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STORIA DEI MONDIALI DI CALCIO – 1970: BRASILE

Il racconto del trionfo del Brasile in Messico nel 1970
Football Fifa Mexico 1970 World Cup Final Brazil vs Italy 4-1 Pelè celebrates with the cup

1970 Città del Messico
BRASILE

L’ULTIMO CANTO DI PELÉ E L’ILLUSIONE AZZURRA

Viene assegnata definitivamente la Coppa Rimet ed a conquistarla è la squadra guidata da «O’Rey» al suo terzo titolo in dodici anni. Dopo i carioca si classifica l’Italia che in semifinale ha disputato con la Germania la più appassionante partita della storia calcistica di un Mondiale

Gli avvenimenti del calcio internazionale che caratterizzano il quadriennio che va da Londra 1966 a Città del Messico 1970, incidono profondamente nello svolgimento della Coppa messicana. Nel 1967 l’Uruguay trionfa nel Campionato Sudamericano, nel ’68 l’Italia ritorna alle vittorie internazionali vincendo la Coppa Europa per Nazioni e ritroveremo le antiche dominatrici degli anni trenta fra le protagoniste di Città del Messico. Il calcio progredisce velocemente verso la perfezione atletica degli attori, la Germania e l’Inghilterra hanno rispettato da sempre i canoni della «performance» atletica nel calcio, ma ora è l’Olanda a rivoluzionare i concetti sui quali avevano dissertato per lungo tempo i teorici della scienza calcistica. L’Olanda non ha ancora raggiunto quella caratura internazionale necessaria alla diffusione delle teorie che Rinus Michels sta imponendo all’Ajax di Amsterdam, eliminata com’è in Coppa Europa dall’Ungheria e nelle qualificazioni per la Coppa Rimet dalla Bulgaria, ma la formazione dei «lancieri» sta salendo la scala dei valori continentali con una fioritura di campioni come Suurbier, Hulshoff, Keizer e soprattutto Cruijff, nella massima competizione Europea di Club dove nel 1968-’69 raggiunge la finale e l’anno dopo è il Feyenoord di Van Hanegem a trionfare nella finale di Milano. Per intanto a Città del Messico il problema dell’altura favorisce chi ha studiato con attenzione le condizioni ambientali nelle quali si dovrà sostenere lo sforzo fisico, tenendo conto della rarefazione dell’aria, della maggiore velocità del pallone e della capa­cità da parte degli atleti di saper dosare lo sforzo. Al mondiale messicano hanno aderito 70 federazioni, con una partecipazione massiccia di paesi africani, sottoposti ad un lunghissima trafila di incontri per esprimere un solo partecipante alla fase finale: il Marocco. La zona centro-americana è rappresentata da El Salvador e dal Messico organizzatore e l’Asia-Oceania da Israele che ha regolato l’Australia vincitrice del gruppo XV composto da Corea del Sud, Giappone e appunto Australia. La rappresentanza europea è sempre nutrita: Italia, Romania, Cecoslovacchia, URSS, Svezia, Belgio, Germania, Bulgaria e l’Inghilterra detentrice e fra le sudamericane s’affaccia il Perù, che ha eliminato l’Argentina, Brasile e Uruguay completano la rappresentanza del continente latino-americano.Il Messico che ha già organizzato le Olimpiadi, un paio d’anni prima accoglie le delegazioni nazionali con l’ardore di una ospitalità tradizionale, con i suoi colori sgargianti, con la realtà di un paese che cerca attraverso il collegamento con il resto del mondo, la soluzione dei molti problemi che travagliano la struttura sociale. Gli Aztechi avevano insediato nella moderna Città del Messico, la loro capitale Tenochtitlan e lo stadio Azteca che accoglierà la finale è dedicato a quei lontani progenitori, una struttura monumentale, ma funzionale. L’antica terra che sedusse Cortez il conquistatore, ospita nelle sue città i moderni conquistatori disarmati. Vengono composti i quattro gironi: a Mexico City, URSS, Belgio, El Salvador e Messico; a Puebla e Toluca, Italia, Uruguay, Svezia ed Israele; a Guadalajara, Inghilterra, Romania, Brasile e Cecoslovacchia; a Leon, Germania, Bulgaria, Perù e Marocco. Il 31 maggio, il presidente messicano Echevarria, dichiara aperta la Coppa del Mondo, pochi istanti prima che le nazionali dell’URSS e del Messico si schierino sul cam­po per l’incontro d’apertura.

