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LA SENTINELLA di Arthur C. Clarke

Sentinel of Eternity by Arthur C. Clarke - 1951 Spring Issue of “10 Story Fantasy”

Subito dopo La stella e I nove miliardi di nomi di Dio, credo che La sentinella sia il mio racconto più noto, anche se non per se stesso, ma come spunto da cui nacque 2001: Odissea nello spazio, vent’anni dopo che lo scrissi nel 1948. Mi chiedo se quell’anno ho festeggiato il Natale: il racconto, l’Opera 62 del mio schedario, porta infatti la data 23-26 dicembre.

Continuo a notare con fastidio che si cita erroneamente La sentinella come “il racconto su cui si basa 2001“. In realtà, il racconto assomiglia al film come una ghianda potrebbe assomigliare a una quercia adulta. (Molto meno, anzi, perché nel film compaiono idee di vari altri racconti.) Anche gli elementi che Stanley Kubrick e io abbiamo effettivamente utilizzato sono stati alquanto modificati. Così la “struttura scintillante, di forma quasi piramidale… incastonata nella roccia come una gigantesca gemma dalle mille sfaccettature” divenne – dopo parecchie modifiche – il famoso monolito nero. E la collocazione passò dal Mare delle Crisi al più spettacolare cratere lunare, Tycho, facilmente visibile a occhio nudo dalla Terra in condizioni di luna piena.

Qualche tempo dopo la pubblicazione della Sentinella, mi chiesero se avevo letto The Red One di Jack London (1918). Dato che non l’avevo mai fatto, mi affrettai a leggerlo, e fui profondamente impressionato dalla storia di London, scritta trent’anni prima della mia, in cui si parla della “Figlia delle Stelle”, un’enorme sfera rimasta a giacere per intere epoche nelle giungla di Guadalcanal. Mi chiedo se sia questa la prima comparsa di un tema che è balzato improvvisamente sotto gli occhi di tutti, ora che il dibattito sulla ricerca delle intelligenze extraterrestri è passato dalla vecchia domanda “Dove sono?” all’ancor più enigmatica “Dove sono gli oggetti fabbricati da loro?”.

* * *

di Arthur C. Clarke

La prossima volta che vi capiterà di vedere la luna piena, alta, a meridione, osservatene attentamente il contorno sulla destra e lasciate correre l’occhio in su, lungo la curva del disco. A sessanta gradi dalla sommità, noterete un piccolo ovale scuro: chiunque, dotato di vista normale, è in grado di trovarlo facilmente. È la grande pianura circondata da monti,una delle più belle della Luna, conosciuta con il nome di Mare Crisium, il Mare delle Crisi.

Con un diametro di cinquecento chilometri e circondato da un anello di montagne imponenti, non era mai stato esplorato finché non lo raggiungemmo alla fine dell’estate del 1996.

La nostra era una spedizione su vasta scala. Due navi da carico avevano trasportato i rifornimenti e le attrezzature dalla principale base lunare del Mare Serenitatis, lontana ottocento chilometri. C’erano poi tre piccoli razzi che dovevano servire al trasporto su distanze brevi in regioni nelle quali era impossibile servirsi dei veicoli di superficie. Ma, per fortuna, per quasi tutta la sua estensione, il Mare Crisium è pianeggiante. Non ci sono quei grandi crepacci così frequenti e pericolosi altrove, e si incontrano raramente crateri o alture di notevoli dimensioni. Secondo le previsioni, i nostri potenti trattori cingolati non avrebbero avuto difficoltà a portarci ovunque volessimo.

