di Gianni Brera
Dal 1966-67 il calcio italiano si chiama Riva: per i suoi gol ha vinto un campionato d’Europa nel ’68 ed ha potuto qualificarsi ai mondiali nel 70. Riva è stato battezzato come Luigi a Leggiuno, dov’è nato, il 7 novembre 1944. Oggi lo chiamano Gigi, che è una patente offesa al suo eroismo di atleta. Per ovviare a questo equivoco grottesco mi sono ingegnato di trovargli soprannomi un po’ enfatici ma schietti come «Rombo di tuono» e «Re Brenno». Normalmente lo chiamo Luis o anche Luison, che ha senso vezzeggiativo come in francese. Qualche volta mi accade di parafrasare i sardi unendo nome e cognome in un Gigirriva che almeno ha il pregio di evitare il lezio di Gigi, vezzeggiativo adatto persino a Didì, un negro che arrossisce (!) per timidezza, non certo a Rombo di tuono.
Gigirriva è stato acquistato appena diciassettenne dal Cagliari per 37 milioni. Era in forza al Legnano e giocava ala sinistra-centravanti. Era magro e ossuto, con due occhi spiritati e una bocca dal taglio amaro. Il padre gli era morto quando era ancora bambino. La madre non poteva da sola mantenere lui e due sorelle appena più grandi. Luis ha conosciuto lo squallore di certi collegi per orfani a Milano e Varese. Quando è potuto tornare a casa si è messo a fare il meccanico e proprio nel calcio ha trovato sfogo al suo malinconico orgoglio. Come tutti gli uomini di acque interne, poveri per giunta, Luis si è pure provato a vivere da primitivo: ha remato su barche fradice e teso reti da bracconiere; ha aspettato le «freghe» dei persici e dei pighi; ha riempito ceste di alborelle ubriache d’amore. Ha vissuto con il suo lago e con la sua terra finché non l’hanno convinto a farsi pedatore di ventura. A Legnano viveva una sua sorella sposata. Non ha avuto subito l’impressione di andarsene ramingo per i campi del calcio minore. Il Legnano militava in Serie C.
Il nome di Riva era stato fatto anche all’Inter, che a visionarlo aveva mandato Benito Lorenzi. Le relazioni di Benito non debbono essere state entusiaste. Giudicato sul tocco di palla, Luis era piuttosto deludente. I vecchi giocatori dotati di stile non sanno prescindere dai modi. E spesso — per mera ignoranza — commettono equivoco fra classe ed eleganza di gesti. Luis era tutto da fare come uomo, figuriamoci come atleta. Aveva due larghe spalle e collo abbastanza lungo per escludere che fosse tipo apoplettico; aveva anche sottili e gambe lunghe e ben muscolate da normotipo vicino al longilineo.
Benito Lorenzi deve aver considerato che era mancino puro e che si serviva del destro come di una stampella. Curioso come i destri abbiano in uggia i mancini! Che un giocatore tocchi solo di destro è considerato perfettamente normale; se invece si serve in prevalenza del sinistro, allora è un fenomeno o un brocco. Luis non era ancora un fenomeno ma sicuramente non era un brocco: tuttavia l’Inter l’ha lasciato andare. L’hanno poi visto i tecnici ufficiali e l’hanno convocato nella Nazionale juniores, ma poteva la magna Inter sconfessare un suo osservatore di fiducia? Così l’ha acquistato il Cagliari dì Silvestri, appena promosso alla Serie B.
A sua volta Mondein Fabbri ha creduto a Silvestri ma non a Gigirriva. L’ha portato con sé in Finlandia e l’ha fatto anche giocare a Budapest, sulla via del ritorno. La partita di Budapest è stata perduta dagli abatini Rivera e Mazzola, che hanno sprecato facili palle-gol. A Riva non è mai toccato più di qualche pallone marcio. Era da lanciare, invece, con lunghi cross dalla destra, e che se ne andasse di corsa a concludere in gol.