Un campione del mondo agli arresti

L’urlo «animals… animals» ha lasciato tracce profonde nell’amor proprio dei latino-americani, assieme ad un desiderio di rappresaglia nei confronti di quegli inglesi che si atteggiano a padroni del mondo. Lo strumento della vendetta è un oscuro Commissario di polizia di un quartiere di Bogotà, che riceve la denuncia di smarrimento di un braccialetto di valore. Smarrimento successivo ad una visita al negozio della comitiva inglese, che sulla strada del Messico, s’è recata in Colombia per sostenervi un incontro di collaudo. Questo Commissario vendicativo, crede di ravvisare in Bobby Moore le fattezze di un qualsiasi borseggiatore e manda i «carabineiros » ad arrestare il biondo capitano. Solamente una pesante cauzione riuscì a tacitare la vendetta e a favorire per la liberazione del galeotto, ma la chiara strumentazione dell’episodio venne suffragata non appena Pelé, il re del calcio, mise piede sul suolo messicano. Si recò all’albergo dove erano ospitati gli inglesi e davanti ai fotografi strinse calorosamente la mano che era stata serrata dalle manette, riscattando in tal modo l’onorabilità del biondo Bobby che era stata così volgarmente messa in discussione. I campioni del mondo di passaggio avevano vinto per 4-0 sulla Colombia, con reti di Peters (2), Bobby Charlton e Ball e per 2-0 a Quito sull’Equador prima di arrivare a Guadalajara per disputarvi le partite del girone di qualificazione.