Io ero il geologo – o il selenologo, se si vuole essere pignoli – che comandava il gruppo destinato all’esplorazione della parte meridionale del Mare. Ne avevamo attraversato più di centocinquanta chilometri in una settimana, procedendo ai piedi delle montagne, sulla spiaggia di quello che, milioni di anni fa, era stato un mare vero. Quando la vita si affacciava sulla Terra, quel mare era già moribondo. Le acque si ritiravano dai fianchi di quelle scogliere meravigliose e defluivano nel cuore vuoto della Luna. Sul suolo che percorrevamo, l’oceano senza maree era stato un tempo profondo ottocento metri e ora l’unica traccia di acqua era data dalla brina che si trovava a volte nel cuore di caverne in cui non penetrava mai la bruciante luce del sole.

Eravamo partiti in esplorazione molto presto, nella torpida alba lunare, e disponevamo ancora di quasi tutta una settimana terrestre prima che facesse notte. Varie volte al giorno scendevamo dal nostro trattore, rivestiti dalle tute spaziali, alla ricerca di minerali interessanti, oppure per piantare nel terreno contrassegni utili ai viaggiatori futuri. Si trattava di compiti noiosi, abitudinari. L’esplorazione lunare è del tutto priva di rischio, e anche di emozioni. Potevamo vivere comodamente per un mese nei nostri trattori pressurizzati, e se ci fosse capitato qualche guaio, potevamo sempre chiedere soccorso per radio e starcene seduti ad aspettare che una delle astronavi venisse a prelevarci.

Ho appena finito di dire che non c’era niente di emozionante nell’esplorazione lunare, ma naturalmente non è vero. Non ci si stancava mai della vista di quelle montagne incredibili, tanto più aspre delle dolci alture della Terra. Aggirando i capi e i promontori di quel mare fantasma non si poteva mai sapere quali nuovi splendori sarebbero apparsi ai nostri occhi.

L’intera curva meridionale del Mare Crisium è un ampio delta dove un tempo avevano scavato il loro letto alcuni fiumi, alimentati probabilmente dalle piogge torrenziali che avevano sferzato le montagne durante la breve era vulcanica, quando la Luna era giovane.

Ognuna di quelle antiche valli fluviali era un invito, una sfida a inerpicarsi sulle sconosciute alture sovrastanti. Ma dovevamo percorrere ancora centocinquanta chilometri circa, e dovevamo limitarci a guardare con desiderio le cime che altri avrebbero scalato.

A bordo del trattore seguivamo l’orario terrestre. Ogni sera, alle ventidue esatte, inviavamo l’ultimo messaggio della giornata alla base, e per quel giorno il lavoro era finito. Fuori, le rocce continuavano a bruciare sotto il sole a picco, ma per noi era notte, finché non ci svegliavamo otto ore più tardi. Allora uno di noi preparava la colazione, si levava un gran ronzio di rasoi elettrici, e qualcuno sintonizzava la radio sulle trasmissioni a onde corte della Terra. In effetti, quando il profumo delle salsicce fritte cominciava a invadere la cabina, era difficile credere di non essere già tornati sul nostro vecchio pianeta, tanto ogni cosa pareva normale e casalinga, a parte la sensazione di pesare meno e la lentezza innaturale con cui cadevano gli oggetti.

Era il mio turno di preparare la colazione nell’angolo della cabina principale che serviva come cambusa. Nonostante siano passati tanti anni, ricordo con estrema chiarezza quel momento, perché la radio aveva appena finito di trasmettere una delle mie canzoni preferite, la vecchia aria gallese David delle Rocce Bianche. Il nostro conducente era già fuori, in tuta, a controllare i cingoli. Il mio assistente, Louis Garnett, seduto al posto di guida, soprelevato rispetto alla cabina, stava scrivendo sul libro di bordo alcune note relative al lavoro del giorno precedente.

Mentre aspettavo, come qualsiasi brava massaia terrestre, che le salsicce rosolassero in padella, lasciai scorrere pigramente lo sguardo sulle pareti montuose che chiudevano tutto l’orizzonte verso sud e che proseguivano a perdita d’occhio verso est e ovest oltre la curvatura della Luna. Pareva che distassero solo un paio di chilometri dal trattore, ma io sapevo che, invece, la più vicina era a trenta chilometri di distanza o qualcosa di più. Sulla Luna, è ovvio, i particolari non perdono in nitidezza per la lontananza, mancando l’atmosfera che, sulla Terra, attenua, offusca e a volte trasfigura tutti gli oggetti lontani.