Era il giugno del ’65. L’anno dopo si sarebbero disputati i mondiali in Inghilterra. Mondino Fabbri ci ripropose Gigirriva in un incontro amichevole con la Francia. Giocavano interni Rivera e Corso; era centravanti Mazzola. I francesi valevano meno di sempre ma è stato egualmente 0-0. Rivera e Corso si attardavano sulla palla come danzerini vogliosi di esibirsi. Riva assisteva fremendo ai loro indugi. La palla gli veniva «aperta» solo perché facesse da puntello di rilancio. Invano è scattato due-tre volte a dettare il lancio. Nessuno l’ha mai servito a tempo. E quando l’area avversaria pullulava di avversari era inutile invitarlo a giocar di fino. Non vi era tagliato. Era ancora un ariete da lanciare, uno scattista del contropiede.
Nessuno capì in quell’occasione (o forse lo capirono gli abatini, ormai celebri, e si guardarono dal recepirlo in compagnia) che Gigirriva era un campione fatto. Fabbri lo escluse dalla rosa dei 22 per i mondiali ma ebbe il buon gusto di portarselo dietro «perché imparasse vedendo gli altri». Povero Mondino, povero Gigirriva! «Guardando» gli altri, il ragazzo di Leggiuno avrebbe imparato ad aver paura, a trattenere lo slancio e tirare indietro il piedino. L’attacco della Nazionale era un pianto greco: tutte le punte avevano fifa marcia. Assistendo alle loro esibizioni, Gigirriva faceva ribollire i muscoli della mandibola come usano i matti. Fu dunque un ritorno sotto i pomodori fradici. Avessimo capito Riva, probabilmente saremmo arrivati alle semifinali. Sarebbe bastato servirlo a tempo, con lunghe fiondate. Purtroppo, era senno di poi: e per essere obiettivo non escludo che le umiliazioni rimediate in Inghilterra abbiano giovato a Gigirriva: dopo la Corea, l’Italia si convinse di avere assai poco in pedata: la tesi difensivista prevalse decisamente: la difesa rimase chiusa più di sempre e si cercò il contropiede. Proprio per quello era nato Gigirriva: e giusto applicando il contropiede incentrato su di lui rinacque in tutta decenza il calcio italiano.
Intanto, Cagliari ne aveva fatto un idolo. Viveva in disparte, come un leone orgoglioso. Parlava poco e pochissimo si faceva vedere. Una sorta dì nevrosi lo faceva dormire tardi la notte e tardissimo la mattina. Impose la sua personalità assecondando quei vizi da uomo schivo e indipendente. Si allenava poco eseguendo gli ordini del tecnico; fin troppo seguendo il proprio capriccio.
Nel Cagliari giocavano per lui sapendo bene di giocare per sé. Bastava lanciarlo a tempo; cercarlo a tempo con i traversoni dalla destra. Era temerario acrobata e scattista potente. Il suo tiro sinistro folgorava le reti sibilando omicida a ridosso dei portieri. Arretrava sovente a sostenere la difesa; si aggiungeva al centrocampo; proponeva l’azione e vi rientrava di scatto. Fin troppo lo ammiravano i compagni per poterlo anche amare. Alcuni gli erano devoti come antichi servi di lanza. Altri, semplicemente, lo temevano. Era decisamente un capo, un trascinatore.
Durante un Juventus-Cagliari decisivo per lo scudetto 1970, Riva segnò un gol di quelli che i cronisti sogliono definire « incredibili »: contro la Juventus veniva battuto un angolo dalla destra: Riva si tenne fuori dalla mischia di attaccanti e difensori che si contendevano la palla di testa: lo stacco contemporaneo di tanta gente aggrappolata fece sì che la palla ricadesse vicina: Riva l’accolse con il ginocchio e la toccò oltre: aggirò fulmineo il mucchio e giunse a infilarla di testa prima che il portiere, attonito, intuisse di doverlo precedere in uscita!
