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Umberto Eco: Il mondo di Charlie Brown

I bambini dei "Peanuts" di Charles M. Schulz ci toccano da vicino perché in un certo senso sono dei mostri: sono le mostruose riduzioni infantili di tutte le nevrosi di un moderno cittadino della civiltà industriale.
Peanuts

di Umberto Eco

Come ci ha mostrato l’analisi del mito di Superman, dunque non è vero che i fumetti siano un innocuo divertimento che, fatto per i bambini, anche gli adulti possano apprezzare dopopranzo, seduti in poltrona, per consumare le loro quattro evasioni senza danno e senza acquisti. L’industria della cultura di massa fabbrica i fumetti su scala internazionale e li diffonde ad ogni livello: davanti ad essi (come davanti alla canzone di consumo, al libro giallo e alla trasmissione televisiva) muore l’arte popolare, quella che sale dal basso, muoiono le tradizioni autoctone, non nascono più leggende raccontate intorno al fuoco, e i cantastorie non vengono più a mostrarvi le loro tavole narrative durante le feste sull’aia o sulla piazza. Il fumetto è un prodotto industriale, commissionato dall’alto, funziona secondo tutte le meccaniche della persuasione occulta, suppone nel fruitore un atteggiamento di evasione che stimola immediatamente le velleità paternalistiche dei committenti. E gli autori per lo più si adeguano: così il fumetto, nella maggior parte dei casi, riflette l’implicita pedagogia di un sistema e funziona come rafforzatore dei miti e dei valori vigenti. Così Dennis the Menace ribadirà l’immagine, in definitiva felice e irresponsabile, di una buona famiglia middle class che abbia fatto del naturalismo deweyano un mito educativo pronto ad essere frainteso per produrre nevrotici a catena; e la Little Orphan Annie diventerà per milioni di lettori la supporter di un maccartismo nazionalistico, di un classismo paleocapitalista, di un filisteismo piccolo borghese pronto a celebrare i fasti della John Birch Society; Jiggs and Maggie (Arcibaldo e Petronilla) ridurranno il problema sociologico del matriarcato americano a un semplice fatto individuale; Terry e i Pirati si è prestato con costanza a una educazione nazionalistico-militaristica delle giovani leve statunitensi; Dick Tracy ha portato il sadismo del giallo d’azione non soltanto a portata di tutti attraverso le trame, ma attraverso il segno stesso di una matita complessatissima e sanguinaria (e non conta che sul piano del gusto abbia svecchiato di molto il palato del proprio pubblico); e Joe Palooka continua a cantare il suo inno al prototipo di yankee integerrimo e candido, lo stesso su cui fan leva tutte le persuasioni elettorali a sfondo conservatore. Così anche la protesta e la critica del costume, quando c’è stata, è stata contenuta con garbo nell’ambito del sistema e ridotta a dimensioni favolistiche. Sappiamo tutti che la figura di Paperon de’ Paperoni riassume tutti i vizi di un capitalismo generico fondato sul culto del denaro e sullo sfruttamento dei propri simili a fini esclusivi di profitto; ma lo stesso nome che il personaggio assume nell’originale, Uncle Scrooge (col suo richiamo al vecchio avaro del Racconto di una notte di Natale di Dickens), serve a indirizzare questa critica indiretta contro un modello di capitalismo ottocentesco (fratello dello sfruttamento dei piccoli in miniera e delle punizioni corporali nelle scuole) che ovviamente la società moderna non teme più e che chiunque può permettersi di criticare. E se i fumetti di Al Capp sviluppano, attraverso le avventure di Li’l Abner, una critica dei tic e dei miti americani, talora con indomita cattiveria – penso alla satira di una società opulenta fondata sul consumo, che la storia dello Shmoo ha così gustosamente protratto per un certo tempo – tuttavia anche questa critica è sempre tenuta su uno sfondo indistruttibile di bonomia e di ottimismo, mentre il teatro degli avvenimenti, la cittadina di Dogpacht, nella sua dimensione “strapaesana”, riduce costantemente a livello di saga primitiva il mordente dei vari attacchi a situazioni che in origine erano concrete e delimitabili.