Quelle montagne erano alte tremila metri, e si innalzavano a perpendicolo rispetto alla pianura, come se in ere lontane un’eruzione sotterranea le avesse spinte verso il cielo attraverso la crosta fusa. La base, anche di quelle più vicine, restava nascosta dalla forte curvatura della superficie pianeggiante, perché la Luna è un mondo piccolo, e l’orizzonte distava solo tre chilometri dal punto in cui io mi trovavo.

Alzai gli occhi sui picchi che nessun uomo aveva mai scalato, quei picchi che, prima della comparsa della vita terrestre, avevano visto l’oceano lunare ritirarsi nella sua tomba e portare via con sé la speranza e la promessa di un mondo. La luce del sole batteva su quei grandi bastioni con un bagliore che feriva gli occhi, eppure, sopra le loro vette, le stelle brillavano ferme e vivide in un cielo più nero di quello di una notte invernale sulla Terra.

Stavo voltandomi, quando il mio sguardo fu attratto da uno scintillio metallico quasi sulla cresta di un grande promontorio che si protendeva nel Mare, cinquanta chilometri a ovest della mia posizione. Era un punto luminoso piccolissimo, come se uno di quei picchi crudeli fosse riuscito a strappare dal cielo una stella, e io pensai che fosse il riverbero della luce del sole, riflesso direttamente nei miei occhi dalla superficie particolarmente levigata di una roccia.

Era una cosa che capitava spesso. Quando la Luna è nel secondo quarto, gli osservatori terrestri riescono a volte a vedere le grandi catene dell’Oceanus Procellarum ardere con un’iridescenza biancazzurra, causata dai raggi di luce solare che, riflessi dai loro pendii, rimbalzano da mondo a mondo. Ma io ero curioso di sapere che specie di roccia potesse mai brillare a quel modo lassù, perciò mi arrampicai nella torretta di osservazione e puntai verso ovest il nostro telescopio da cento millimetri.

Non riuscii a vedere molto, ma quello che scorsi fu sufficiente a suscitare i miei desideri. Chiara e nitida nel mio campo visivo, la massa del promontorio pareva lontana meno di un chilometro, ma l’oggetto che aveva attirato la mia attenzione era troppo piccolo perché potessi capirne la natura. Eppure, sebbene non riuscissi a riconoscerlo, vedevo che possedeva una certa simmetria e che era posato su una zona della sommità stranamente piatta. Fissai a lungo il misterioso scintillio, aguzzando gli occhi nello spazio, finché una forte puzza di bruciato proveniente dalla cambusa non mi informò che le salsicce della colazione avevano fatto invano il loro viaggio di quattrocentomila chilometri.

Mentre quella mattina avanzavamo attraverso il Mare Crisium, con le montagne a occidente che si elevavano sempre più, continuammo a discutere. Anche quando uscimmo per le consuete ricerche minerarie, le discussioni proseguirono per radio. I miei compagni sostenevano che era assolutamente certo che sulla Luna non fosse mai esistita una forma di vita intelligente. I soli esseri viventi che avessero mai abitato il nostro satellite erano gli esemplari molto primitivi di vita vegetale che conoscevamo, e i loro antenati meno degeneri.

lo sapevo anch’io, ma a volte nella vita si presentano occasioni in cui uno scienziato non deve temere di farsi ridere dietro.

Sentite – dissi alla fine – voglio salire lassù, se non altro per mettermi il cuore in pace. Quella montagna è alta meno di tremila cinquecento metri, il che equivale a meno di seicento metri a gravità terrestre, e io posso andare e tornare in venti ore al massimo. Ho sempre desiderato scalare una di quelle cime, e adesso ho un eccellente pretesto per farlo.