Altri gol memorabili vennero da lui ottenuti in acrobazia con balzi airindietro, capovolta in aria e calcio a volo. Gol decisivi segnò sui campi di Cardiff e di Berlino Est, dove nessuno della vecchia guardia abatina avrebbe mai avuto il coraggio di «entrare» allo scoperto. Per un passaggetto molle e avaro di Mazzola si ebbe rotta la caviglia sinistra dal portiere del Portogallo in disperatissima uscita. Guarì durante l’estate, vinse lo scudetto per il Cagliari e conquistò per l’Italia la qualificazione ai mondiali.
L’altura messicana aggiunse disagio aerobico alla greve fatica di una stagione sotto ogni aspetto sensazionale. Non bastasse tutto questo, capitò a Riva di prendere una orribile cotta d’amore. Spese dunque le ultime energie nelle partite di ambientamento. Tanto era apparso grande in quelle partite precampionato, che il commissario tecnico dell’Uruguay non ebbe il coraggio di desiderarlo: «Mi basterebbe Boninsegna — disse — Riva sarebbe troppo!»
I mondiali incominciarono male, malissimo per lui. Si raccattò soltanto dai «quarti»: segnò ottimi gol al Messico e alla Germania. In finale non ebbe un solo pallone decente. La squadra non si reggeva letteralmente. In pratica, Luis era una grosse Berthe senza degni serventi al pezzo.
Rientrò dal Messico con sollievo pari alla stanchezza fisica: ma già in autunno era tornato Rombo di tuono. Giunse a disfare l’Inter a San Siro infliggendo un mortificante tunnel a Vieri. Otto giorni dopo, in amichevole, un terzino austriaco gli stroncava da tergo la caviglia destra.
Fino a quel momento era stato il migliore in campo e l’Italia era avviata a vincere: la seconda frattura di Riva ci tolse ogni gioia. Lo portarono dolorante all’aereo: si parlò di lui come d’un campione finito: ma ancora una volta si dimostrò superiore al nostro stesso tifo ammirato. Guarire fu più arduo: eppure, non volle arrendersi mai. Tornò a segnare gol strepitosi nel Cagliari e in Nazionale.
Il correre male, con la caviglia destra non ancora guarita, gli causò dolori lancinanti: non se ne dolse mai: accettò sempre di scendere in campo e segnò 14 gol per salvare il Cagliari. Non parlò mai di gioco ma di lavoro. Guadagnò tanto da potersi considerare ricco ma badò ad assicurarsi un lavoro per quando avesse appeso le scarpe al chiodo. Aveva incominciato da apprendista meccanico a Leggiuno, avrebbe chiuso da meccanico-padrone a Cagliari.
Donne bellissime ne lusingavano l’orgoglio: saeppe rendere omaggio alla loro bellezza senza compromettere mai la propria libertà di uomo. Nell’imminenza dei mondiali 1974, in Germania, le grandi società padane se lo contendono, ormai trentenne, a miliardi; ma per quest’anno rimane a Cagliari. Tornerà dunque al paìs avendo nel cuore la Sardegna e in Sardegna la maggior parte dei suoi risparmi di ex-povero senza ubbie. A trent’anni si sente ancora giovane per lavorare, come lui dice, a fare dei gol. In maglia azzurra ha già segnato più di tutti, si chiamassero pure Piola e Meazza. In questi ultimi due anni ha soprattutto servito la Nazionale.
Non esiste al mondo goleador famoso che abbia dato, come lui, entrambe le caviglie alla patria pedata.
Al suo coraggio ho dedicato quanto esigeva la mia coscienza di uomo che ha imparato in guerra a conoscere la paura. Chi misconosce la classe di Gigi Riva non sa cosa significhi entrare senza timori in un’area gremita, non sa cosa sia giocare lavorando, li ricordo della miseria è sovente una remora in chi finalmente ha trovato fama e ricchezza. Luis Riva, imperterrito, continua a lanciarsi a dettare passaggi per il gol. La sua mente è lucida come raramente accade nei lottatori della sua tempra. La trans agonistica non lo fa mai uscire di senno. Proprio questo, se mi si crede, è l’eroe.