Allora dovremo dire che il fumetto, chiuso nelle regole ferree del circuito industriale-commerciale della produzione e del consumo, è destinato a dare solo i prodotti standard di un paternalismo talora inconscio e talora programmato? Che se ha elaborato, come ha elaborato, moduli stilistici, tagli narrativi, proposte di gusto senz’altro originali e stimolanti per la massa che ne usava, tuttavia userà sempre e comunque di queste spregiudicatezze artistiche per una costante funzione di evasione e di mascheramento della realtà?

Ora, anche solo in teoria, potremmo rispondere che da quando mondo è mondo, arti maggiori e arti minori, hanno potuto prosperare quasi sempre solo nell’ambito di un sistema dato che permetteva all’artista un certo margine di autonomia in cambio di una certa percentuale di ossequenza ai valori stabiliti: e che tuttavia, all’interno di questi vari circuiti di produzione e di consumo, si sono visti agire degli artisti che, usando delle occasioni concesse a tutti gli altri, riuscivano a mutare profondamente il modo di sentire dei loro consumatori svolgendo, all’interno del sistema, una funzione critica e liberatoria. Come al solito è questione di genialità individuale, di saper elaborare un discorso talmente incisivo, limpido, efficace da riuscire a padroneggiare tutte le condizioni entro le quali il discorso, per forza di cose, si muove.

Credo che in questo senso il fumetto ci abbia offerto due vie maestre. La prima è quella di cui il rappresentante più recente, forse il maggiore, è Jules Feiffer: la satira dell’autore de Il complesso facile e Passionella è così precisa, coglie con tanta esattezza di contorni i mali di una società industriale moderna traducendoli in altrettanti tipi esemplari, pone nella scoperta di questi tipi tanta umanità (cattiveria e pietà al medesimo tempo) che qualsiasi sia il giornale in cui queste storie appaiono, qualsiasi sia il successo che loro arride, anche se tutti le accettano sorridendo, compresi coloro che dovrebbero esserne offesi e terrorizzati, non tolgono nulla alla loro forza. Una storia di Feiffer, una volta pubblicata, non può più essere esorcizzata; una volta letta rimane nella mente e vi lavora silenziosamente. Nei casi in cui la satira rimane meccanica, può a lungo andare entrare nel repertorio dei luoghi comuni; ma nei casi in cui viene toccato (e accade sovente) un momento “universale” della debolezza umana, il fumetto sopravvive e batte in breccia il sistema che cercava di condizionarlo.

C’è poi una seconda via, e per esemplificarla vorrei scegliere un fumetto ormai classico, il Krazy Kat di George Herriman, nato tra il 1910 e il 1911 e finito nel 1944 con la morte dell’autore. Le dramatis personae erano tre: un gatto, dal sesso imprecisato, probabilmente una gatta; un topo, Ignatz Mouse; un cane in funzione di poliziotto, Offissa Pop. Un disegno singolare per certe sue sforate surrealistiche, specie nei paesaggi lunari e improbabili, fatti apposta per sottrarre la vicenda ad ogni verosimiglianza. La situazione? Il gatto ama follemente il topo e il topo, malefico, odia e tiranneggia il gatto, di preferenza colpendolo alla testa con un mattone. Il cane cerca in ogni momento di proteggere il gatto, ma il gatto disprezza questo suo amore senza riserve; il gatto ama il topo ed è sempre pronto a giustificarlo. Da questa situazione, assurda e senza particolari pimenti comici, l’autore traeva una serie infinita di variazioni basandosi su un fatto strutturale che è di fondamentale importanza per la comprensione del fumetto in genere: la breve storia giornaliera o settimanale, la striscia tradizionale, anche se racconta un fatto che si conclude nel giro di quattro vignette, non funziona presa a sé, ma acquista ogni sapore solo nella sequenza continua e testarda che si snoda, striscia dopo striscia, giorno per giorno. In Krazy Kat la poesia nasceva da una certa cocciutaggine lirica dell’autore che ripeteva all’infinito la sua vicenda, variando sempre sul tema, e solo a quel patto la protervia del topo, la pietà senza ricompense del cane e il disperato amore del gatto raggiungevano quella che a molti critici parve una vera e propria condizione di poesia, come una ininterrotta elegia fatta di un dolente candore. In un fumetto del genere lo spettatore, non sollecitato dalla gag straripante, dal riferimento realistico o caricaturale, da un qualsivoglia appello al sesso o alla violenza, sottratto quindi alla routine di un gusto che lo portava a cercare nel fumetto il soddisfacimento di determinate esigenze, scopriva così la possibilità di un mondo puramente allusivo, un piacere di tipo “musicale”, un gioco di sentimenti non banali. Si riproduceva in una certa misura il mito di Sheerazade: la concubina presa dal Sultano per usarne nel giro di una notte ed essere poi eliminata, incominciava a raccontare una storia, e il sultano dimenticava la donna per la storia, scopriva insomma un altro mondo di valori e di piaceri.

