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The Truman Show | Recensioni

The Truman Show è un film del 1998 diretto da Peter Weir. La pellicola è una satira fantascientifica, ispirata parzialmente a un episodio di Ai confini della realtà, alla vita di Michael Jackson, a diverse idee ed intuizioni sviluppate dallo scrittore Philip K. Dick nel suo romanzo Tempo fuor di sesto e dalla allora nascente moda di raccontare la vita in televisione attraverso i reality show.
The Truman Show

Truman Burbank è un trentenne apparentemente pieno di vita e sempre sorridente che non sa di essere l’attore protagonista di uno spettacolo televisivo, il Truman Show, un racconto sulla sua stessa vita, ripresa in diretta sin dalla nascita, quando fu prelevato da una gravidanza indesiderata e “adottato” da un’emittente televisiva. Un servizio giornalistico spiega l’antefatto attraverso un’intervista a Christof, il regista-demiurgo dello spettacolo, che illustra il successo dello show ottenuto in tutto il mondo. Una serie di flashback sui ricordi di Truman, alternati con la visione di alcuni telespettatori del mondo reale mentre guardano, più o meno con interesse, il programma, illustra le fasi della vita del protagonista.

Sull’isolotto su cui abita, Seahaven, il giorno e la notte sono artificiali, così come il mare e tutti i fenomeni atmosferici; in realtà si tratta di un gigantesco studio televisivo dove nella cupola del finto cielo dirige lo show il regista Christof, come una sorta di trascendente burattinaio. Tutte le persone che Truman incontra e con le quali si relaziona sono degli attori, compresi i genitori, l’amico Marlon e sua moglie Meryl, che hanno lo scopo di manipolare e pianificare, secondo le esigenze della produzione con cui sono in contatto per via di microfoni, la vita di Truman (oltre che a commercializzare i prodotti del programma, che generano cospicue entrate). Con l’avvicinarsi del trentesimo anniversario della trasmissione Truman, che già percepisce un senso di estraniazione nella sua vita, apparentemente tranquilla e agiata, inizia a dubitare della realtà in cui vive quando incominciano ad accadere strani avvenimenti come la caduta dal cielo di un faro di proiezione (dovuta al fatto che con il passare del tempo, il set si sta deteriorando) o l’intercettazione da parte della sua radio di un canale di comunicazione che segue i suoi movimenti.

Truman comincia a vedere i suoi affetti più cari, genitori, moglie e amico del cuore, scolorire nei volti di perfetti estranei e cerca allora conferme alla sua vita reale riguardando le vecchie fotografie di famiglia che, però, non esauriscono i suoi dubbi e non calmano la sua crescente irrequietezza che si traduce in un desiderio di evadere verso un luogo lontano. Questa voglia di fuga, incompatibile con il programma televisivo, mette in difficoltà sempre maggiore gli sceneggiatori e gli attori del cast, che si vedono costretti a inventare nuove soluzioni per impedirgli di allontanarsi dall’isola e scoprire la verità. Alcuni inconvenienti tecnici, uniti alle gaffe di alcune comparse, che lasciano intendere come sia una finzione o lo chiamano per nome pur non conoscendolo, trasformano presto i sospetti di Truman in certezza; il comportamento sempre più irrequieto e imprevedibile di Truman manda in crisi Meryl, che dopo essere stata quasi costretta dal marito a dirgli la verità, viene fatta uscire di scena dalla produzione.

Truman rilegge, alla luce della verità che gli si va rivelando, alcuni episodi della sua giovinezza, tra i quali l’incontro con una ragazza, Lauren, che, nello show, aveva il ruolo di una comparsa silenziosa e di cui Truman si era subito innamorato. Lauren, che aveva avvertito Truman che non le era permesso di parlare con lui, si era anche lei innamorata e aveva provato sdegno e compassione per la condizione in cui veniva fatto vivere; cercò quindi di rivelargli la realtà ribellandosi all’omertà dello staff che la allontanò in modo forzoso dal programma (in seguito a ciò, nella vita reale la ragazza darà inizio alla campagna “Liberate Truman”, un movimento da lei ideato per ottenere la liberazione di Truman dal set-prigione dello spettacolo) . A Truman, che dovrà sposare l’attrice più adatta alle esigenze dello spettacolo, si dirà che Lauren era una schizofrenica e che è dovuta partire per un trasferimento della sua famiglia alle isole Figi. Truman tuttavia non smetterà mai di pensare a lei e di sperare di arrivare alle Figi, nonostante gli venga fatto credere che quelle esotiche isole si trovino in capo al mondo.

Il protagonista si avvicina sempre più alla realtà quando in una delle comparse riconosce suo padre, che secondo il copione era annegato durante una gita in mare con lui da giovane; in realtà l’episodio era stato un espediente per inculcargli la paura dell’acqua e non farlo allontanare mai dall’isola. Christof, per risolvere la situazione e placare l’animo di Truman, alla fine lo fa riunire con il padre reintegrandolo nello show (con il pretesto che in seguito all’incidente ha avuto un’amnesia), apparentemente ponendo fine alla sua crisi e iniziando a preparare il prossimo arco narrativo dello show.

