la donna nuda nel tritacarne. “Farà infuriare le femministe”. Una si è infuriata col film di Forman, Gloria Steinem, altre criticheranno la scena in cui Larry Flynt ammette di essere un criminale del buon gusto, ma nega di vendere più oscenità sessuali delle altre riviste. E afferma: la guerra è oscena, non il sesso. Dimenticano che lui, che è anche simpatico, col suo “Fuck the jury” in piena aula, pensando a Sofri, e imbavagliato come Bobby Seale, romantico, e da lacrime agli occhi quando va fino in fondo contro Falwell, solo per amore di Anthea, non nasconde di presenziare, in quel momento a un grande spettacolo, che lui stesso ha pagato, “di guerra”.

 

Sole 24 Ore
Roberto Escobar

Il Larry Flynt di The People vs. Larry Flynt (1996) è un pornografo, un uomo misero. Con gli sceneggiatori Scott Alexander e Larry Karaszewski – gli stessi di Ed Wood (Tim Burton, 1994) –, Milos Forman non fa nulla per migliorarne l’immagine. Anzi, lo racconta tenendolo ben dentro la sua miseria. Dal fango del Kentucky, con il commercio d’alcol fatto in casa, al consiglio d’amministrazione della rivista Hustler, Flynt resta un uomo di minime per quanto efficienti qualità, un cinico che frequenta i “margini” della vita realizzando il suo sogno di ricchezza. Egli stesso ha di sé una pessima opinione, cosa che però non lo disturba. Anzi, dopo la sentenza favorevole della Corte suprema, non esita a definirsi «a scumbag», qualcosa di peggio d’un porco, un uomo che può essere apostrofato con un termine volgare che sta per preservativo. Ma proprio per questo, aggiunge, difendendo la mia libertà, i giudici difendono quella d’ogni altro. Ecco il centro dell’argomentazione per così dire di filosofia politica contenuta in Larry Flynt: la libertà d’un popolo, la libertà in esso d’ogni singolo, non ammette aggettivi qualificativi; non ce n’è una buona e una cattiva; nessun criterio morale la può limitare senza negarla. In un certo senso, Forman gira un film che si rifà alla tradizione del cinema civile americano, al suo coraggio e al suo ottimismo. Che cosa distingue questo Larry, che dà battaglia a tutto il sistema giudiziario, dal Jefferson di Frank Capra, che scova e vince l’inganno e la cupidigia fin dentro il Congresso? Certo, l’eroe di Mister Smith va a Washington (1939) è amico dei boy-scout, mentre questo di Forman preferisce le spogliarelliste. Tuttavia, a parte la simpatia programmatica del primo e l’antipatia ugualmente programmatica del secondo, tutti e due difendono i valori fondanti d’un popolo e d’un ordinamento politico. Flynt sa e non nasconde – a sé prima ancora che agli altri – d’essere un piccolo uomo misero. In questo è aiutato dalla sua collocazione sociale, psicologica e morale nella zona incerta che sta ai “margini” della vita, appunto. Al contrario, la buona e anzi l’ottima salute sociale, psicologica e morale d’un Charles Keating o d’un Jerry Falwell agisce come un incentivo all’ipocrisia e all’autoinganno, e dunque all’eteroinganno. Presumendo troppo di sé, presumono anche d’aver diritto d’imporre la loro verità e il loro bene agli “scumbags” come Flynt, oltre che a tutti gli altri, naturalmente (Falwell, nella realtà, è promotore d’una «Maggioranza morale» e Keating d’un movimento di «Cittadini per una letteratura decente»). Oltre che irrealistica, un società di santi è anche terribilmente simile a una società totalitaria. Accade spesso, per sfortuna, che i troppo buoni producano guasti politici. E però Larry Flynt non è solo questo. Il suo senso cinematografico non si riduce a un’argomentazione felicemente paradossale all’interno d’un sistema di valori civili. O meglio, questa stessa argomentazione si lega a qualcosa di meno immediato, a qualcosa che eccede la misura di qualunque ottimismo ideologico, per quanto intelligente e coraggioso. Come in molti altri suoi film, anche ora lo sguardo di Forman ama soffermarsi proprio sulla zona incerta che sta su quei tali “margini” della vita. Il suo interesse per Flynt non è solo politico e civile. Anzi, ci sembra di vedere in lui qualcosa che l’avvicina al Randle di Qualcuno volò sul nido del cuculo (1975), che era nello stesso tempo dentro l’universo chiuso e totalitario dell’ospedale psichiatrico e fuori di esso. Ossia: ferocemente consapevole delle sue regole e ingenuamente esposto alla loro violenza. Flynt non ha l’aperta, sarcastica volontà dirompente del suo predecessore: gli anni 90 non sono i 70. Eppure, Forman ne mette in luce una vena violentemente ma anche tristemente ironica, un gusto irrefrenabile per l’esibizione e la provocazione che finiscono per dargli, rispetto ai suoi nemici, una qualche superiorità umana. E che, in ogni caso, portano l’autore a indicare in lui – ossia, nel suo personaggio cinematografico – un ricordo vago di quell’ ambiguità e di quell’ ombra che più d’una volta rendono incerto il confine tra le bassure della mediocrità e le vette del genio (come accade, a ben altri livelli, al Mozart di Amadeus, 1984). Ed è probabilmente questo che lo spinge a una descrizione del personaggio che va al di là del senso civile del film. Come anche la moglie Althea, Flynt è smarrito in quell’ambiguità e in quell’ombra, come se una necessità sovraindividuale e sovrastorica ce lo tenesse dentro a forza. Lo sconcerto che ne viene – a Forman e a noi – è tanto spaesante che finisce per trasformarsi in compassione. Ossia: non in un senso d’indulgente superiorità, ma in un’identificazione addolorata con quel che di “necessario” c’è nella sua miseria.