La prova migliore che il fumetto è prodotto industriale di puro consumo è che, anche se un personaggio viene inventato da un autore geniale, dopo un poco l’autore viene sostituito da una équipe, la sua genialità si fa fungibile, la sua invenzione prodotto da officina. La prova migliore che Krazy Kat, in forza di quella sua grezza poesia, riuscì a dominare il sistema, è che alla morte di Herriman nessuno volle raccogliere l’eredità e gli industriali del fumetto non seppero forzare la situazione1.

Ed ecco che il discorso ci porta ai Peanuts di Charles M. Schulz, che noi ascriveremmo al filone “lirico” di Krazy Kat.

Anche qui una situazione elementare: un gruppo di bambini, Charlie Brown, Lucy, Violet, Patty, Frida, Linus, Schroeder, Pig Pen e il cane Snoopy, intenti ai loro giochi e ai lori discorsi. Su questo schema di base, un flusso continuo di variazioni, secondo un ritmo proprio a certe epopee primitive (e primitivo è persino questo assurdo fedelissimo indicare il protagonista sempre per nome e cognome – anche la mamma lo chiama così – come un eroe eponimo), in modo che non potrebbe mai scoprire la forza di questa “poésie ininterrompue” leggendo solo una o due, o dieci storie, ma solo dopo essere entrati a fondo nei caratteri e nelle situazioni, poiché la grazia, la tenerezza o il riso nascono solo dalla ripetizione, infinitamente cangiante, degli schemi, nascono dalla fedeltà all’ispirazione di base, e richiedono al lettore un atto continuo e fedele di simpatia.

Questa struttura formale basterebbe già a stabilire la forza di queste storie. Ma c’è di più: la poesia di questi bambini nasce dal fatto che in essi ritroviamo tutti i problemi, tutti i patemi degli adulti che stanno dietro le quinte. In questo senso Schulz è un Herriman avvicinatosi peraltro al filone critico e sociale di un Feiffer. Questi bambini ci toccano da vicino perché in un certo senso sono dei mostri: sono le mostruose riduzioni infantili di tutte le nevrosi di un moderno cittadino della civiltà industriale. Essi ci toccano da vicino perché ci accorgiamo che se sono mostri è perché noi, gli adulti, li abbiamo resi tali. In essi ritroviamo tutto, Freud, la massificazione, la cultura assorbita attraverso le varie “Selezioni”, la lotta frustrata per il successo, la ricerca di simpatie, la solitudine, la reazione proterva, l’acquiescenza passiva e la protesta nevrotica. E però tutti questi elementi non fioriscono, tali e quali noi li conosciamo, dalla bocca di un gruppo di innocenti: sono pensati e ridetti dopo essere passati attraverso il filtro dell’innocenza.

I bambini di Schulz non sono lo strumento malizioso per contrabbandare i problemi di noi adulti; questi problemi in essi vengono vissuti secondo i modi di una psicologia infantile, e proprio per questo ci appaiono toccanti e senza speranza, come se riconoscessimo all’improvviso che i nostri mali hanno inquinato tutto, alla radice.

Ma ancora: la riduzione dei miti adulti a miti dell’infanzia (di una infanzia che non viene più prima della nostra maturità, ma dopo – e ce ne mostra le incrinature) permette a Schulz un ricupero: e questi bambini-mostri sono capaci all’improvviso di candori e di genuinità che rimettono tutto in questione, filtrano tutti i detriti e ci restituiscono un mondo che è tuttavia e sempre gentilissimo e soffice, che sa di latte e di pulizia. Cosi che in una altalena continua di reazioni, all’interno di una stessa storia, o tra storia e storia, non sappiamo se essere disperati o se concederci un respiro di ottimismo. Ma comunque ci accorgiamo che siamo usciti, in ogni caso, da un circuito banale del consumo e dell’evasione, e abbiamo quasi raggiunto le soglie di una meditazione.