Per un solo gol

Un alone di scetticismo circondava l’ambiente della comitiva azzurra alla partenza da Fiumi­cino. L’Italia che aveva vinto la Coppa Europa nel ’68, guadagnata la qualificazione per Città del Messico, lasciandosi alle spal­le Germania Est e Galles, grazie soprattutto alle prodezze di Gigi Riva (7 gol in 4 partite) aveva sostenuto un paio di collaudi  con la Spagna (Madrid 21-2-70, 2-2) e il Portogallo (Lisbona 10-5-70, 2-1), ma il gioco appariva scarno nonostante la puntualità in zona-gol del suo miglior realizzatore. Alla vigilia della partenza una  colica addominale privava la comitiva azzurra del centravanti della Juventus Pietro Anastasi sostituito in gran fretta da «Bobo» Boninsegna dell’Inter, un elemento che a detta dei critici, mal si adattava all’intesa con Riva. Scetticismo e pessimismo accompagnati dalle stucchevoli ironie sul conto del Commissario Valcareggi, la cui saggezza veniva spesso contrabbandata per smaccata fortuna. È d’obbligo comunque un passo indietro per ricomporre le fila di un discorso che iniziato all’indomani della sconvolgente esperienza inglese avrebbe portato la nostra massima rappresentativa calcistica dalle ultime posizioni nella scala dei valori internazionali a contendere al fantastico Brasile di Pelé la conquista definitiva della Coppa Rimet. Sopite le polemiche con una squalifica ad Ed­mondo Fabbri che aveva trascinato nel gioco dello scaricabarile tutto l’ambiente azzurro, giocatori compresi, la nazionale fu affidata al «duo» Ferruccio Valcareggi-Helenio Herrera. La co-gestione durò pochi mesi, poiché H.H., non era tipo da dividere responsabilità e successi con altri. Le quattro partite disputate dagli azzurri in tale periodo s’erano concluse con tre vittorie (URSS in amichevole, Romania e Cipro per la Coppa Europa) ed un pareggio (1-1) con il Portogallo terzo classificato al mondiale inglese. L’epurazione nei quadri della nazionale spazzò via principalmente i calciatori bolognesi, che sparirono travolti dal vento del rinnovamento e lo zelo riformatore, non risparmiò neppure un elemento come Giacomo Bulgarelli, senz’altro fra i migliori interni del campionato, che fu impiegato ancora un paio di volte e quindi relegato nel dimenticatoio. Rimasto solo, Valcareggi continuò sulla linea intrapresa in compagnia di H.H.: difesa bloccata – Guarnieri e Picchi a chiudere davanti ad Albertosi – centrocampo unicamente rivolto al contropiede per servire Riva, che Fabbri aveva portato in Inghilterra come turista e che si era prontamente ristabilito dalla frattura causatagli dal portiere Americo nell’incontro con il Portogallo del marzo ’67, ultima partita della cogestione. E Riva da quel grande realizzatore che è, riscatta buona parte delle magagne della squadra, che non sa esprimere altro che quella manovra essenziale: rapido contrattacco, servizio preciso, al resto pensa il «bomber» con una precisione di tiro entusiasmante. Gli avversari giocavano a tutto campo, premevano, agli azzurri bastavano un paio di servizi ben fatti per il grande Gigi, e il risultato era cosa fatta. L’essenzialità della manovra, il ripetersi metodico dello schema di base, aveva prodotto una schiera di elementi specializzati alla bisogna. Guadagnata la qualificazione alla fase finale della Coppa Europa, Valcareggi nella prima partita che opponeva i nostri all’URSS aveva allestito la seguente formazione: Zoff; Burgnich Facchetti; Bercellino Castano Ferrini; Domenghini Juliano Mazzola Rivera Prati. Si vinse per sorteggio, dopo 120′ di gioco in cui gli «azzurri» avevano corso molti pericoli, ma s’erano resi interpreti di buone combinazioni fallite per scarsa incisività. Valcareggi insisteva sul «duo» del Milan Rivera-Prati, poiché Pierino aveva appena vinto la classifica marcatori sfruttando i geniali servizi del «golden boy». Ma la scarsa penetrazione dell’attacco non riguardava unicamente Prati, anche Mazzola non gradiva più le battaglie in area, aveva già dato inizio alla evoluzione che lo trasformava da punta autentica in uomo da ultimo passaggio. Per la partita di finale con la Jugoslavia di Dzaijc, che aveva eliminato l’Inghilterra, Valcareggi ricorse ad alcuni ricambi: dentro Guarneri, fuori Bercellino, Anastasi e Lodetti rilevavano