 

Ciak
Massimo Lastrucci

Ah, la «sana» prevedibilità dei liberal made in Usa! Per perorare una causa giusta (sia pure con qualche margine di dubbio nelle sue assunzioni più estreme), quella cioè del diritto alla libertà di informazione – di qualunque tipo di informazione! – l’accoppiata Stone-Forman sceglie il più indifendibile dei testimonial, editore di riviste porno rozze e immediate come il suo carattere. Perché non c’è dubbio che Woody Harrelson-Larry Flynt, anche in questa versione che ci dicono depurata e ingentilita oltremodo rispetto all’originale, sia una figura «forte», tutta luci o tutta ombre. Siamo dunque dalle parti del tipo antropologico «sgradevole ma vitale», oppure tra i rovelli morali di chi sposa la tesi di Voltaire secondo cui, pur non condividendo le idee dell’altro, ci si deve battere sino all’ultimo per consentirgli di esporle? Non solo, perché il gioco è ancora più ambiguo, crediamo per colpa di Oliver Stone. Da «trombettiere» dello schermo, il cineasta produttore taglia e cuce il personaggio sulle sue misure: flirta apertamente cioè con il fascino del decisionismo, innalzando altarini a un anti-intellettualismo di maniera, fa di Flynt-Harrelson anche un simpatico «profeta»-martire di comportamento, di gusto estetico, di morale ed è qui tanto evidente che alla coscienza della rivolta Stone preferisca il ribellismo anarcoide di trucidi ultrà della vita. Infatti, quello che suona infelice, almeno per noi, in queste 2 ore abbondanti di traversie personali e umorosi confronti giudiziari, è proprio questa paternità bicefala della pellicola. Di Stone c’è il soggetto, la costruzione della sceneggiatura a scene «urlate» e staccate, l’estroversa chiarezza dei personaggi, il moralismo a tutti i costi. Di Forman, che ha saputo destreggiarsi con abilità e con valore decrescente (vogliamo ricordare i suoi film cecoslovacchi L’asso di picche, Gli amori di una bionda, o Qualcuno volò sul nido del cuculo e Taking Off?) nei paradisi burocratici e ingessati di Hollywood, il lavoro di confezione, l’occhio attento alle caratterizzazioni dei minori (il colorito entourage di Flynt) con la cura deliziosa negli abiti e nelle scenografie, che si trasformano negli anni. C’è però in questo affresco a tinte scontate, oltre all’agghiacciante ritratto dell’attentatore in stile mitico/popolare alla Malamud, una presenza che si impone tra i meandri del prevedibile e manda lampi di una verità «apparente» di insostenibile impatto. Si tratta di Courtney Love, che, già sgradevole e poco carina di suo, esplode con una performance di valore assoluto anche per la sua fisicità, dando al suo disturbante personaggio, quello della moglie bisessuale e tossicomane di Althea Leasure in Flynt, caratteri di ripugnanza e disperazioni estreme. È solo per il suo talento (Harrelson è bravo, si sa, ma solamente «corretto» nel suo ruolo) che il film ha chances di sopravvivenza nella memoria del cinema.

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