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LA PIÙ BELLA DEL MONDO

Nel trionfo degli azzurri al «Mundial 82» (il primo dell'era moderna) si mescolano varie componenti: atletiche, tecniche e tattiche, ma soprattutto una virtù di comportamento che ci ha reso la squadra più ammirata

di Adalberto Bortolotti

MADRID. Abbiamo la squadra più bella del mondo. Vecchio tempio consacrato al dio calcio, il Santiago Bernabeu innalza la pattuglia azzurra, il suo ostinato e coraggioso condottiero, Enzo Bearzot, il suo figliolo perduto e ritrovato, Paolo Rossi, a vertici universali. Era il primo campionato dell’era moderna, aperto a tutti i continenti, centoquattro nazionali al via, ventiquattro nella fase finale. Da una base così massiccia, dimostrazione del significato cosmico che ha assunto il football, è uscito un nome solo, dopo spietata selezione. Nessun dubbio è lecito, neppure ai denigratori sistematici: quest’Italia non ha avuto favori né di sorteggio (il girone di Vigo si è rivelato, alla prova dei fatti, il più qualitativo, avendo espresso la prima e la terza classificata!), né dagli arbitri, né dalla formula. Anzi, proprio un gioco apparentemente infausto della sorte e del complicato meccanismo organizzativo, ha recapitato gli azzurri in un gruppo proibitivo, a livello di seconda fase: l’Argentina campione del mondo, il Brasile superfavorito e un solo posto a disposizione. Gli azzurri hanno battuto prima l’una e poi l’altra potenza sudamericana, hanno ritrovato in semifinale la Polonia e l’hanno schiantata, sono arrivati all’ultimo atto contro la formidabile Germania «europea», sicuramente artefice di un cammino meno faticoso. E qui, contro i temutissimi panzer dalle infinite risorse atletiche, l’Italia è uscita imperiosamente alla distanza. Umiliando i rivali sul piano della resistenza allo sforzo, della potenza fisica, del coraggio e della determinazione. Che spettacolo vedere il piccolo Conti inginocchiare il ferrigno Briegel, una montagna di muscoli bene allenati, una macchina da guerra costruita per travolgere tutto e tutti. Conti lo toreava beffardo, così come tutta l’Italia, un po’ alla volta, chiamava gli illustri avversari a caricare col sangue agli occhi per eluderli con suprema eleganza. Il secondo tempo di Madrid ha fatto un falò di luoghi comuni vieti e iniqui, ha brutalmente messo alla sbarra i critici qualunquisti e i tecnici boriosi, quelli che ci fornivano lezioni non richieste, ma sollecitamente recepite da scribacchini di scarsa fantasia. «L’Italia è indietro di cinquant’anni» — proclamava fiero Menotti: e se n’è tornato a casa con tre sconfitte in cinque partite, avendo battuto solo il povero El Salvador (con un rigore fantasma) e la suicida Ungheria, ma avendo beccato dal Belgio, da noi e dal Brasile. «Gli italiani sono la negazione del calcio» dettava ai nostri cronisti in estasi Jock Stein, il profeta della grande Scozia. E, al solito, non ha doppiato il primo turno. Non è un caso che il più pronto a sottolineare (e a temere) il valore del calcio italiano sia risultato Telè Santana, lo sfortunato condottiero di un grandissimo Brasile. Quel Brasile che sarebbe stato sicuramente campione del mondo, se non avesse incontrato, in un assolato pomeriggio del Sarrià, l’Italia dei nostri sogni e il Paolo Rossi delle meraviglie.

QUANDO E COME. Ecco, se vogliamo un po’ d’ordine nei pensieri tumultuanti, possiamo cominciare da lì. L’Italia ha vinto il suo terzo titolo mondiale, il primo — ribadiamo — dell’era moderna, lunedì 5 luglio 1982, alle 18,45 (circa), quando Paolo Rossi ha infilato il suo terzo gol personale nella porta di Waldir Peres. Il Brasile aveva rimontato due volte, l’ultima grazie a una sensazionale prodezza di Paolo Roberto Falcao, a nostro avviso la stella più luminosa del Mundial 82. Il pareggio era sufficiente a Santana per approdare alle semifinali, ma si è mai visto il Brasile difendere passivamente una situazione favorevole? Sul Brasile che si scatenava fiutando goleada, l’agguato di Rossi scattò mortale. E scese la disperazione sulla «torcida» e decollarono i sogni proibiti in casa azzurra. Altre scadenze fondamentali ha avuto il trionfo italiano. Ma la pietra miliare fu posta quel giorno. Nessun altro degli avversari incontrati prima e dopo, né l’Argentina, né la Polonia, né la stessa Germania, erano lontanamente paragonabili, in linea tecnica, al Brasile. Averlo tolto direttamente di mezzo, in un affascinante testa-a-testa che poteva chiudersi con ancor più nitido risalto (vedi il 4-2 negato assurdamente ad Antognoni) è stato il maggior merito di una squadra, che pure di meriti ne ha collezionati tanti.