La situazione tuttavia, che dopo un po’ di tempo sembra essere all’apparenza tornata sotto controllo, in realtà è ormai precipitata e Truman, dopo aver eluso la sorveglianza dei membri della troupe e del cast scavandosi un tunnel dal seminterrato di casa sua, si avventura su una piccola barca nel finto mare che inutilmente Christof fa sconvolgere da una tempesta, mettendo a rischio la stessa vita del suo personaggio. Quando il regista si rende conto che ormai Truman ha scoperto la verità ed è disposto anche a morire pur di far cessare la farsa, decide di interrompere la tempesta e, parlandogli direttamente dal cielo della scenografia televisiva, cerca di convincerlo che la finta vita del colorato set televisivo sia molto migliore e più vera di quella grigia della vita reale.

Truman tuttavia non cade nella tentazione e al falso Eden preferisce la cruda verità. Truman dunque, ormai giunto all’uscita dell’enorme set, dopo aver salutato scherzosamente un’ultima volta il suo pubblico con il suo tormentone «Casomai non vi rivedessi… buon pomeriggio, buonasera e buonanotte!», si avvia verso la vera vita. Sylvia (il vero nome di Lauren), la ragazza “ribelle” di cui si era innamorato tempo addietro, felice per la scelta del giovane si precipita a incontrarlo, mentre i telespettatori di tutto il mondo esultano per la scelta di Truman. Sconfitti, i supervisori di Christof terminano finalmente il programma con un’inquadratura della porta aperta, e gli ex spettatori del Truman Show, con nonchalance, iniziano a cercare qualcos’altro da guardare in TV.

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La Stampa (25/9/1998)
Lietta Tornabuoni

(…) The Truman Show, scritto da Andrew Niccol, diretto da Peter Weir, interpretato meravigliosamente da Jim Carrey, realizzato con molta intelligenza, divertimento e perfezione produttiva, è un gran film. Ma non è uno di quei film in cui la televisione è il diavolo condizionante e la fonte d’ogni male, non somiglia a tutti i film anti-tv visti nell’ultima stagione: Mad City di Costa Gavras (un minimo episodio diventa tragedia per colpa della tv), Sesso e potere di Barry Levinson (la tv serve a inventare una guerra Usa-Albania intesa a distogliere l’attenzione dai pasticci sessuali del Presidente), La seconda guerra civile americana di Joe Dante (la tv amplifica e dilata un dissenso sino a farne un conflitto fratricida) e persino la Bond-storia Il domani non muore mai di Roger Spottiswoode (un teleimperatore dell’informazione è pronto a scatenare una guerra tra Inghilterra e Cina pur d’assicurarsene lo scoop e di conquistare la massima audience mondiale). The Truman Show è diverso: una metafora delle nostre vite prigioniere e mistificate, mutilate e ripetitive, delle nostre rivolte momentanee e velleitarie, più rispecchiate che condizionate dalla tv; una satira della «normalità» tanto desiderata e mai raggiunta, di rapporti umani formali e alienati, del bisogno paranoide di routine, di protezione. E un bersaglio, naturalmente, è la tv dei «casi umani» e delle confessioni personali che vuol imitare e riesce a svalutare la vita con la fiction del dolore e dei sentimenti “veri”, “veramente accaduti”, “in diretta”. Nel suo mondo fuori del mondo, fittizio, simulato, Truman avverte tuttavia un allarme : minimi segni gli fanno sospettare d’essere spiato e controllato, vuol lasciare la città, viaggiare, esplorare, conoscere, raggiungere il sempre sognato paradiso esotico delle isole Fiji. Tenta di fuggire, ma i mezzi di trasporto della città finta non portano da nessuna parte. Resiste alle lusinghe del suo creatore Ed Harris («Nel mio mondo tu non hai niente da temere, è il mondo esterno ad essere malato e falso, io ti ho dato la possibilità di una vita normale»), arriva a evadere applaudito come un eroe dai telespettatori entusiasti che hanno seguito con ansia la sua fuga. Ma lo spettacolo della vita è finito, i fans di Truman sono già oltre : «Cosa danno adesso in tv?». Le idee del film, semplici e suggestive, non sono di Peter Weir, ma il regista australiano cinquantenne de Gli anni spezzati, Un anno vissuto pericolosamente, L’attimo fuggente, ne dà una messa in scena perfetta: l’instabile equilibrio tra vero e falso, la ricostruzione della piccola città alla maniera d’un Norman Rockwell aggiomato, la misura imposta a un Jim Carrey strepitoso, il divertimento ambiguo impresso alla stoffa sono davvero ammirevoli.