Se non ti romperai l’osso del collo – disse Louis Garnett – diventerai lo zimbello della spedizione, quando torneremo alla base. D’ora in avanti, quella montagna verrà probabilmente chiamata la “Follia di Wilson”. – Non mi romperò l’osso del collo – dissi con fermezza. – Chi si è arrampicato per primo su Pico ed Elicona?

-Ma non eri un po’ più giovane, allora? – chiese gentilmente Garnett.

-Questa è una ragione di più per andare – risposi, con grande dignità.

Quella sera ci coricammo presto, dopo essere arrivati con il trattore a meno di mezzo chilometro dal promontorio. Garnett sarebbe uscito con me, la mattina dopo: era un ottimo scalatore, e aveva partecipato ad altre imprese del genere in mia compagnia. Il nostro conducente, invece, fu lieto di restare a guardia della macchina e di non dover fare altro per tutta la giornata.

A prima vista, pareva che fosse assolutamente impossibile arrampicarsi su quelle pareti, ma chiunque ha un po’ d’esperienza alpinistica sa che le scalate non presentano difficoltà, in un mondo dove il peso è ridotto a un sesto del normale. Il vero pericolo, nell’alpinismo lunare, sta nella temerarietà. Una caduta di duecento metri, sulla Luna, può uccidere esattamente come una di trenta metri sulla Terra.

Facemmo la prima sosta su un cornicione abbastanza ampio a circa milleduecento metri di altitudine sulla pianura. Arrampicarsi non era stato difficile, ma lo sforzo a cui non ero più abituato mi aveva irrigidito i muscoli delle gambe, ed ero felice di potermi riposare un po’. Visto di lì, il trattore pareva un minuscolo insetto di metallo ai piedi della parete. Prima di riprendere la scalata, comunicammo via radio i nostri progressi al conducente.

Dentro la tuta, la temperatura era gradevolmente fresca, perché il sistema di refrigerazione annullava gli effetti del sole ardente ed eliminava il calore prodotto dai nostri sforzi muscolari. Ci scambiavamo raramente qualche parola, e solo per darci l’un l’altro un consiglio sul modo di proseguire e per discutere sulla via migliore da prendere. Non so cosa pensasse Garnett, forse che quella era la più assurda caccia alla balena bianca in cui si fosse imbarcato. Io non potevo che dargli ragione, almeno in parte, ma – se non altri per me – il piacere della scalata, la consapevolezza che nessun uomo era salito su quella parete prima di noi e il gran respiro del panorama che andava sempre più ampliandosi, erano di per se stessi una ricompensa.

Non ricordo di avere provato un’emozione particolare quando ci trovammo davanti all’ultimo tratto di roccia, quello che avevo esaminato al telescopio il giorno prima, da cinquanta chilometri di distanza. A una ventina di metri sopra le nostre teste la parete terminava bruscamente, e là, sullo spiazzo così formato, c’era l’oggetto che mi aveva spinto ad attraversare la distesa deserta. Quasi certamente era solo uno spuntone di roccia, scheggiato in altre ere dall’urto di una meteorite, con i piani di sfaldatura ancora lisci e rilucenti in quel silenzio incorruttibile ed eterno.

La roccia non aveva appigli e dovemmo servirci di un rampino. Le mie braccia stanche riacquistarono forza mentre lanciavo l’àncora a tre punte dopo averla fatta roteare sopra la testa. La prima volta mancò la presa e ricadde lentamente, mentre noi riavvolgevamo la corda. Al terzo tentativo le punte s’incastrarono saldamente, e nemmeno il peso dei nostri due corpi insieme le smosse più.

Garnett mi lanciò un’occhiata piena d’ansia. Capivo che voleva salire per primo, ma gli sorrisi da dietro il visore del casco e scossi la testa. Poi, senza fretta, mi accinsi all’ultimo tratto della scalata.