Mazzola e l’infortunato Rivera. Finì 1-1 dopo 120′, il vantaggio di Dzaijc al 39′, venne pareggiato da una gran botta su punizione di Domenghini all’80’, e i tempi supplementari non cambiarono la sostanza delle cose. Si rigiocò la finale due giorni dopo e l’Italia schierò la formazione che, salvo alcuni ritocchi nella difesa, avrebbe così ben figurato in Messico: Zoff; Burgnich Facchetti; Rosato Guarneri Salvadore; Domenghini Mazzola Anastasi De Sisti Riva. Mazzola in veste di mezza punta giocò una grande partita, gli azzurri  guadagnarono il risultato con un bellissimo gol di Riva al 12′, doppiato da una prodezza di Anastasi al 31′. Dopo anni e anni di mediocrità finalmente un titolo onorava la partecipazione italiana. Alla partenza per il Messico, Valcareggi si portava appresso un problema irrisolto: la coesistenza fra Mazzola e Rivera. L’evoluzione naturale dell’interista l’aveva portato a divenire un doppione del «bambino d’oro», dal lancio meno geniale e limpido, ma dalla continuità e dal nerbo atletico nettamente superiori. Il problema andava risolto sulla scorta del principio che in una rappresentativa nazionale devono saper coesistere i migliori elementi che il campionato produce. Valcareggi non l’aveva affrontato con la dovuta decisione e i due milanesi rifiutavano la posizione d’ala per non essere emarginati dalla manovra, come se non fosse la personalità di un calciatore a determinare la sua integrazione nel collettivo. La polemica fra le due correnti immediatamente formatesi, avvelenò l’atmosfera azzurra nella spedizione messicana fino ad innescare i discutibili effetti che vedremo. Per il debutto di Toluca, Valcareggi ave­va concepito questa inquadra­tura: Albertosi; Burgnich Facchetti; Bertini Niccolai Cera; Domenghini Mazzola Boninsegna De Sisti Riva. L’Italia era chia­mata al primo impegno con la Svezia. La coppia centrale difen­siva del Cagliari (Niccolai-Cera) era una invenzione delle ultime ore suggerita dal decadimento fisico del libero juventino Salvadore; quando poi al 37′ Niccolai si infortunò si venne a comporre una coppia inedita Rosato-Cera nella quale il cagliaritano svolgeva le funzioni di li­bero senza averlo fatto abitualmente in precedenza. Nella squadra sarda che aveva vinto lo scudetto, operava come laterale di attacco e il libero era Tomasini. La forzata soluzione si rivelò fondamentale. Cera fu uno dei cardini dei successi italiani in Messico, la sua interpretazione ruolo si avvicinava ai canoni moderni: non più asserragliato oltre la linea dei terzini come ultimo baluardo, all’occasione usciva del bunker palla al piede a dare l’avvio alla manovra di rilancio. L’Italia vinse per 1-0 con un tiraccio di Domenghini, poi la partita fu controllata senza eccessivi patemi. Rosato neutralizzò a dovere lo spauracchio di turno Kindvall, con la vittoria sulla Svezia l’Italia aveva messo una serie ipoteca sul passaggio ai quarti. Il suc­cessivo incontro con l’Uruguay finì 0-0, le due squadre non affondarono i colpi quasi per un reciproco patto di non belligeranza, ma intanto nell’ambiente azzurro il fuoco covava sotto la cenere. Fu Rivera ad aprire le ostilità dicendo che se lo si era portato in Messico per lasciarlo in panchina tanto valeva rimandarlo in Italia. Il responsabile della comitiva italiana era Mandelli, che si dichiarò favorevole ad una soluzione drastica, ma poi i mediatori soliti riuscirono a far rientrare i propositi di sanzioni verso il ribelle. L’ambiente comunque rimase scosso e nella successiva partita con Israele non si riuscì a vincere anche per gli interventi di un guardalinee che annullò due reti di Riva, Rivera entrò al 46′ a rilevare Domenghini, ma la squadra non ebbe benefici rilevabili anzi affiorò un nervosismo deleterio che sembrava comprovare nell’interno della formazione, una divisione in «clan» che cer­ta stampa dava per certa. Tutta­via con il pareggio l’Italia saliva a 4 punti e guadagnava l’accesso ai quarti pur avendo segnato una sola rete nei tre incontri disputati. Con gli azzurri, passavano gli uruguagi pur sconfitti (0-1) dalla Svezia, grazie alla migliore differenza reti. Ma gli scandinavi avevano già perduto la qualificazione quando s’erano fermati sul pareggio (1-1) con Israele.

