Questo colloquio si è svolto in un’aula del Centro Sperimentale di Cinematografia nel mese di novembre 1962, dopo la proiezione per allievi e insegnanti, alla presenza dell’Autore, de Le 4 giornate di Napoli. Abbiamo trascritto integralmente, salvo piccoli adattamenti di forma, il colloquio da una registrazione su nastro.
Fioravanti: Sono veramente contento di avere oggi qui Nanni Loy. Loy è stato allievo del Centro, da quest’anno abbiamo il piacere di averlo anche come insegnante e oggi siamo felici di averlo come ospite per la presentazione del suo ultimo film.
L’anno scorso, quando Loy accettò di buon grado e, direi, con entusiasmo giovanile di dirigere una esercitazione degli allievi registi, che si svolse di notte, in esterno, con una temperatura glaciale, quello che più mi impressionò, oltre alla sua preparazione professionale, fu il suo grande spirito di sacrificio e la capacità di trasmettere ai suoi collaboratori, allievi e non allievi, un entusiasmo e un amore al lavoro davvero toccanti. Proprio in quei giorni Loy ci parlò di un progetto di film su Napoli e noi gli facemmo i migliori auguri per la riuscita di un’opera che già in partenza si presentava come estremamente ambiziosa e piena di difficoltà.
Successivamente ci siamo tenuti al corrente delle varie fasi della lavorazione del film e, una volta che esso fu terminato, aspettammo la sua proiezione con grande interesse e anche con una certa emozione.
Adesso, al termine della proiezione, debbo dire che l’emozione che io ho provato è straordinaria. L’aspetto più toccante del film mi pare che sia questa coralità che egli ha saputo rendere, questo ampio affresco di una città mite e aliena dalla violenza che a un certo momento, sotto lo stimolo di eventi particolarmente forti, sa elevarsi collettivamente a una dimensione eroica: questo mi sembra forse l’aspetto più impressionante del film. Penso anche alle grandi difficoltà di ordine tecnico e organizzativo che Loy e i suoi collaboratori hanno dovuto superare per dare coordinazione e unità ad una serie di episodi così sparsi e diffusi, che tutti però confluiscono in un risultato estremamente compatto. Mi è parso insomma che il film superi ogni felice attesa; e vorrei adesso pregare Loy di ricordarci brevemente il cammino attraverso il quale, dalla idea originaria, è arrivato al risultato finale.
Loy: Non è facile seguire con chiarezza lo sviluppo dell’idea originaria fino al suo concretarsi nell’opera che avete visto. Debbo dire che da parecchi anni mi proponevo di fare un film sulla Resistenza. Da molto tempo prendevo appunti, raccoglievo documentazioni, costruivo abbozzi di episodi. Per molti anni questo film non sono riuscito a farlo. Debbo aggiungere con franchezza che nel frattempo non sono rimasto immobile, ma ho fatto altri film che indubbiamente non sentivo particolarmente. Li ho fatti per ovvie ragioni pratiche ma anche perché, a differenza di quello che molti giovani fanno oggi, io ho preferito fare una carriera lenta e di tipo tradizionale, secondo la prassi in uso fino a qualche anno fa, per la quale prima che un regista affrontasse la realizzazione di un film veramente impegnativo si preferiva metterlo alla prova — e lui stesso preferiva mettersi alla prova — con realizzazioni di tipo artigianale e di impegno più limitato. È il caso, per esempio, di Mauro Bolognini, è il caso mio e di parecchi altri della nostra generazione, che partirono con il programma di maturarsi gradualmente sul piano professionale prima di affrontare i film che stavano loro particolarmente a cuore. Non dico che questa sia la strada giusta, ma comunque fu la strada che io scelsi.
Detto fra parentesi, forse è questa la ragione per cui io da alcuni sono considerato un regista «anziano», mentre in realtà sono più giovane di molti registi che vengono considerati bambini solo perché esordiscono clamorosamente da un giorno all’altro.