Anche con la tuta addosso, pesavo solo una ventina di chili, perciò mi tirai su a forza di braccia, senza prendermi la briga di aiutarmi con i piedi. Mi fermai sull’orlo a salutare con la mano il mio compagno, poi mi issai e, drizzatomi in piedi, guardai davanti a me.

Dovete tenere presente che fino a quel momento ero quasi del tutto convinto che lassù non avrei scoperto niente di strano o d’insolito. Quasi, ma non completamente; ed era stato quel dubbio ossessionante a spingermi fin lì. Be’, il dubbio ormai era svanito, ma l’ossessione era appena al principio. Mi trovavo su un piccolo plateau, largo circa una trentina di metri. Una volta era levigato troppo levigato per essere naturale -ma le meteoriti cadute nel corso di innumerevoli millenni ne avevano bucherellato e sconvolto la superficie. Era stato livellato perché potesse reggere una struttura scintillante, di forma quasi piramidale, alta il doppio di un uomo, incastonata nella roccia come una gigantesca gemma dalle mille sfaccettature.

Probabilmente, in quei primi attimi non provai nulla. Poi sentii un enorme sollievo, una strana gioia inesprimibile. Perché io amavo la Luna, e ora sapevo che il muschio abbarbicato sui pendii di Aristarco ed Eratostene non era l’unica forma di vita da lei prodotta quando era giovane. Il vecchio, assurdo sogno dei primi esploratori era vero. Dopotutto, era davvero esistita una civiltà lunare, ed ero stato io il primo a trovarla. Il fatto che fossi arrivato con cento milioni di anni di ritardo non mi preoccupava, mi bastava essere arrivato.

Il mio cervello riprese a funzionare in modo normale, ad analizzare, a porsi interrogativi. Che cos’era quella struttura? Un’abitazione? Un santuario? O qualcosa che nella mia lingua non aveva nome? Se era un’abitazione, perché l’avevano costruita in quel punto pressoché inaccessibile? Mi chiesi se non fosse stato un tempio, e immaginai gli adepti di qualche strano culto invocare le loro divinità perché li salvassero mentre la vita sulla Luna declinava con la morte degli oceani, e invocarle invano.

Feci qualche passo per esaminare la piramide più da vicino, ma la cautela m’impedì di accostarmi troppo. Mi intendevo un poco di archeologia, e cercai di stabilire il livello della civiltà che aveva spianato la cima di quella montagna ed eretto le superfici della piramide, scintillanti come specchi, che mi abbagliavano ancora.
Gli antichi egizi sarebbero stati in grado di farlo, posto che i loro operai disponessero dello strano materiale che gli architetti lunari, molto più antichi di loro, avevano adoperato.

Poiché l’oggetto era relativamente piccolo, non pensai che poteva anche essere il prodotto di una specie più progredita della mia. L’idea che sulla Luna fossero esistiti esseri intelligenti era già di per sé talmente difficile da ammettere, che il mio orgoglio si rifiutava di fare l’ultimo e più umiliante passo. E poi notai qualcosa che mi fece rizzare i capelli sulla nuca, una cosa così trascurabile e innocua che forse molti non ci avrebbero neppure fatto caso. Ho già detto che la spianata era crivellata dalla caduta di meteoriti, ma era anche ricoperta da uno spesso strato di polvere cosmica, quella polvere che si stende sulla superficie di tutti i mondi privi di atmosfera. E, tuttavia, sia la polvere sia i segni lasciati dalle meteore, terminavano bruscamente in corrispondenza di un ampio cerchio sgombro, che circondava completamente la piccola piramide, come se un muro invisibile la proteggesse, dalle ingiurie del tempo e dal lento ma incessante bombardamento dallo spazio.