IMMAGINE. Ma in questo momento di estasi collettiva, in cui irresistibile appare l’assalto al carro dei vincitori, in cui i critici più astiosi di ieri sono diventati gli impudenti cantori di oggi, in questo momento è giusto sottolineare l’aspetto più edificante della vittoria. Che non è stata solo la dimostrazione di una superiorità tecnica e atletica (sulla quale pure non è lecito dubitare): è stata l’affermazione di un’immagine di serietà, di costanza, di spirito di corpo e di sacrificio. Siamo stati sempre restii a confondere le vicende agonistiche con quelle del Paese, a identificare in una pattuglia di professionisti pagati (il giusto) per vincere o comunque per battersi degnamente, l’anima di una Nazione che ha tanti e più gravi problemi insoluti. Eppure, questa volta, l’Italia calcistica ha reso un grande servigio all’altra Italia: e se ne sono resi ben conto gli uomini politici più illuminati. L’Italia calcistica ha dato un grande esempio. Squadre altrettanto e forse teoricamente più forti, hanno portato sul campo le loro beghe, le loro stizzose controversie, le loro lacerazioni interne. Così si è dissolto il Belgio, in faide indecorose; così si è inaspettatamente rivelata l’URSS (ah, Blokhin…), così ha mancato l’ultimo sprint la Germania, litigando in campo, contestando apertamente (vero, Stielike?) le decisioni del tecnico. L’Italia è stata uno splendido monolite, l’esaltazione del tutti per uno e uno per tutti. Che bello vedere i compagni affannarsi attorno a Cabrini per consolarlo di un errore che poteva risultare esiziale; che bello riscontrare la perfetta comunanza dei giocatori con Bearzot, al di fuori e al di sopra degli interessi di parte… L’Italia, prima che campione del mondo di calcio, si è laureata campione del mondo di serietà e di comportamento, ci ha fatto inorgoglire e, insieme, pentire di certi atteggiamenti (anche se qui ognuno deve parlare per sé e assumersi le proprie personali responsabilità). Questa Italia, quando ha avvertito il pericolo degli influssi esterni, si è chiusa in se stessa, ha sbarrato le porte, ha opposto un dignitoso silenzio alle strumentalizzazioni. Si è esposta alle critiche e alle feroci ironìe, ben sapendo che soltanto i risultati avrebbero potuto salvarla. È stata una scelta, prima ancora che coraggiosa, rischiosa ma consapevole. Ora è facile parlare e unire il proprio ipocrita evviva al coro degli osanna. Ma chi invita a specchiarsi negli azzurri vittoriosi, dovrebbe avere anche l’onestà di rileggere le accuse che gli aveva rovesciato addosso, al momento in cui i ragazzi di Bearzot avevano scelto di cucirsi la bocca.

TECNICA E TATTICA. Non si diventa, comunque, campioni del mondo rifiutando le interviste (anche se la cosa può aiutare, come si è visto). Lo si diventa superando gli avversari sul piano fisico, tecnico e tattico. Bearzot è stato crocefisso per non aver voluto, accanto a sé, un preparatore atletico specializzato. L’Italia ha chiuso il Mundial avendo in corpo il doppio di «birra» rispetto agli avversari. Contro Polonia e Germania, gli azzurri sono usciti imperiosamente alla distanza, stroncando i rivali sul fondo. E allora? lungi da noi la tentazione di respingere il progresso: ma in una competizione stressante come un mondiale a ventiquattro squadre si corre più con la convinzione, con la fiducia in se stessi, col ricorso ai famosi attributi, che con le tabelle del training moderno. Tattica. Anche chi ha sempre sostenuto Bearzot, gli ha imputato una mancanza di fantasia, il ricorso sistematico allo stesso schema, possibilmente con gli stessi uomini. In Spagna, Enzo è stato una rivelazione (e ci fa piacere che sia entrato nel cuore della gente, uno striscione azzurro al Bernabeu proclamava: e Bearzot creò l’Italia). Ha giocato con rigorose marcature a uomo contro l’Argentina. Ovvio, l’Argentina ha quattro-cinque campioni e molte mediocrità. Fermati gli uomini-chiave il gioco è fatto. Temevamo la ripetizione dello schema contro il Brasile, sarebbe stato un suicidio. Ed ecco l’idea geniale (sì, perché no?) della staffetta sulle fasce laterali, Oriali e Conti sulla destra, Cabrini e Graziani sulla sinistra, uno sbarramento mobile, a zona, per fermare l’attaccante esterno e insieme il terzino in avanzata. Con la variante di Gentile, fisso a uomo su Zico. Infine, contro la Germania, il difensore in più, Bergomi, per tenere Cabrini ancora in zona e per rispondere senza traumi alla prevista mossa di Derwall di inserire un altro attaccante nella fase finale. Una mossa che aveva mandato in barca la Francia già vittoriosa, ma che contro l’Italia è naufragata miseramente. Dopo di che, ci toccherà sentire ancora Herrera blaterare davanti a compiacenti telecamere che Bearzot non è un allenatore di calcio, fra i sorrisetti degli astanti. Vecchio mago, ma quando ne azzeccherai una? Ci avevi dato per morti in Argentina, qui avevi vaticinato che non avremmo passato il primo turno (Camerun e Perù i suoi favoriti, complimenti) e siamo diventati campioni del mondo. Preconizzaci altre disgrazie, per favore.

LA DIFFERENZA. E per finire, vogliamo anche dire chi ha fatto realmente la differenza fra l’Italia moscia di Vigo e l’Italia straripante di Barcellona e di Madrid? Vogliamo dire che, nel calcio moderno, nove volte su dieci vince chi ha un giocatore in attacco capace di cogliere al volo le occasioni e di metterle dentro con più facilità degli altri? Oh, Paolino, che rivincita. Appena uscito dall’ideale galera, eccoti campione del mondo e capocannoniere assoluto, davanti a gente che si chiama Rummenigge, Zico, Boniek. Dio, come deve essere bello tornare in sella senza dover ringraziare nessuno, anzi. Sei gol nelle ultime tre partite, quelle che contano. «Pichichi» del Mundial, come dicono qui in Spagna, gli azzurri. Ma anche gli altri saranno d’accordo che Bearzot e Rossi hanno vinto un pochino di più.

Guerin Sportivo n. 28, 14-20 Luglio 1982

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