Una storia di numeri 10

Nel girone di Guadalajara l’Inghilterra apriva il suo mondiale con la Romania vincendo per 1-0 e il Brasile guadagnava un largo «score» con la Cecoslovacchia, 4-1. L’inquadratura inglese era stata rinnovata da Alf Ramsey che la Regina Elisabetta aveva nominato baronetto con il diritto a fregiarsi del titolo di «Sir». Del team campione del mondo restavano Banks, Moore, B. Charlton, J. Charlton, Peters, Ball, Hurst, il calcio inglese era tornato ai livelli soddisfacenti dei tempi antichi. I «bianchi» avevano ripreso a dominare nell’Interbritannico, s’erano piazzati terzi nella Coppa Europa vinta dall’Italia, i Clubs cominciavano ad inserirsi nel giro delle vincenti delle Coppe Europee. Il Manchester United trionfava in Coppa Campioni (1968); il Manchester City vinceva la Coppa delle Coppe 1970; in Coppa UEFA Leeds United, Newcastle United ed Arsenal avevano trionfato nelle ultime tre edizioni. Il rinnovamento apportato da Ramsey per il mondiale ’66 aveva vivificato il football, l’Inghilterra era partita per il Messico con la chiara intenzione di riconfermare il titolo conquistato quattro anni prima. Battuta la Romania con il minimo di scarto, gli inglesi si ripetevano con la Cecoslovacchia e guadagnavano il passaggio ai «quarti», ma l’incontro con il Brasile aveva ridimensionato le ambizioni dei «bianchi» anche se la sconfitta (0-1) era stata mantenuta in limiti accettabili. Il Brasile era stato affidato a Mario «Lobo» Zagalo, dopo che Joao Saldanha aveva guadagnato la qualificazione per il mondiale messicano. Dopo l’eliminazione in terra inglese, Pelé era mancato per più di due anni dall’organico della «selecao». Un po’ perché gli impegni com­merciali si facevano sempre più impellenti, ma anche perché una certa parte della critica brasiliana lo riteneva ormai logoro, ed inoltre la sua presenza appariva incompatibile con quella di Eduardo Concalves de Andrade detto Tostao. I due avevano giocato raramente insieme nella selecao prima del mondiale inglese e la manovra d’attacco sembrava risentire di una certa identità delle caratteristiche dei due. Per due anni quindi Tostao faceva i suoi progressi con la maglia «auriverde», ma quando per la Coppa Oswaldo Cruz 1968 con il Paraguay, Pelé riapparve ad Asuncion con la fatidica maglia numero 10, Tostao era rimasto fuori e ci volle il coraggio di Saldanha per affrontare la opinione dei critici facendoli giocare insieme nelle partite di qualificazione del mondiale contro Paraguay Colombia e Venezuela. Per l’incontro con la Colombia a Bogotà il 6 Agosto 1969, Saldanha schierò: Felix; Carlos Alberto, Dyalma Dias, Joel, Rildo; Gerson Piazza; Jairzinho (Paulo Cesar) Tostao Pelé Edù e i due smentirono clamorosamente la critica: nelle 6 partite gli «auriverdi» segnarono 23 reti, Tostao contribuì al bottino con 10, Pelé con 6. Allontanato Joao Saldanha, la «selecao» fu affidata al «calciatore più intelligente che abbia mai calcato i campi di calcio» – secondo il giudizio di Vecente Feola: Mario «Lobo» Zagalo, che intraprese la strada indicata da Saldanha. Per la difesa non aveva problemi, c’erano una decina di possibili titolari che si equivalevano, in attacco al contrario c’era da risolvere una situazione piuttosto imbarazzante: i migliori cinque attaccanti che l’immenso Brasile vantava in quel particolare momento giocavano tutti con il numero 10 nelle loro squadre di Club. Pelé nel Santos, Tostao nel Cruzeiro di Belo Horizonte, Gerson nel San Paolo, Jairzinho nel Botafogo e Rivelino nel Corihthians, erano tutti o uomini di «manijas» (regia), Pelé Gerson, Tostao, mezze punte, Rivelino o «punta le lanza», Jairzinho, che si identificavano comunque con il fatidico numero 10. Non erano pochi i critici che giudicavano pazzesca la decisione di Zagalo che però intrapresa quella strada non ebbe ripensa­menti. Nell’incontro di apertura del mondiale gli auriverdi si schieravano con: Felix; Carlos Alberto, Brito, Filson Piazza, Everaldo; Gerson (Paulo Cesar) Clodoaldo; Jairzinho Tostao Pelé Rivelino. L’«homen de manijas» era Gerson, Jairzinho agiva da punta autentica sulla fascia destra e Tostao sul centro, Rivelino e Pelé (che vi si era adattato con umiltà) operavano in pratica da mezze punte in zone diverse del campo, con «O’Rey» che si inseriva in avanti nel fraseggio delle punte e il baffuto oriundo napoletano che si sottoponeva disciplinatamente al lavoro di tamponamento quando occorreva. Non ci fu dimostrazione più grande secondo il principio «che le ambizioni personalistiche devono essere sacrificate agli interessi del collettivo», il Brasile cominciò subito alla grande travolgendo la Cecoslovacchia con le reti di Jairzinho (2) Pelé, Rivelino, batte di misu­ra l’Inghilterra (1-0) con una rete dell’erede di Garrincha, successiva ad una splendida manovra Pelé-Tostao-Jairzinho nel cuore della difesa inglese e con la Romania si concesse qualche distrazione difensiva vincendo, per 3-2 con una doppietta di Pelé ed un altro centro di Jairzinho.