C’era qualcuno che mi gridava negli auricolari, e finalmente mi resi conto che Garnett mi stava chiamando già da molti minuti. Mi avvia con passo incerto verso l’orlo del plateau, e gli feci cenno di raggiungermi, perché non ero sicuro di riuscire a parlare. Poi tornai verso il cerchio nella polvere. Mi chinai ad afferrare un frammento di roccia e lo scagliai, senza troppa forza, verso l’enigma scintillante. Se il sasso, nell’incontrare la barriera invisibile, fosse sparito, non me ne sarei meravigliato; invece, scivolò lentamente a terra, come se avesse urtato contro una superficie emisferica.

Ora sapevo che l’oggetto davanti a me non si poteva paragonare a nessun reperto archeologico della mia specie. Non era un edificio, ma una macchina, che si proteggeva da sola mediante forze che avevano sfidato l’eternità. Queste forze, di qualunque natura fossero, erano tuttora attive, e forse io mi ero già avvicinato troppo. Pensai a tutte le radiazioni che l’uomo aveva catturato e domato nel corso dell’ultimo secolo. Per quel che ne sapevo, potevo anche essere ormai condannato, come se fossi penetrato nell’atmosfera silenziosa e letale di una pila atomica non schermata.

Ricordo che mi voltai verso Garnett, il quale, alla fine, mi aveva raggiunto e se ne stava immobile al mio fianco. Mi parve talmente assorto che non volli disturbarlo, ma mi diressi verso l’orlo del dirupo sforzandomi di riordinare i miei pensieri. In basso davanti a me si stendeva il Mare Crisium – davvero Mare delle Crisi, adesso – strano e minaccioso per quasi tutta l’umanità, ma ormai familiare e rassicurante per me. Alzai gli occhi verso la falce di Terra nella sua culla di stelle, e mi chiesi che cosa ci fosse, sotto le sue nuvole, quando gli sconosciuti costruttori lunari avevano terminato la loro opera. Era la giungla fumante del Carbonifero, la spoglia riva degli oceani su cui strisciavano i primi anfibi alla conquista della terraferma, oppure, ancora prima, il lunghissimo periodo di solitudine, che precedette lo sbocciare della vita?

Non chiedetemi come mai non abbia intuito subito la verità, che adesso sembra così ovvia. Nel tumulto emotivo della scoperta, mi ero convinto che l’apparizione di cristallo doveva essere stata costruita da una specie vissuta nel remoto passato della Luna, ma d’improvviso, come una rivelazione, mi balenò la certezza che quell’oggetto fosse estraneo alla Luna quanto lo ero io.

Nel corso di vent’anni d’esplorazioni non avevamo trovato tracce di vita, tolte alcune piante degenerate. Nessuna civiltà lunare, per quanto moribonda, avrebbe potuto lasciare soltanto una, e una sola, prova della sua esistenza.

Tornai a guardare la piramide scintillante, e mi parve più estranea che mai alla Luna. E allora, d’un tratto, fui scosso da una risata isterica causata dall’emozione e dallo sforzo eccessivi. Perché mi pareva che la piccola piramide mi avesse rivolto la parola per dirmi: “Spiacente, caro, ma anch’io vengo da fuori”.

Ci sono voluti vent’anni per infrangere quello scudo invisibile e arrivare alla macchina racchiusa fra le pareti di cristallo. Quello che non riuscimmo a capire lo spezzammo, alla fine, con la brutale potenza dell’energia atomica. Io stesso ho visto i frammenti di quella cosa bella e scintillante che trovai un giorno, lassù fra le montagne.

Non significano assolutamente niente. I meccanismi – posto poi che fossero meccanismi della piramide sono il frutto di una tecnologia molto al di là del nostro orizzonte, forse di una tecnologia delle forze fisico-mentali. Il mistero continua a tormentarci ogni giorno di più, ora che, dopo avere raggiunto gli altri pianeti, sappiamo che solo la Terra, nel nostro piccolo angolo di universo, ha dato origine a vita intelligente. Né quella macchina può essere stata costruita da qualche antichissima civiltà sconosciuta sorta sul nostro pianeta, perché lo spessore della polvere meteorica sulla spianata ci ha permesso facilmente di calcolarne l’età. Quella polvere cominciò a posarsi sulla montagna lunare ancor prima che la vita emergesse dai mari della Terra.