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Corriere della Sera (26/9/1998)
Tullio Kezich

Odio da sempre i film «adatti per dibattito», quelli dal contenuto impositivo; e così, mal disposto dal frastornante polverone giornalistico sui malanni che comporta la Tv, ho rischiato di non andare a vedere The Truman Show. Avrei fatto malissimo perché il film di Peter Weir è uno dei pochi (peso le parole) che oggi giustificano l’esistenza del cinema. Sulle note rasserenanti del mozartiano «Rondò alla turca», Truman vive ignaro da trent’anni a beneficio dell’audience sotto l’occhio di cinquemila telecamere in un borgo dove ogni cosa è finta e tutti sono attori. (…) Nel geniale copione di Andrew Niccol, che fa da supporto all’impeccabile messa in scena, si rispecchiano con allarmata ironia i rischi dell’immersione di noi tutti nell’irrealtà dell’universo televisivo. Però questo mi sembra solo il travestimento scelto dagli autori per affrontare il maggiore tema del XX secolo, il conflitto fra il totalitarismo e la libertà individuale. Infatti nella raffigurazione inquietante di Ed Harris, Christof è una sorta di Stalin insieme padre e carceriere dei suoi popoli. Nel reagire ad un’alienazione che è il prodotto congiunto di troppe imposizioni e lusinghe, Truman rinfresca il messaggio dell’individualismo «all american» e il sorprendente Jim Carrey, docile strumento nel disegno della regia, si afferma come discendente in linea diretta degli stralunati eroi di Capra. L’immagine archetipica del protagonista in cerca della porticina nel grande muro bianco che circonda la sua irreale esistenza avrebbe suscitato chissà quali riflessioni in C. G. Jung e suscitato l’invidia di Fellini.

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Film TV (10/1/1998)
Emanuela Martini

Fin troppo facile dire: “Orwell” (anche se il personaggio di Ed Harris assomiglia non poco al Grande Fratello). In realtà, Truman Show è una sintesi di alcune delle più suggestive ipotesi socio- apocalittico-post-industriali del cinema e della letteratura di fantascienza (o quasi), da Robert Sheckley a La città magica di William Wellman (scritto dallo sceneggiatore abituale di Capra, Robert Riskin) alle amare antiutopie di Frank Capra (in testa a tutte, La vita è meravigliosa) e successive imitazioni. E, soprattutto, una rilettura (alleggerita nei toni e, perciò, modernizzata) di un bel romanzo di Philip Dick, “Time Out of Joint” (intitolato “L’uomo dei giochi a premio” in un vecchio Urania). Identici i presupposti (la cittadina dèmodè e “capriana”, costruita su misura per un protagonista che la salvezza o la felicità del mondo costringono a un’inconsapevole parte, una vita, oggetti, una famiglia ad hoc, attori per interpretare gli altri ruoli), identiche le prime “distorsioni” della realtà (via antenna radio), i flash inspiegabili della memoria, le telefonate a vuoto fuori dai confini urbani e i tentativi di fuga del protagonista, su strade chiuse da improvvisi blocchi, su autobus che non partono o non portano da nessuna parte. Nel romanzo di Dick, il protagonista doveva restare in città per continuare ad azzeccare le risposte di un quiz a premi quotidiano e neutralizzare così le bombe lanciate da una colonia di ribelli extraterrestri; qui, Truman Burbank deve semplicemente garantire la felice ipnosi televisiva degli spettatori di tutto il mondo, che da trent’anni seguono la soap della sua vita, trasmessa in diretta ventiquattr’ore su ventiquattro. Uno scopo piccolo piccolo, quasi inutile, che nel film rende la condanna di Truman ancora più terribile. Uomini di buone letture, il regista Peter Weir e lo sceneggiatore Andrew Niccol sono anche abili uomini di cinema, e costruiscono un apologo bello e ricco, che sfugge alle trappole della retorica, trasformando il dèjà-vu in uno specchio inquietante del nostro immaginario, e ci trascina dentro la soap, insieme ai telespettatori che vediamo sparsi nelle case, nei locali, nei luoghi di lavoro, come corresponsabili, ma, in fondo, anche come vittime recalcitranti. «Buon giorno, buon pomeriggio e, nel caso non ci rivedessimo, buona sera», saluta Truman, gioviale e inconsapevole, all’inizio di ogni sua giornata; e riavvia ogni volta la sua vita perfetta e indolore, colorata con i pastelli squillanti delle soap, immobile su un ideale crinale di paciosa soddisfazione. Una vita dalla quale Christof, il “creatore dello show”, ha bandito i palpiti, cancellando innamoramenti reali e personaggi problematici, costringendo ogni evento nella gabbia della “perfezione” media. Perché viaggiare, correndo il rischio di disastri aerei e malattie esotiche, quando si sta tanto bene a Seaheaven? Perché interrogarsi, sulla morte, su un patire scomparso, su due occhi bellissimi e indimenticabili, sul senso della vita? Christof dirige implacabile telecamere e comparse dall’alto della sua postazione di regia. Ma basta un nulla, un dubbio, un’insofferenza, un accenno di rimpianto di Truman, perché il pubblico della soap cominci a fare sfrenatamente il tifo per lui, a desiderare che riesca a fuggire, capire, soffrire. Il Dio della piattezza e della felicità a ogni costo viene sconfitto dalla comune umanità dell’uomo comune. Un film solidissimo, pieno di idee, autoironia, consapevolezza, dove Jim Carrey ritrova l’imbarazzo spaesato di James Stewart.