Quanto al mio interesse particolare per i motivi della Resistenza e dell’antifascismo, che sono alla base non solo di questo film ma anche del precedente, Un giorno da leoni, debbo dire che oltre a motivi politici e culturali ve ne sono altri, che nascono da una prospettiva mia personale: a me interessava e interessa fare dei film attraverso i quali si denunci la carenza di certi valori nella società italiana di oggi; la carenza di valori come la solidarietà, la comprensione, lo spirito di sacrificio, l’altruismo, quei valori che si possono definire civici o anche nazionali nel senso di una mutua comprensione e di una stretta unione spirituale fra i membri di una stessa società nazionale. Questi valori mi pare elle proprio oggi siano piuttosto in declino, oggi che il progresso, l’elevato tenore di vita, la corsa alla ricchezza e al benessere, in ima parola il nostro piccolo miracolo economico, spinge gli uomini ad allentare i legami affettivi e spirituali che dovrebbero esistere fra loro. Mi pare che scarseggi il senso dell’amicizia fra gli uomini, l’esigenza di un rapporto serio, onesto, chiaro, autentico, il rispetto per la personalità e le opinioni altrui, cioè una serie di valori che forse schematicamente si potrebbero riassumere nella parola democrazia: una democrazia effettiva, alquanto diversa dalla democrazia formale e che mi pare che nel nostro paese non sia ancora pienamente attuata.
Mosso da questo impegno e da questa constatazione ho cercato degli argomenti, dei temi che, pur riferendosi a situazioni passate, potessero avere un valore attuale, nel senso di indicarci un’epoca, un momento in cui quella solidarietà, quella mutua comprensione si erano pienamente realizzate e che permettessero anche a me di esprimere questo mio atteggiamento, questo mio giudizio e questi miei interessi.
Nel frattempo, naturalmente, venivano fatti molti film, come quelli di Antonioni o di Fellini, che tutti, sia pure sotto prospettive diverse e personalissime, esprimevano esigenze analoghe, ponevano in evidenza questa carenza e questa crisi. Ma in quei film in genere si parla della società italiana di oggi, di una carenza di valori in atto in questi giorni. Io mi sono andato convincendo che la resistenza in Italia non è consistita soltanto nella liberazione del paese dalla occupazione tedesca, non ha significato solo un impegno di lotta politica, ma portava in sé, abbastanza chiaramente individuabili, altri valori : appunto quelli della solidarietà, della fratellanza fra gli italiani, dello spirito di sacrificio.
La storia della Resistenza è piena di esempi che al di là, ripeto, di un impegno di lotta politica rivelano questa profonda solidarietà, della quale si sentono investiti non solo gli uomini impegnati in quella lotta ma un po’ tutti, donne, ragazzi, vecchi che oscuramente, umilmente, spontaneamente parteciparono a quella lotta, contribuendo a circondare i combattimenti di un calore, una comprensione, una solidarietà davvero straordinari. È per queste ragioni anche sentimentali se volete, che io mi sono particolarmente appassionato a quella stagione della storia d’Italia: leggendo o ripensando o ripescando nei miei stessi ricordi personali ho capito che lì erano emersi quei valori, si erano poste le radici per una autentica democrazia effettiva e vissuta, radici che poi non hanno ramificato in modo sufficiente.
È chiaro che non si potrebbe pretendere dagli italiani di continuare perennemente ad avere quello stesso slancio, quello stesso spirito solidale: i tempi si sono calmati, le prospettive sono mutate, sono nati problemi più individuali; però mi sembra che qualche cosa di più in quella direzione si poteva fare. E forse si può dire che in questo senso la cultura italiana, con la sola eccezione del cinema, non è stata sempre all’altezza di questo impegno, non ha fatto tutto quanto sarebbe stato necessario per ricordare quei momenti, per fermarli e fissarli nella vita di tutti i giorni del cittadino italiano.
Queste sono le ragioni per le quali per tanto tempo ho pensato di fare un film sulla Resistenza nonostante che l’argomento sembrasse passato di moda e anche dopo che, con II generale Della Rovere di Rossellini, ci fu tutta una nuova fioritura di film che trattavano quei temi, e poteva quindi sembrare che io mi fossi lasciato rimorchiare da questa nuova ondata. Nacque così Un giorno da leoni, nel quale però non si esaurì questa mia inclinazione, questo mio interesse per i temi della Resistenza.
Dopo Un giorno da leoni ho quindi pensato a un altro film perché non ero del tutto soddisfatto di quel primo, né era sembrata soddisfatta una parte della critica. Oltre tutto mi sembrava che tutto il lavoro di documentazione, di letture, di riflessioni che avevo accumulato non fosse confluito interamente nel film ma gran parte ne fosse rimasta fuori. Pensai quindi ad un altro soggetto e ne proposi parecchi al produttore Lombardo. Debbo dire che la scelta definitiva dell’insurrezione napoletana fu fatta non da me soltanto, ma da me in piena collaborazione con il produttore e con gli sceneggiatori assieme ai quali da tempo lavoravo appunto alla ricerca di un soggetto.