La prova più stupefacente di queste ed altre cose è che, mentre fumetti decisamente “colti” come quelli di Pogo Possum, piacciono solo agli intellettuali (e vengono consumati dalla massa solo per distrazione), i Peanuts affascinano con uguale intensità i grandi più sofisticati e i bambini, come se ciascuno vi trovasse qualcosa per sé, ed è sempre la stessa cosa, fruibile in due chiavi diverse.

Il mondo dei Peanuts è un microcosmo, una piccola commedia umana per tutte le borse.

Al centro sta Charlie Brown: ingenuo, testone, sempre inabile e quindi votato all’insuccesso. Bisognoso sino alla nevrosi di comunicazione e “popolarità”, e ripagato, dalle bambine matriarcali e saccenti che lo attorniano, col disprezzo, le allusioni alla sua testa rotonda, le accuse di stupidità, le piccole malvagità che colpiscono a fondo. Charlie Brown impavido ricerca tenerezza e affermazione da ogni parte: nel baseball, nella costruzione di aquiloni, nei rapporti con Snoopy, il suo cane, nei contatti di gioco con le ragazze. Fallisce sempre. La sua solitudine si fa abissale, il suo complesso di inferiorità pervasivo (colorato dal sospetto continuo, che prende anche il lettore, che Charlie Brown non abbia alcun complesso di inferiorità, ma sia veramente inferiore). La tragedia è che Charlie Brown non è inferiore. Peggio: è assolutamente normale. È come tutti. Per questo marcia sempre sull’orlo del suicidio o quanto meno del collasso: perché cerca la salvezza secondo le formule di comodo propostegli dalla società in cui vive (l’arte di conquistare gli amici, come diventare intrattenitore ricercato, come farsi una cultura in quattro lezioni, la ricerca della felicità, come piacere alle ragazze… lo hanno rovinato, ovviamente, il dottor Kinsey, Dale Carnegie e Lyn Yutang). Ma poiché lo fa con assoluta purezza di cuore e nessuna furbizia, la società è pronta a respingerlo nella persona di Lucy, matriarcale, perfida, sicura di sé, imprenditrice a profitto sicuro, pronta a smerciare una sicumera del tutto fasulla ma di indubbio effetto (sono le sue lezioni di scienze naturali al fratellino Linus, una accozzaglia di improntitudini che a Charlie Brown danno male allo stomaco, “I can’t stand it”, non posso sopportarlo, geme lo sciagurato, ma con quali armi si può arrestare la malafede impeccabile quando si ha la sventura di essere puri di cuore?…)

Charlie Brown è stato così definito “il bambino più sensitivo mai apparso in un fumetto, capace di variazioni di umori di tono shakespeariano” (Becker) e la matita di Schulz riesce a rendere queste variazioni con una economia di mezzi che ha del miracoloso: il fumetto, sempre pressoché aulico, in una lingua da Harvard (raramente questi bambini scadono nel gergo e peccano di anacoluti) si unisce così a un disegno capace di dominare, in ogni personaggio, la minima sfumatura psicologica. Cosi la quotidiana tragedia di Charlie Brown si graffisce ai nostri occhi con una incisività esemplare.

Per sfuggire a queste tragedie della non-integrazione, la tavola dei tipi psicologici offre alcune alternative. Le ragazze vi sfuggono in virtù di una caparbia autosufficienza e alterigia: Lucy (una géante, da ammirare sbigottiti), Patty e Violet non hanno incrinature; perfettamente integrate (vogliamo dire “alienate”?) trascorrono dalle sedute ipnotiche davanti al televisore al salto della corda e ai discorsi quotidiani tessuti di perfidia, raggiungendo pace attraverso l’insensibilità.

Linus, il più piccolo, è invece già carico di tutte le nevrosi, l’instabilità emotiva sarebbe la sua condizione perpetua, se con la nevrosi la civiltà in cui vive non gli avesse già offerto anche i rimedi: Linus ha già dietro alle spalle Freud, Adler e forse anche Binswanger (tramite Rollo May), ha individuato nella copertina da letto della prima infanzia il simbolo di una pace uterina e di una felicità puramente orale… Dito in bocca e coperta (il blanket) appoggiata a una gota (possibilmente televisore acceso, davanti a cui stare appollaiato come un indiano, ma al limite anche niente, un isolamento di tipo orientale, attaccato ai propri simboli di protezione) Linus ritrova il suo “sentimento di sicurezza”. Toglietegli il blanket e ripiomberà in tutte le turbe emotive che lo guatano giorno e notte. Poiché – va aggiunto – ha assorbito con l’instabilità tutta la sapienza di una società nevrotica, Linus ne rappresenta il prodotto tecnologicamente più agguerrito. Là dove Charlie Brown non riesce a costruire un aquilone che non precipiti tra le fronde di un albero, Linus rivela improvvisamente, a tratti, abilità fantascientifiche e maestrie vertiginose: costruisce giochi di allucinante equilibrio, colpisce a volo un quarto di dollaro con la cocca della copertina, schioccata come una frusta (“the fastest blanket in the West!”).