Nei quarti esplode l’Italia

URSS e Messico, Germania e Perù avevano superato gli ostacoli dei turni iniziali di qualificazione innestando più di una polemica, specialmente per il passaggio dei messicani sfacciatamente favoriti da un inesistente rigore concesso dall’argentino Coerezza, che li aiutò a battere il Belgio e non poca sorpresa aveva sollevato l’impresa del Perù ai danni dell’accreditata Bulgaria di Asparukov. Gli andini erano stati preparati dal campione del mondo Waldir Pereira detto Didi, il regista del fantastico Brasile del ’58 e del ’62 e il sorteggio dei «quarti» proponeva una interessante battaglia fra i due antichi cervelloni del Brasile: Didi sulla panchina peruviana, Zagalo su quella brasiliana, due grandi amiconi che si affrontavano ora su opposti versanti. Gli altri incontri prevedevano un minaccioso Italia-Messico, con gli «azzurri» ancora alle prese con i padroni di casa, come era già successo in Cile, un sempre avvincente Inghilterra-Germania,  rivincita della finale del ’66, ed un Uruguay-URSS che prometteva poco di buono per l’accentuato gioco difensivo messo in mostra dalle due squadre nel primo turno. Le emozioni non mancarono sui quattro campi che accolsero le partite dei «quarti». A Leon la Inghilterra era in vantaggio 2-0 – reti di Mullery e Peters – a 23′ dalla fine e quando Beckenbauer dimezzò le distanze, Ramsey cadde nell’errore più banale della sua brillante carriera di tecnico. La Coppa del Mondo messicana concedeva finalmente l’avvicendamento dei calciatori infortunati o affaticati, due più il portiere e questa modifica era stata accolta dopo un lungo tiramolla, per merito dei sudamericani, che già da molti anni si avvalevano dell’opportunità in oggetto. Alf Ramsey, giudicando ormai raggiunto il risultato, allo scopo di concedere riposo agli affaticati Bobby Charlton e Martin Peters, li sostituì con Bell e Hunter; Schoen allineandosi richiamò lo spento Libuda e inserì la fresca energia di Grabowski, il biondo attaccante dell’Eintracht di Francoforte, che aprì ampi squarci, nella difesa inglese. All’82’ Bonetti, sostituito dall’infortunato Banks, si faceva sorprendere dalla tenacia di Seeler e al 98′ Müller raccoglieva un ennesimo centro di Grabowski e scaraventava la palla nella rete dell’esterrefatto portiere del Chelsea.
Gli intensi toni drammatici dell’incontro fra inglesi e tedeschi caratterizzarono anche la prima frazione del­la sfida fra Italia e Messico. I padroni di casa passarono in vantaggio al 13′ con Gonzales per uno svarione difensivo degli azzurri, ma Domenghini, il caro «Domingo», rimediava al 25′ con un tiraccio dei suoi, deviato da Pena nella propria rete. Gli italiani prevalevano sul piano della manovra, ma non riuscivano a concretare l’apparente superiorità fino al 63′ quando Riva realizzava la rete del vantaggio, imitato 7′ più tardi da Rivera che aveva rilevato Mazzola, in quella che era ormai diventata la famigerata «staffetta». Riva chiudeva poi il discorso al 76′: 4-1, gli azzurri staccavano il biglietto per la semifinale con la Germania.
Intanto a Messico City, l’Uruguay prevaleva sull’URSS per 1-0 dopo i supplementari e a Guadalajara, capitale dello stato di Jalisco, il festival sudamericano fra Brasile e Perù si concludeva con la vittoria degli «auriverdi» per 4-2. A nulla valsero gli accorgimenti tattici di Didi e il talento di Chumpitaz, l’eclettismo di Cubillas e la tenacia di Sotil, se non a presentarli come elementi pronti ad entrare nella legione straniera del pallone come avvenne per Sotil passato poi al Barcellona e Cubillas che giocherà in Europa per Basilea e Porto. I brasiliani giocarono una delle loro migliori partite e Tostao, per due volte, Rivellino e Jairzinho centrarono la porta del pur eccellente Rubinas. Tre delle quattro semifinaliste vantavano i titoli per appropriarsi definitivamente della Coppa Rimet che era in palio oramai da quaranta anni: Uruguay, Brasile e Italia.