Dopo aver scelto l’insurrezione di Napoli come tema centrale del film ci furono, credo, almeno tre mesi di discussioni, di sopraluoghi, di inchieste; e a un certo momento arrivammo alla conclusione che il film non si potesse fare. La difficoltà maggiore la incontrai io: non riuscivo a trovare la esatta chiave del film, la ragione precisa per la quale bisognasse fare il film, che gli desse un significato attuale. Ma poi mi convinsi che nella storia dell’insurrezione di Napoli poteva perfettamente esprimersi quell’idea pacifista, di odio per la guerra, che era al centro dei miei interessi. La vicenda di una popolazione civile che prende le armi per scacciare dalla propria città i militari, cioè la guerra, mi sembrò potesse esprimere quella somma di interessi e di stimoli di cui parlavo prima. E più che mai questo mi sembrò che avesse valore in quanto ciò era avvenuto nella città più freneticamente, direi animalescamente individualista: che proprio qui fosse scattata la molla della solidarietà, del sacrificio e dell’altruismo mi sembrò presentare una singolare coincidenza con i miei interessi. Questo è dunque il germe da cui è nato Le 4 giornate di Napoli.
Fioravanti: Una volta stabilito questo, quando siete passati alla stesura del soggetto e della sceneggiatura le vostre preoccupazioni sono state soprattutto di fedele ricostruzione storica oppure di rievocazione artistica che prescindesse dalla autenticità, dei singoli fatti, dei singoli episodi?
Loy: Per cominciare noi abbiamo fatto un’inchiesta molto accurata, documentandoci ampiamente, per quel che era possibile, sull’esatto andamento degli avvenimenti. Abbiamo letto tutti i libri — pochi — che sono stati scritti sull’argomento, tutti gli articoli di giornale; ho consultato tutti gli atti depositati presso il Ministero dell’Interno riguardanti personaggi ed episodi delle 4 giornate; presso le associazioni dei partigiani ho consultato pacchi interi di documenti riguardanti le richieste di concessione della qualifica di patriota e le successive indagini compiute dalla Commissione campana per le attribuzioni di tale qualifica e l’assegnazione di decorazioni. Inoltre abbiamo cercato di parlare con i vari protagonisti delle 4 giornate. Non tutti naturalmente li abbiamo trovati, e non tutti hanno voluto parlare: soprattutto quelli che si erano occupati dell’argomento in libri o articoli sono stati molto reticenti a dire più di quel che non fosse già noto, e alcuni fecero capire che avrebbero potuto rivelare molti particolari inediti se fossero stati chiamati a collaborare alla sceneggiatura. Poiché questo non era possibile abbandonammo a un certo punto questo tipo di indagine e sulla base della documentazione già raccolta abbiamo compilato un vero e proprio «diario cronologico della vita della città di Napoli dal 1° settembre al 2 ottobre 1943». Ne è venuta fuori una narrazione foltissima di fatti, di episodi, di documenti. Abbiamo recuperato tutti i bandi, i manifesti, le ordinanze promulgate dalle autorità militari tedesche o dalle residue autorità civili rimaste in città. I manifesti che si vedono nel film sono appunto la riproduzione fedele di documenti originali.
Successivamente è cominciato un lavoro di scelta: non si poteva mettere tutto, naturalmente, e nella scaletta del film abbiamo compreso gli episodi che ci sono parsi più significativi.
Dopo aver organizzato in tal modo la materia abbiamo poi dovuto disorganizzarla, frantumarla, per rendere il disordine, l’improvvisazione, la casualità di quelle giornate.
Questa prima organizzazione della materia è stata fatta da Vasco Pratolini, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa e me.