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la Repubblica (25/9/1998)
Irene Bignardi

Sarebbe divertente andare a vedere The Truman Show con qualcuno che non solo conosce ma ha addirittura teorizzato la struttura del villaggio globale dell’informazione – in altre parole con Marshall McLuhan. Ma queste cose succedono solo nei film di Woody Allen, e in ogni caso il povero McLuhan è morto da tempo. Immagino però che si sarebbe divertito a vedere l’idea del “villaggio” prendere la bizzarra traduzione fisica che ha in The Truman Show, che si svolge in un improbabile, vezzoso paesotto stile Disneyland (esiste e si chiama Seaside, Florida) coperto da una grande campana di vetro e separato dal resto del mondo dal filtro della televisione. (…) È vero, come non hanno mancato di notare i critici americani, che non tutte le cose cadono perfettamente al loro posto nella pur perfetta sceneggiatura scritta da Andrew Niccol per il bel film di Peter Weir, e che l’allegoria, come tutte le allegorie, ogni tanto si inceppa. Ma The Truman Show è uno dei grandi film americani degli ultimi anni, per la buona ragione che è anche realizzato e girato con suprema eleganza visionaria. Il ritratto che Weir fa della nostra condizione di fruitori e vittime della società dello spettacolo, di voyeur televisivi e di esibizionisti nati, forse eccede qua e là in ambizioni kafkiane – soprattutto quando entra in scena il creatore, regista e inventore dello show (Ed Harris), che opportunamente si chiama Cristof, si prende per Dio, e si ridicolizza con un basco da pensatore esistenzialista – ma mescola in un gustosissimo blend il divertimento alla provocazione intellettuale, lo spettacolo alla malinconia. E il povero Jim Carrey è perfetto, con la sua faccia gommosa da bravo ragazzone americano alla Norman Rockwell, per incarnare l’uomo qualunque diventato la star (inconsapevole) più seguita del mondo, che a poco a poco prende coscienza e si ribella al mistero che lo costringe in un falso idillio, in falsi affetti, persino in piccoli gesti adatti a diventare un break pubblicitario. È anche vero che talvolta i meccanismi e le invenzioni narrative messe in campo dal film (per esempio i sistemi inventati dal “creatore” dello show per dissuadere Truman dall’andarsene da Seahaven) sono più brillanti e più appassionanti della vita del protagonista. Ma nonostante i piccoli nei, The Truman Show è un meccanismo a orologeria, una sofisticatissima satira dell’American Way of Life: a partire dal sogno urbanistico-sociologico di Seaside che, con doppio salto mortale, Weir prende dalla realtà, facendone lo sfondo apparentemente falso del suo piccolo mondo televisivo, per finire al fatto che la vita di Truman Burbank – quella che tutti, nei bar, nelle case, nei drive-in, osservano avidamente, senza perderne una sola ora – è la più noiosa delle esistenze, diventata uno show appassionante per il solo fatto di essere a disposizione di tutti in tv. Proprio come un altro “live show” noioso e privatissimo che ha bloccato il mondo intero per quattro ore lunedì 21 – preceduto, al contrario di The Truman Show che non è per i più giovani solo perché troppo complesso, dall’avviso che la trasmissione non era adatta ai bambini.

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l’Unità (26/9/1998)
Alberto Crespi

Ecco il film che «rimarrà» di Venezia ’98: quello che ricorderemo quando, nel prossimo millennio (che dista solo 15 mesi), faremo il conto delle opere che hanno spostato qualche confine nel gusto e nella riflessione sulla settima arte. Quello, insomma, che dovete assolutamente vedere: The Truman Show è un grande film. Probabilmente il migliore nella carriera dell’australiano Peter Weir, ed è significativo – per chi ancora crede alla figura dell’Autore che crea rinchiuso nella sua torre eburnea – che sia arrivato a lui già scritto e pensato, quasi «su commissione». Tutto nasce da un’intelligente sceneggiatura di Andrew Niccol (neo-zelandese, già regista in proprio di un film in qualche modo simile ma molto meno bello: Gattaca) che aveva già avuto il «sì» del divo Jim Carrey, e sarà bene dire subito che Truman Show non sarebbe la stessa cosa senza questo attore dalla faccia di gomma, che qui accoppia per la prima volta il proprio talento ridanciano a momenti che sfiorano il pathos della tragedia. (…) La suspense, che Niccol e Weir reggono in modo quasi miracoloso, sta nel vedere come Truman scopre di vivere in un telefilm, e come nasce il suo desiderio di fuga. La potenza immensa della metafora risiede, più che in Truman, in coloro che lo circondano: nell’attrice che l’ha davvero sposato come una moglie, nell’attore che fa la parte del suo migliore amico da 30 anni insomma in uno show che si è allargato al pianeta e si è identificato con la vita. Un’opera davvero geniale, anche per come alterna ironia e tenerezza: Carrey, come dicevamo, è superbo nel ruolo di Truman, ma la regia di Weir è di assoluta perfezione per come suggerisce sin dalle prime inquadrature l’atmosfera di un mondo dove tutti sono spiati. Dove tutti sono (siamo) Truman.

