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Suspiria (1977) – Recensione di Guido Fink

I soli fotogrammi relativamente suggestivi di Suspiria (1977) sono quelli iniziali. Spaventata e indifesa, Susy (Jessica Harper) arriva da New York all'aeroporto di Friburgo, e il gioco di campo e controcampo, il ritmo binario della suspense si mantiene ancora nell'ambito del cinema "classico"

di Guido Fink

I soli fotogrammi relativamente suggestivi di Suspiria (1977) sono quelli iniziali. Spaventata e indifesa, Susy (Jessica Harper) arriva da New York all’aeroporto di Friburgo, e il gioco di campo e controcampo, il ritmo binario della suspense si mantiene ancora nell’ambito del cinema “classico”: ai piani sempre più ravvicinati e inquieti della porta a vetri verso cui si dirige la protagonista, e che fra luci e rumori si caratterizza sempre più come una specie di vestibolo dell’inferno o porta socchiusa sul caos, si contrappongono le immagini della ragazza che, reprimendo la paura, cammina verso quella porta: elementi di “normalizzazione”, insomma. Ma, subito dopo, crollano tutte le difese, il putiferio è generalizzato e inefficiente. Susy prende un taxi (ultimo segno di normalizzazione una volta superate le barriere linguistiche che del resto non si ripresenteranno più) e si reca, fra tuoni e lampi gialli in una notte, color carta da zucchero, alla Tanz-Akademie dove si è iscritta come allieva interna: la sfacciata color ciclamino della casa è minacciosa o comunque respingente, una voce all’Interno scaccia la malcapitata ragazza col pretesto che nessuno la conosce; ma all’esterno, specie in quella foresta con quelle condizioni atmosferiche, non è più rassicurante e come se non bastasse dalla porta esce un’altra ragazza terrorizzata (sapremo poi che si chiama Pat Hingle, come un caratterista hollywoodiano) e si dà a corse dissennate nei dintorni.

A questo punto, non meno delle sue collegiali perseguitate Dario Argento è in trappola: il responso del box-office può essere lusinghiero, ma la catena degli errori è in definitiva schiacciante. L’accademia di danza fondata da Elena Markos e affidata a Madame Blanc non vale più come casa degli Usher, come luogo deputato d’orrore, come palazzo stregato dove il regista imbonitore ci trascina volenti o nolenti (ma dopotutto abbiamo pagato il biglietto, proprio come Susy ha versato le tasse d’iscrizione): il terrore è anche fuori. Pat si rifugia da una sua amica, se ne va trafelata in bagno, interroga, giustamente preoccupata, le ombre i fruscii i lampi e gli effetti pirotecnico­psichedelici che popolano la notte al di ,là dei vetri della finestra; ma la macchina da presa inquadra solo il buio visto da Pat, o l’esterno della porta del ‘ bagno, poi magicamente moltiplicata, che l’amica cerca di forzare per aiutarla: la “camera,, si protende anche fuori della casa, ci mostra l’altro lato della finestra, con la ragazza esposta all’imminente massacro, in un quadratino di luce colorata. Dal momento in cui Pat e l’amica giacciono a terra, in un turbine di vetri infranti, e la lama dell’assassino torna con voluttà a frugare tra le frattaglie delle vittime, noi comprendiamo che Argento ci nega anche l’estremo diritto di ranicchiarci nella nostra poltrona, di distanziarci metaforicamente dallo schermo insanguinato e pieno di spauracchi: il terrore è dappertutto, sullo schermo e dietro di noi, dove l’impianto di amplificazione esulta e deborda, assediandoci con urla e gemiti,. improvvisi balzi di gatti in calore sulle nostre spalle, l’infame musica dei Goblin elevata all’ennesima potenza. Si, le cataratte di questa specie di sensurround ti avvertono che il gioco non conosce più regole o zone franche, che l’angoscia e il terrore sono dappertutto: più tardi l’unica trovata del film, che in mano a un altro regista avrebbe portato a un grosso risultato sul piano del thrilling, un cieco accompagnato solo dal suo cane fedele si rende conto che qualcosa o qualcuno lo minaccia nel buio; e il campo lunghissimo della piazza vuota e del sospetto risolve in un primo piano di risposta all’insegna della violenza e del rovesciamento (è il cane che sta per massacrarlo): ancora una volta, il pericolo è qui e altrove. Ma troppo spesso i sibili i tonfi e gli scrosci fanno esplodere i fonometri per i risultati più banali: «Dio mio» dice per esempio Sa­ra, «mi pare sia suonata le campana, manca un quarto d’ora alla cena e mi devo cambiare». L’intensificazione di tutti i segnali di pericolo rende impossibile il ricorso al falso allarme, elemento di apparente . normalizzazione che in realtà rende il gioco molto più inquietante, come sa ogni praticante anche maldestro di suspense: Hitchcock vi ha saputo far ruotare intorno un intero film, il bellissimo Suspicion (Sospetto, 1941) ma la ricetta non è ignota nemmeno allo Spielberg di Jaws (Lo squalo, 1976: la ragazza bagnante che grida perché afferrata alle gambe dal fidanzato). Qui tutti gli allarmi sono veri, tutte le. collegiali stanno per essere uccise, tutte le maestre e le sorveglianti sono streghe ed assassine; e se Susy decide di ravviarsi i capelli come minimo nel pettine trova un verme schifoso che a sua volta preannuncia di pochi minuti la caduta di miliardi di confratelli. In quest’incubo generalizzato, lo stesso ricorso a scenografie di gusto risulta gratuito: il caos e la geometria non sono più in rapporto dialettico, si compresenti in un’ottica che tutto prende per non saper rinunciare a nulla: le luci surreali e la stessa fantasmagoria cromatica finiscono per risolversi in una neutralità chiassosa quanto indiscriminata.