Quando il nostro pianeta aveva la metà dei suoi anni attuali, qualcosa che veniva dalle stelle attraversò il sistema solare, lasciò quella prova del suo passaggio, e proseguì per la sua strada. Finché noi non la distruggemmo, quella macchina svolse il compito assegnatole dai suoi costruttori. E quale fosse quel compito credo dì intuirlo.

Nella spirale della Via Lattea ruotano cento miliardi di stelle; molto tempo fa, altre specie, sui pianeti di altri soli, devono avere raggiunto e superato il livello a cui noi siamo oggi arrivati.

Pensiamo a simili civiltà tanto lontane nel tempo, nate in un’epoca in cui si potevano ancora scorgere gli ultimi bagliori della creazione: razze padrone di un universo talmente giovane che la vita era sorta solo su un infinitesimo numero di mondi. Quelle razze dovevano essere isolate fra loro: un isolamento era impossibile da immaginare, l’isolamento di dèi che puntano lo sguardo sull’infinito e non trovano nessuno con cui condividere i propri pensieri.

Devono aver esplorato gli ammassi stellari come noi esploriamo i pianeti del nostro sistema. Dovunque c’erano mondi, ma erano deserti, o popolati di creature striscianti, incapaci di pensare. Così era la nostra Terra, col fumo dei vulcani che offuscava ancora il cielo, quando la prima nave delle razze dell’alba giunse dagli abissi oltre Plutone. Sorpassò i pianeti esterni chiusi nella morsa del gelo, sapendo che la vita non poteva far parte del loro destino. Giunse, e si fermò, sui pianeti interni, che si scaldavano al fuoco del Sole in attesa che la loro storia avesse inizio.

Quegli esploratori devono avere studiato la Terra, che orbita nella stretta fascia fra i pianeti del ghiaccio eterno e quelli perpetuamente arroventati, e devono avere concluso che era la figlia prediletta del Sole. Su di essa, nel lontano futuro, era destinata a sbocciare l’intelligenza. Ma sul loro cammino c’erano ancora innumerevoli stelle, e poteva darsi che nessuno di loro ripassasse di lì.

E così lasciarono una sentinella, una dei milioni di sentinelle che devono avere sparso nell’universo per sorvegliare tutti i mondi in cui respirava la promessa della vita. Era un faro che nel corso delle ere avrebbe pazientemente segnalato che nessuno l’aveva ancora scoperto.

Forse ora capite perché la piramide di cristallo fu collocata sulla Luna e non sulla Terra. Ai suoi creatori non importavano le specie ancora in lotta per uscire dalla barbarie. La nostra civiltà poteva interessarli unicamente se avessimo dato prova delle nostre capacità di sopravvivenza, valicando lo spazio e staccandoci dalla Terra, la nostra culla. Questa è la sfida che, prima o poi, si presenta a tutte le specie intelligenti. È una sfida duplice, perché

dipende prima dalla conquista dell’energia atomica, e poi dall’esito della scelta finale fra la vita e la morte nell’olocausto nucleare.

Una volta che noi avessimo superato il punto critico, era solo questione di tempo scoprire la piramide e forzarla, per vedere cosa ci fosse dentro. Adesso non emette più segnali, e chi di dovere avrà ormai rivolto la propria attenzione alla Terra. Forse vogliono aiutare la nostra civiltà in fasce. Ma devono essere vecchi, molto vecchi, e spesso i vecchi sono follemente gelosi dei giovani.

Ora non posso più guardare la Via Lattea senza chiedermi da quale di quelle fitte nebulose stellari stiano arrivando gli emissari. Se mi concedete un’analogia molto semplice, noi abbiamo tirato il segnale d’allarme, e adesso non possiamo fare altro che aspettare.
Non credo che l’attesa sarà lunga.

Fine

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