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il Manifesto (26/9/1998)
Silvana Silvestri

Le prediche, in chiesa o in famiglia, non si sopportano, quelle nei cinema un po’ di più, quando hanno l’astuzia di travestirsi da fiabe incalzanti, nuove di zecca e senza scopi consolatori o moralisti. Ma Hollywood, fabbrica di sogni ossessionata dall’eticamente corretto, qualche volta si mette in discussione, azzarda, scavalca la sua naturale “forma predica” e produce veri e propri viaggi estatici, non sempre controllabili, perfino lisergici e pieni di umorismo. The Truman Show è uno di questi miracoli. E se alla fine fa proprio la pubblicità di ciò che rende così diversa l’America (per esempio ha l’unica costituzione che istiga l’individuo alla ricerca della sua felicità personale, ma poi quando il presidente e la sua piccola amata danno l’esempio apriti cielo), neppure ve ne accorgerete. La particolare atmosfera di questo film, genere fantasy, sottogenere paranoia, nasce dallo scontro/incontro tra il produttore-sceneggiatore Andrew Niccol (il cineasta neozelandese che ha firmato Gattaca, un inquietante e speciale film di fantascienza e il regista australiano Peter Weir, uno dei più originali cantastorie – sa cos’è il suspence – in Thx. Proprio al film del 1971 Thx1138 (L’uomo che fuggì dal futuro) di George Lucas, alla sigla che poi ha dato il nome al sistema di diffusione stereofonica più soddisfacente per le nostre orecchie, The Truman Show si ricollega, nel plot, nel thrilling e nel movimento. Però bisogna aggiungervi: Celebration (la città utopica della Disney in Florida che così tanto furore si è tirato addosso non solo perché è roba da ricchi ma anche perché gli utopisti sono sempre mal visti e invidiati); la televisione e come è diventata oggi, quasi 30 anni dopo Thx1138, pervasiva, una droga sempre più esigente e divoratempo, soprattutto per i poveri inchiodati in casa. Mentre la speciale atmosfera di The Truman Show metà virtuale metà reale, metà aldiqua e metà aldilà, è ottenuta dall’innesto tra surrealismo alla Ricomincio da capo e acquisizione di fissità gioconda alla Gilbert e George, sempre fuori tempo e sempre fuori spazio, completata da una matematica delle emozioni degna di una soap-opera di successo. In Thx e in The Truman Show il soggetto è simile: un uomo cerca di scappare da uno società robotizzata dove impera la sorveglianza totale; dove i sentimenti sono stati sradicati e dove ognuno è ormai quasi la fotocopia dell’altro. Nel film con Robert Duvall e Donald Pleasence però il movimento di fuga dall’insensibilità coatta alle emozioni da riesumare, per quanto dolorose possano essere, era ascensionale, tradizionale, vettistico, dalla terra al cielo. Thx1138 fuggirà con Luh3417… Qui la fuga è invece laica, orizzontale: il mondo non è sotterraneo come nell’incubo di Lucas, ma solare, ridente, la luce è già radiante, la felicità è stampata sui visi, tutto è luccicante, tutto è divertente, tutto è più bello di uno spot. E invece. E appunto. Il mondo è acquatico, come acquatico sembra il cubo elettronico di uno schermo tv che divora completamente. E qui Weir sembra rendere omaggio a Atif Yilmaz, il regista turco amico di Guney, che molti anni fa, prima di tutti, anche di Nichetti, inventò una commedia acida su una donna intrappolata per sempre, come in un incubo buñueliano, da uno spot pubblicitario nel quale era costretta a recitare da casalinga con zuppiera, tutta sorrisi e moine… E sempre di atmosfera da incubo, da 1984, si tratta in The Truman Show (oltretutto quel nome fa molto caccia alle streghe…). Ma l’atmosfera è peggiorata, quanto a paranoia, cinismo, solitudine, rispetto ai pamphlet abituali sulla società di massa alienanti e schiaccia individuo. Qui è proprio l’individuo normale, medio, qualunque, neanche sfruttato, anzi impiegatino con casetta e mogliettina, il super eroe, il soggetto inconsapevole di un programma televisivo in mondovisione che sta seguendo la sua vita, passo passo e fin da cucciolo. E, calpestando ogni diritto alla riservatezza, oltre 5000 telecamere nascoste lo spiano ovunque, senza che solo lui, proprio lui, sia mai stato avvertito che è nato in un gigantesco studio tv formato da un’isola sintetica, da un cielo sintetico e da un ponte sintetico.. È Truman Burbank, l’anti-eroe del film di Weir, impersonato con la usuale maestria da Jim Currey, uno degli attori nordamericani (è canadese) più seri e tecnicamente dotati del momento, che si ha visto morire, molte puntate fa, suo padre inghiottito dai flutti. Ed era un attore. E sparire misteriosamente, improvvisamente, la donna della sua vita, mentre sua moglie continua a scodellargli in faccia jingle pubblicitari a mitraglia perché di sponsor non ce ne sono mai abbastanza. Ciò che la televisione toglie, la televisione restituisce. E Truman, corpo immateriale, capace di comunicare immediatamente col pubblico planetario, ha appercezione e sensibilità acuita. Capisce da un nonnulla dove sta. Ed è incredibile la sua immediata determinazione di fuga dalla vita, dall’unica che conosce. Per andare alle Fiji, o comunque al di là del ponte, nel fuori campo, nel “fuori studio”…azzerando tutti i set mentale faticosamente costruitigli addosso da equipe di sceneggiatori e creativi e committenti pubblicitari. L’uomo tv è pericoloso. E qui Weir e Niccol ci avvertono che il divoratore di tv a tempo pieno non è più l’oggetto manipolabile delle arcaiche società di massa. L’autoritarismo non sa più come prenderlo, convincerlo, portarlo all’azione. Potete bombardarlo mesi e anni con le stesse falsità. Non abbocca. Il “gioco di società” (e di civiltà) Clinton-Lewisky non è casuale che sia coevo a questo film. Scrutare fin nei minimi dettagli scabrosi e riservati della vita di un individuo puro e onesto come Truman (nome di presidente…) è stato come scrutare nelle pulsioni segrete e incomprese di un romantico Presidente e della sua stagista innamorata? Ma Ed Harris, non so Starr, esige l’happy end.