Indubbiamente Dario Argento, evidentemente Sensibile alla moltiplicazione degli effetti all’equivalente visivo di uno stile tutto di superlativi e di esclamativi, e alla quantificazione degli stimoli orrorifici, raggiunge dei records finora inviolati: certo nessun altro regista era mai riuscito ad ottenere una recitazione cosi cattiva e volgare da un attrice importante come Alida Valli, e Joan Bennet non aveva mai dovuto, nemmeno nei suoi lontani meriggi prelanghiani, pronunciare battute come «Ciò molto mi rincuora, dottore». Alla proliferazione degli effetti nel senso della profondità (davanti, dietro e sopra lo schermo) corrisponde, come ci si può attendere, una voluta erosione del supporto logico del plot, dominato da un’insensatezza e da una follia che con allegra approssimazione si cerca di ricollegare all’accezione erasmiana (l’Accademia ha sede in un casa già abitata dall’autore dell’Elogio): ma a parte l’assenza, per motivi accennati, di quella hesitation fra credibile e incredibile che per Todorov è elemento necessario del fantastique, anche questa dimensione risulta compromessa dal piatto razionalismo che, escluso dalle concatenazioni logiche, dai passaggi fra sequenza e sequenza, rispunta fuori all’interno di ogni segmento narrativo: «tutte le sere le insegnanti se ne vanno esattamente alle nove e mezza», «basta seguire l’ultima che esce e sapremo dove vanno», «ho contato sette passi verso la porta e sette dalla porta in poi…».

Malaccorto ragioniere dell’incubo, Argento non sa evitare il ridicolo di quella impagabile lezione sulle menti incrinate e sulla stregoneria attraverso i secoli che a Susy impartiscono due scienziati da pubblicità televisiva, né rinuncia al giochetto da «Settimana enigmistica» che dovrebbe darci la chiave del finale: quali parole pronunciava Pat uscendo dall’accademia? Quando finalmente tacciono i venti e i Goblin, Susy se lo ricorda: e noi ripensiamo all’analogo giochetto del primo film di Argento, L’uccello dalle piume di cristallo (1969), dove si trattava di decodificare un’aggressione, di distinguere chi colpiva e chi era colpito, in un piccolo quiz che comunque poteva farci anche ripensare all’ambigua disponibilità di ogni codice visivo (del resto, quel primo film appare un classico in confronto a Suspiria). Le interrogazioni metalinguistiche, e anche quelle più modeste, da ultime pagine di un giallo Mondadori, sono escluse e vanificate dalla grande orchestra del terrore, che mira solo ai colpi bassi: forse è l’ultima risorsa di un’epoca abituata a esorcizzare la violenza quotidiana, a rimuoverla grazie alla sua stessa sovrabbondanza sui giornali, per le strade e alla tv; e in questo senso Dario Argento potrebbe essere uno dei registi più sintomatici, se non più significativi, del nostro tempo. Ma solo perché, a un’indagine approfondita, la sua strategia della moltiplicazione del terrore rivelerebbe varie compromissioni con i meccanismi di rigetto tipici di quella maggioranza che sarebbe ironico, specie in questo contesto, continuare a chiamare silenziosa.

Bianco e Nero, Gennaio-Febbraio 1977

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