30′ da infarto all’Azteca

La Germania di Schoen che si apprestava ad incontrare l’Italia era squadra fortissima sul piano atletico, e questa era una ca­ratteristica comune a tutte le rappresentative che avevano onorato negli anni il calcio tedesco ma questa vantava un «sur­plus» di classe internazionale che la rendeva oltremodo ostica a qualsiasi avversario. Maier era un «torhüter» nettamente superiore alla media, Vogts, un masti­no indomabile, Beckenbauer il tocco di classe, con Overath elementi di spiccata personalità tecnica e in avanti alla tenacia e alla abnegazione dell’oramai stagionato Uwe Seeler, Gerd Müller addizionava un opportunissimo stupefacente, una capacità diabolica di essere presente là dove era la palla buona da scaraventare in rete. Qualcuno definì Müller «l’uomo del ralenty» perché certe sue invenzioni nella zona del gol, sfuggivano all’identificazione immediata, solo la  «moviola» rallentandone i movimenti, rendeva giustizia al suo fiuto innato, al suo essere sempre in agguato come una vera «tigre» dell’area di rigore. Le due formazioni vennero schierate al meglio: Albertosi; Burgnich Facchetti; Bertini Rosato Cera; Domenghini Mazzola Boninsegna De Sisti Riva e Maier; Vogts Patzke; Schnellinger Schultz Beckenbauer; Grabowski Overath Seeler Müller Lohr. Dopo appena 8′ l’arbitro messicano Yamasaki annotava la rete del vantaggio azzurro: Boninsegna, il magnifico «Bonimba», realizzava con un tiro preciso alla destra di Maier e per tutto il primo tempo l’incontro denunciava un andamento alterno, in cui gli azzurri avrebbero potuto raddoppiare e i tedeschi raggiungere il pareggio. Nella ripresa Valcareggi ordinò a Mazzola di passare il testimone a Rivera, la formazione italiana perdeva consistenza a centrocampo, mentre l’iniziativa dei tedeschi si faceva sempre più pressante. Al 90′ il libero milanista Schnellinger, in proiezione offensiva, raccoglieva un centro nel cuore della della difesa azzurra e batteva Albertosi. I tempi supplementa­ri risultarono quanto di più drammatico si potesse immaginare su un campo di calcio. Beckenbauer era costretto a giocare con un braccio al collo, le energie cominciavano ad affievo­lire, eppure quella mezz’ora di grande calcio, senza più schemi e calcoli speculativi, meritò una lapide a ricordo su una parete dell’Azteca. Una successione di colpi di scena rendeva oltremodo drammatico lo scorrere dei minuti: al 94′ Müller portava in vantaggio i tedeschi e per gli azzurri sembrava finita, ma pareggiava Burgnich (sic) sugli sviluppi di una punizione al 98′ e poi Gigi Riva, 5′ più tardi ri­portava in vantaggio i nostri con il gol più bello delle semifina­li. Ancora Müller pareggiava al 109′ con un sussulto d’orgoglio, ma un minuto dopo una prolun­gata azione di Boninsegna sulla sinistra travolgeva gli sbarramenti difensivi dei «bianchi», la palla perveniva sul centro e Rivera con un colpo calibrato la collocava alle spalle di Maier preso in controtempo. Era la fine! 4-3, gli ultimi 10′ passarono lentissimi a scandire il trionfo degli azzurri e ad appesantire le coronarie di tutti gli italiani che assistevano all’incontro.
Contemporaneamente a Guadalajara si giocava l’altra semifinale. L’Uruguay era arrivato alla porta delle semifinali senza grandi clamori. Aveva battuto Israele (2-0), pareggiato a reti bianche con gli azzurri, perduto di misura dalla Svezia (0-1), la celeste passava ai «quarti» e superava l’URSS con una rete di Esparrago, Il tecnico Hobherg protrattasi nel tempo l’indisposizione di Rocha aveva accentuato le caratteristiche difensive dell’«equipo» che giocava in contropiede ed irretiva gli avversari in un centrocampo fitto, dalla manovra lenta e dilatoria. Si trovò a disagio anche il Brasile che Zagalo aveva mantenuto nella formazione che aveva sconfitto l’Inghilterra. Sulla carta Hobherg aveva presentato una «celeste» a 4-3-3 con: Mazurkiewicz; Ancheta Matosas Ubinas Montero Castillo; Mujca Fontes Cortes; Cubilla Maneiro Morales, ma alla prova dei fatti dopo che Cubilla aveva portato in vantaggio gli uruguagi al 18′ le distanze fra i reparti si erano accorciate nel tentativo di controllare il gioco, le maglie difensive invischiavano la manovra degli «auriverdi», la «selecao» sembrava impigliata in una rete dalla quale non riusciva a liberarsi. Poi nel recupero della prima frazione Clodoaldo riuscì a perforare il dispositivo e quan­do la fatica dei supplementari con l’URSS cominciò ad affiorare nei muscoli degli uruguagi, a 15′ dalla fine Jairzinho trafiggeva Mazurkiewicz e Rivellino, arrotondava il punteggio ad un minuto dal termine. Brasile e Italia si sarebbero quindi disputate il possesso definitivo della Coppa Rimet.