Schroeder al contrario trova la pace nella religione estetica: seduto al suo piccolo pianoforte fasullo da cui trae melodie ed accordi di complessità trascendentale, sprofondato in una sua totale adorazione per Beethoven, si salva dalle nevrosi quotidiane sublimandole in un’alta forma di follia artistica. Nemmeno l’amorosa costante ammirazione di Lucy riesce a smuoverlo (Lucy non può amare la musica, attività poco redditizia di cui non comprende la ragione, ma ammira in Schroeder un vertice irraggiungibile, forse la stimola questa adamantina irraggiungibilità del suo Parsifal in sedicesimo, e persegue con cocciutaggine la sua opera di seduzione senza neppure scalfire le difese dell’artista): Schroeder ha scelto la pace dei sensi nel delirio dell’immaginazione. “Non dica male di questo amore, Lisaweta; è buono e fecondo. Vi è dentro nostalgia e melanconia, invidia e un poco di disprezzo, e una completa, casta felicità” non è Schulz, naturalmente, è il Tonio Kroeger, ma il punto è questo; e non per nulla i bambini di Schulz rappresentano un microcosmo dove la nostra tragedia o la nostra commedia è tutta rappresentata.

Anche Pig Pen avrebbe una inferiorità di cui dolersi: è irrimediabilmente, agghiacciantemente sporco. Esce di casa lindo e pettinato e dopo un secondo le stringhe gli si slacciano, i pantaloni scendono sulle anche, i capelli si intristiscono di forfora, la pelle e gli abiti si coprono di uno strato di fango… Conscio di questa sua vocazione all’abisso, Pig Pen fa della sua situazione un elemento di gloria: “Su di me si addensa la polvere di innumerevoli secoli… Ho iniziato un processo irreversibile: chi sono io per alterare il corso della storia?”– non è un personaggio di Becket, naturalmente, è Pig Pen che parla, il microcosmo di Schulz raggiunge le estreme propaggini della scelta esistenziale.

Antistrofe continua ai patemi degli umani, il cane Snoopy porta all’ultima frontiera metafisica le nevrosi da mancato adattamento. Snoopy sa di essere un cane; ieri era un cane; oggi è un cane; domani forse sarà ancora un cane; per lui, nella dialettica ottimistica della società opulenta che consente salite da status a status, non vi è alcuna speranza di promozione. Talora tenta l’estrema risorsa dell’umiltà (“noi cani siamo così umili…” sospira tutto consolato), si attacca teneramente a chi gli promette stima e considerazione. Ma di solito non si accetta e cerca di essere ciò che non è; personalità dissociata se mai ve ne furono, gli piacerebbe essere un alligatore, un canguro, un avvoltoio, un pinguino, un serpente… Tenta tutte le strade della mistificazione, poi si arrende alla realtà, per pigrizia, per fame, per sonno, per timidezza, per claustrofobia (che lo assale quando striscia tra le erbe alte), per ignavia. Sarà sopito, mai felice. Egli vive in un apartheid continuo, e del segregato ha la psicologia, dei negri alla zio Tom ha alla fine la devozione, faute de mieux, l’ancestrale rispetto per il più forte.

All’improvviso, in questa enciclopedia delle debolezze contemporanee, ci sono, come si è detto, schiarite luminose, variazioni disimpegnate, allegri e rondò dove tutto si pacifica in poche battute agili e sgombre, i mostri ritornano bambini, Schulz diventa solo un poeta dell’infanzia.

Noi sappiamo che non è vero e pure facciamo finta di prestarvi fede. Nella striscia che segue, Schulz continuerà a mostrarci nel volto di Charlie Brown, con due colpi di matita, la sua versione della condizione umana.

Fonte: Umberto Eco, Apocalittici e integrati, 1964

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