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Sole 24 Ore (3/10/1998)
Luigi Paini

C’è un muro che circonda tutti noi. Una parete invisibile, una “Maginot” virtuale che ci separa da mondi sconosciuti. “Di qui” la nostra vita di tutti i giorni, la famiglia, il lavoro, il divertimento, gli amici; “di là” il mistero, forse il vuoto, oppure, chissà, la pienezza dell’essere, magari l’essenza della vita stessa. Truman (“uomo vero”) Burbank, il protagonista di The Truman Show di Peter Weir (lo interpreta Jim Carrey), è arrivato alla soglia dei trent’anni senza aver mai sospettato dell’esistenza di quel muro. Mogliettina tutta sorrisi e moine, vicini sempre gentili, un lavoro neanche troppo impegnativo, la città-modello in cui abita, Seahaven, così a misura d’uomo che di più non si può. Truman – anche chi non ha ancora visto il film ormai lo sa – è in realtà l’interprete inconsapevole di un’infinita “soap opera”, incentrata sulla sua stessa esistenza, spiata da migliaia di telecamere e trasmessa in diretta in ogni angolo del pianeta. Ha organizzato tutto, fin da prima della sua nascita, il regista Christof (Ed Harris) che, dall’alto della sua postazione demiurgica, ha inventato un gigantesco set in cui tutto è falso tranne, appunto, Truman. Straordinaria metafora, fulminante amore del paradosso portato alle estreme conseguenze. Infiniti livelli di lettura, come si addice al miglior cinema made in Hollywood. Lo spettatore ragazzino può appassionarsi alla trama, immedesimandosi con i tentativi dell’eroe di superare i mille ostacoli posti sul suo cammino dal sadico antagonista. Chiunque può leggervi la divertita e inquietante satira, portata alle estreme conseguenze, di una Tv invadente e livellatrice dei sentimenti, capace di rendere complici di un gioco crudelissimo miliardi di spettatori (Christoph è il gatto, Truman il topo in trappola). Ma questa è ancora la superficie benché, già di per sé, di eccelsa qualità. C’è di più, molto di più. C’è quella parete di cui si diceva, c’è quell’indimenticabile porta che si apre sul buio e sull’abisso. Forse verso una vita mille volte migliore. Ma solo forse.

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Sole 24 Ore (4/10/1998)
Roberto Escobar