Un Re per tutti

Gli azzurri arrivarono alla finale con i muscoli avvelenati dai supplementari con la Germania e con l’appagamento del risulta­to così inaspettatamente raggiunto. Valcareggi, soddisfatto della sperimentata staffetta insisteva sulla formazione iniziale così concepita: Albertosi, Burgnich Facchetti; Bertini Rosato Cera; Domenghini Mazzola Boninsegna De Sisti Riva con Rivera pronto in panchina. Zagalo confermava la formazione storica: Felix; Car­los Alberto, Brito, Piazza, Everaldo; Gerson Clodoaldo; Jairzinho Tostao Pelé Rivelino. Glockner fischiò l’inizio alle 12 di quel 21 Giugno, Italia e Brasile paraliz­zate davanti al video. Gli azzurri si disponevano nella marcatura a uomo: Bertini su Pelé, Fac­chetti, Burgnich e Rosato rispettivamente su Jairzinho, Rivelino, e Tostao, gli «auriverdi» non avevano di questi problemi pedestri, marcavano a zona. Valcareggi aveva predisposto un filtro efficace sulla trequarti ma gli azzurri giocavano come frenati, attenti solo a rompere le eleganti manovre che la vocazione offensiva dei brasiliani comincia­va ad ispirare. Al 18′ Pelé s’ele­vò a colpire una palla arrivatagli dalla sinistra. Parve attendere, sollevato in aria, quella palla che con un colpo di testa, come una mazzata si spense in rete alla spalle di Albertosi. Formidabile! Gli azzurri non ebbero reazioni particolari, riuscirono a pareggiare al 37′ grazie ad uno svarione di Everaldo prontamente sfruttato da Boninsegna, ma il fatto apparve episodico, il Brasile continuava a premere mentre la resistenza dei nostri affievoliva e saltavano gli sbarramenti che Valcareggi aveva sapientemente predisposto. Segnarono ancora Gerson al 65′, con un tiro di rara bellezza scagliato dal limite dei sedici metri, Jairzinho al 70′, cogliendo la nostra difesa ormai sulle ginocchia e Carlos Alberto all’86’ nella più bella manovra di tutta la partita: Clodoaldo si libera in dribbling sul centrocampo e smista a Jairzinho che cerca Pelé; «O Rey» controlla e apre magnificamente sulla destra dove sta avventandosi Carlos Alberto; il tiro è violento e preciso, Albertosi è battuto. Finisce 4-1 fra il tripudio dei brasiliani e dell’immenso pubblico – 105.000 spettatori – che ha assistito all’incontro. Pelé è in trionfo è l’apoteosi del calcio offensivo, il Brasile ha vinto, Pelé è stato una volta di più il Re del «mondo del pallone» e quando Carlos Alberto eleva al cielo la statuetta che Jules Rimet aveva messo in palio nel 1930, l’Azteca esplode nell’osanna ai vincitori. Ma abbiamo lasciato in chiusura un particolare che incise profondamente negli avvenimenti successivi delle cose di casa nostra. Valcareggi forse trasportato dalle emozioni del momento, oppure travolto dalla evidente superiorità dei brasiliani, si accorse di avere Rivera in panchina a soli 6′ dal termine quando ormai il risultato era fissato sull’1-3 e lo mandò in campo a sostituire Mazzola. Qualcuno giudicò l’avvenimento come un affronto e tanta fu l’abilità di una certa stampa, che riuscì ad insinuare il dubbio che con Rivera in campo fin dall’inizio avremmo potuto disporre dei brasiliani, come un Messico qualsiasi. E fu questa ignobile partigianeria che innestò l’ancora più ignobile accoglienza che fu riservata agli azzurri quando rimisero piede sul suolo patrio, con l’incredibile processo davanti alla TV e le cariche della polizia a disperdere i facinorosi intenzionati a bastonare chi aveva tanto malignamente attentato al prestigio del «golden boy». Un’ avventura che aveva riportato il nostro calcio a livelli inusuali da più di un trentennio, finiva in una farsa indegna di un paese civile. Il ritorno in patria dei nostri si chiudeva con una pagina amara da dimenticare in fretta. Nessuno nelle condizioni ambientali di Città del Messico, sarebbe riuscito a far meglio di quanto fecero gli azzurri contro il Brasile di Pelè in quell’occasione.

Fonte: Mondogol, Supplemento al Guerin Sportivo n.29 del 19 Luglio 1978

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