“In un film ciascuno ha diritto di vedere quel che vuole”, sostiene Peter Weir. E forse non d’un diritto si tratta, ma di un’apertura, d’un desiderio di vedere. Come dice della realtà quotidiana il demiurgo Christof, di fronte alla verosimiglianza del cinema può accadere dunque che l’apertura e il desiderio si blocchino a una prima lettura, la più immediata. Se così accade, la stoffa di Truman Burbank si riduce a quella d’un prigioniero della cinica pervasività televisiva. Ecco allora che s’accendono polemiche pubbliche sul Grande Fratello elettronico: gli urti a paventarne i pericoli, gli altri a difenderne il buon nome… Per alcuni critici poco conta che ci sia, nello splendido The Truman Show (Usa, 1998), una disperazione che allo spettatore chiede ben altra apertura, ben altro desiderio. Conta invece che il film sia ridotto alla banalità, utile a mantenere la convinzione che non esistano altri mondi dell’intelligenza, del cuore, degli occhi, oltre i confini della piatta Seahaven del senso comune. Insomma, proprio quello che Christof più apprezza. Eppure, bastano i colpi disperati di Truman contro il fondale dipinto della sua città prigione, per suggerire che d’altro si tratti. Quella del network onnipotente è una metafora in senso stretto: una situazione che rimanda al di là di se stessa. Il che non significa che non abbia, già in sé, un valore narrativo. Non c’è dubbio che Seahaven, invenzione televisiva, sia un luogo e anzi il luogo immaginario per milioni di uomini e donne: il luogo in cui essi trovano le immagini che danno valore e forma alle loro vite. Truman è un modello, dice una voce femminile all’inizio del film. Per me, insiste, la sua vita è sacra. Che cosa dà forza la modello, se non il fatto che ci si specchiano milioni di uomini e donne? Che cosa ne fonda la sacralità, se non il fatto che in esso la normalità è trasfigurata in esemplarità? L’umile assicuratore è l’eroe di un mito: alla lettera, d’una biografia o stoffa di vita che illumina e guida milioni di biografie o stoffe di vita (unus pro omnibus, omnes pro uno, si legge su due archi nella prima parte del film; una traduzione libera potrebbe essere: la vita di Truman per le vite di tutti, le vite di tutti nella vita di Truman). Si tratta di un mito creato e sorretto dalla televisione, certo. È questa la sua sola specificità. Per il resto, somiglia agli innumerevoli miti che, nei millenni, ci siamo raccontati con i mezzi più diversi, dall’epica alle prediche sul pulpito, dai canti attorno al fuoco al cinema. Già in L’attimo fuggente (1989) Weir invita a diffidare delle storie di vita esemplari che chiamano e tengono i singoli dentro i propri confini angusti e perciò rassicuranti. Dopo aver strappato le pagine introduttive d’un manuale di letteratura, il professor Keating conduce i suoi allievi davanti a certe foto appese alle pareti della scuola. Ognuna rappresenta un antico allievo, un uomo che, in quell’edificio, ha costruito la sua biografia su modelli preordinati, nella convinzione che niente esistesse al di là di Seahaven. Ora, sono tutti morti. L’apertura, la disponibilità,l’infinita possibilità biografica cui hanno rinunciato, è loro preclusa per sempre. Di questo s’accorge, di questo si spaventa Truman: d’essere prigioniero non tanto d’un inverosimile network televisivo, quanto d’una intricata rete narrativa, ossia di biografie già tutte preordinate che, incrociandosi, si rafforzano l’una con l’altra, finendo per decidere della sua stessa biografia. La sua stoffa di vita, trasfigurata in modello, è esemplare d’ogni altra anche nel senso che d’ogni altra descrive questa “prigionia”. Che poi Christof sia un cinico uomo di spettacolo o Zeus o, semplicemente, una necessità umana, troppo umana, poco cambia. Alla sua onnipotenza Truman deve opporre la propria impotenza. Lo deve dal momento in cui della realtà di Seahaven comincia a dubitare, vedendone il tragico e l’assurdo. E una rivolta disperata, la sua. Quello contro cui si rivolta è il principio stesso della sua sicurezza. Quello che cerca è un luogo indefinito e vuoto in cui ancora gli sia data un’illimitata possibilità biografica. Detto altrimenti, quello che cerca è l’indefinito e il vuoto del nero che, nelle ultime immagini, si scorge al di là d’una porta che sta, astratta, sui confini di Seahaven. A che cosa apre quel nero? Alla follia? A un’altra storia di vita? Forse, a un altro demiurgo. Eppure, conviene correrne il rischio. L’alternativa è Seahaven. Ossia, è la rinuncia a vedere: non a un astratto diritto ma a un concreto desiderio di vedere. Per questo – con un coraggio che ripete quello di Sisifo, ingannatore degli dei, e con un’ironia che ricorda quella di Don Giovanni di fronte agli schiamazzi pirotecnici del Convitato di pietra -, Truman Burbank fa uno sberleffo a Christof e sprofonda nel nero.

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Ciak (10/1/1998)
Stefano Lusardi

Potrebbe essere semplicemente una fredda analisi del reale: lo show è sempre in onda, il senso si è perso da parecchio e tutti aspiriamo, ridenti e inebetiti, a una felicità di plastica da soap. Oppure, lo stesso Weir lo ha suggerito a Venezia, semplicemente un film autobiografico: la paura e il dolore provati dallo stesso regista nell’abbandonare la protettiva Australia per la sconosciuta e ostile America. Questo per dire che non è il caso di seguire la strada più ovvia e leggere The Truman Show soltanto come un apologo sull’ingerenza e sull’onnipotenza della televisione, tema già affrontato con maggior furore da Quinto potere e con alta poesia da Oltre il giardino. Il film vale infatti per ben altre ragioni. Per il suo essere costruito, con una maestria e crudeltà d’autore veramente rare, come un labirinto di specchi che regala vertigini esistenziali: il grande Jim Carrey, che si è costruito una carriera come “faccia di gomma”, trasformato invece in unico uomo vero in un mondo di uomini attori; il regista con intenti etici Weir che invece finisce per specchiarsi nell’anima nera del regista “divino” Christof-Ed Harris. The Truman Show vale soprattutto perché tradisce. Si offre con l’amabilità della commedia e invece, strada facendo, accumula solo claustrofobia, solitudine, orrore. Sembra raccontare un cammino esemplare dalla mistificazione alla verità, ma nel frattempo demolisce sadicamente certezze (il ritorno del padre), affetti (la perfida scena in cui la “moglie” Laura Linney fa pubblicità ignorando la sua angoscia) e sogni (l’impossibile viaggio alle Fiji) del suo eroe. Fino al finale, sommamente ambiguo. L’illusione che ha imprigionato Truman è finalmente morta, ora è libero di conquistare la realtà. Ma, al contrario di finali realmente liberatori come quello di Blade Runner o dell’imminente Dark City, non c’è nessuna apertura di luce: la realtà è una porta aperta nel buio e nel nulla. Non c’è niente di buono, là fuori. Forse meglio l’incoscienza e l’inganno, meglio una vita già scritta e con risate pre-registrate, meglio l’happy end garantito di una qualunque soap.

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il Giornale Nuovo (25/9/1998)
Maurizio Cabona

Essere ripresi in diretta tv a vita sarebbe un sogno per molti malati di protagonismo, ma è un incubo per il personaggio molto normale di Jim Carrey in The Truman Show, caso insolito di fantascienza sociologica ma non noiosa che a riflettere sulle assurdità mediatiche. Per Weir (Picnic a Hanging Rock, L’ultima onda) il confronto col fantastico non è nuovo; nuovo è che sia finalmente riuscito a «girare» qualcosa di buono negli Stati Uniti: come altri autori australiani, Beresford e Schepisi, Weir «soffre» l’America. Su soggetto e sceneggiatura di Andrew Niccol, The Truman Show è la vicenda di un bambino abbandonato alla nascita, che viene usato come cavia del maggiore esperimento tv di tutti i tempi. E anche se in The Truman Show abbonda il dèjà vu (fonti: L’invasione degli ultracorpi, La morte in diretta, Il pianeta dei robot, La fuga di Logan, i telefilm della serie Il prigioniero…), ha colpito nel segno. La presa i coscienza del trentenne Truman Burbank (allusione a un opaco presidente americano e al sobborgo di Los Angeles dove ha gli studios la Disney), che si accorge di essere continuamente spiato, avviene forse un po’ di colpo, dopo anni di disattenzione a particolari inquietanti, come la serialità di certi incontri che sono il pretesto per fare pubblicità. Quelli che lui crede la realtà, è infatti solo un’interminabile soap opera che ha lui come ignaro protagonista: padre, madre, moglie, amico d’infanzia, colleghi di lavoro sono tutti attori, che non gli vogliono bene, recitano di volergliene. Messa in onda ininterrottamente da quasi undicimila giorni, pari ai trent’anni della sua vita, l’esistenza di Truman non ha avuto segreti per nessuno, se non per lui, l’uomo più conosciuto del mondo, ma che non sa di esserlo. (…) Il cinema è proprio strano. Quando si tratta di mostrare uno sfondo di città, lo si ricostruisce fasullo negli studios; quando si tratta di mostrare uno studio, come in Truman Show, si prende un villaggio vero, Seaside in Florida. Gli abitanti di questo borgo postmoderno per ricchi se ne sono avuti a male. Hanno ragione: le quotazioni di immobili dove si svolge un incubo, anche se un incubo comico, non saliranno.

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Il Resto del Carlino (10/10/1998)
Andrea Maioli

Venite a conoscere Truman Burbank, che vive nell’alcatraz dorato d’una piccola città senza vie di fuga, che da trent’anni è l’eroe inconsapevole della soap opera perfetta e globale, sotto gli occhi del mondo intero. Truman Show è un film che non dimenticherete: per l’immagine delle nostre vite illusorie e prigioniere, per la messinscena montante d’uno smarrimento paranoico che ha un solo degno precedente nell’Invasione degli ultracorpi. La vita è ancora una volta il sogno raccontato da un pazzo (ma che colori dolci ha l’incubo), e sinistramente il mondo è solo un palcoscenico, il palcoscenico (tv) è il solo mondo possibile…

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Il Giorno (25/9/1998)
Silvio Danese

Da non perdere. Viaggio allucinante al centro della televisione. Di più: viaggio nel cuore del cervello collettivo massmediologizzato. Truman vive a Seaside, il villaggio più lindo e finto d’America, inconsapevole che il mondo in cui è cresciuto e lavora è l’immenso set di una telenovela no stop con cinquemila telecamere nascoste, un cielo artificiale e un mare che è servito a provocargli agorafobia e claustrofobia sufficienti per allontanare ogni istinto al viaggio. Nella trappola, Jim Carrey comico trasformista prestato a una parte grottesca, infine struggente. Precludere l’esperienza della comunicazione, bloccare il confine, chiudere l’oltre: impedire la conoscenza diventa a un certo punto l’impegno del mondo (televisivo) che vive alle spalle di Truman, il quale infine si muove con un solo scopo, toccare l’orizzonte dipinto e annullare la ferocia della simulazione. Fino a che i punto viviamo fuori dall’immenso igloo della tv? Successo unanime su tutti i fronti, critici compresi.

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