Su questa base Pratolini ha poi scritto da solo il trattamento, in una forma anche letterariamente molto pregevole. Successivamente al posto di Pratolini è subentrato Carlo Bernari e, insieme sempre con Festa Campanile e Franciosa, abbiamo steso la sceneggiatura. Più esattamente di sceneggiature ne abbiamo fatte una dozzina. Le riprese sarebbero dovute cominciare nell’autunno del 1961: gli impegni presi dalla Titanus con la M.G.M. prevedevano che il film fosse pronto per il marzo 1962. Ma la sceneggiatura non era ancora definitiva, molte cose ancora non funzionavano, non tutti i sopraluoghi erano stati fatti, non tutti i personaggi erano stati trovati. Dopo molte discussioni sono riuscito a far rinviare l’inizio della lavorazione di sei mesi e nel frattempo abbiamo cercato di mettere definitivamente a punto la sceneggiatura. Dopo qualche ulteriore rinvio l’8 maggio abbiamo cominciato a girare; le riprese sono durate 14 settimane di cui 12 a Napoli, 4 a Gaeta (dove ho girato le scene delle case diroccate dove i marinai nascondono le armi) e 10 giorni a Roma in interni dal vero. Non ho girato niente in teatro: ho voluto che niente nel film fosse ricostruito. Per esempio l’interno della casa dove vengono portati i corpi dei due giovani morti, non potendo girarlo a Napoli perché l’attrice Pupella Maggio non poteva muoversi da Roma, l’ho girato appunto a Roma, ma in un ambiente vero dal quale si intravede anche una stradina che può somigliare a un vicolo napoletano. Il 10 agosto abbiamo terminato le riprese, il 19 ho cominciato il montaggio che è durato circa due mesi, e poi ho curato il doppiaggio. Anzi una parte del doppiaggio era già stata fatta da Franco Rosi, che molto gentilmente aveva accettato di collaborare, perché il produttore voleva tentare di mandare il film al Festival di Venezia. Io ero contrario perché sapevo che ciò avrebbe comportato una troppo affrettata edizione dei film; e in effetti quando di questo si furono convinti tutti, il doppiaggio curato da Rosi — circa un quarto di film — è stato sospeso, io ho controllato la parte già fatta, ho modificato qualche piccola cosa e ho completato il lavoro. Lavoro lungo (60 o 65 turni) e faticoso.
Rosi ed io chiedemmo e ottenemmo che tutte le scene di esterni venissero doppiate in esterno in modo da rendere adeguatamente l’ambiente sonoro evitando le inevitabili falsità del doppiaggio fatto in sala. Perciò ho fatto costruire negli stabilimenti della Farnesina, all’aperto, un impianto speciale con il quale abbiamo potuto registrare più di due terzi del film in esterno.
Fioravanti: Ci vorrebbe dire quale sistema ha impiegato per adeguare lo stile di recitazione degli attori professionisti e quello dei molti attori improvvisati che appaiono nel suo film?
Loy: Devo fare una premessa. Io non desideravo che nel film apparissero attori professionisti, o per meglio dire non volevo che apparissero attori troppo conosciuti. Esigenze di produzione e di co-produzione hanno imposto a un certo momento la presenza di numerosi attori noti e forse io non sono stato abbastanza fermo o abile per rifiutarli (anche se è vero che sono riuscito ad evitare alcune presenze che certo avrebbero stonato moltissimo). Debbo dire che gli attori noti che nel film appaiono si sono comportati straordinariamente bene, hanno lavorato con slancio e in un certo senso si sono sacrificati perché la loro presenza non portasse nessun elemento divistico o comunque una impressione di falsità. Può darsi che in qualche punto si avverta un certo stridore ma in definitiva il risultato, con quegli attori, non poteva essere migliore.
Tutti gli altri, voglio precisare, non sono persone prese dalla strada: sono attori professionisti, attori napoletani più o meno noti. A Napoli c’è una quantità enorme di piccoli attori dialettali, di avanspettacolo, di rivista, di «sceneggiata», professionisti, semi-professionisti e dilettanti. Si può dire che la differenza (senza arrivare al luogo comune secondo cui tutti i napoletani sono attori) fra cittadino comune e attore di questa categoria è minima.
Io ho reclutato tutti gli attori napoletani disponibili, eliminando soltanto quelli famosi (non dico Totò la cui presenza evidentemente sarebbe stata assurda, ma i De Filippo, Nino Taranto, ecc.) proprio perché il mio film non tollerava una intromissione di volti troppo conosciuti. Ho preso attori bravissimi come Carlo Taranto, fratello di Nino, meno noto di lui ma non meno bravo, Regina Bianchi, Petito, Pupella Maggio, Giuffrè, Fiorante, Cannavale, Nunzia Fumo, Balducci, Bettini, Jossa, Sportelli e tanti altri: tutti caratteristi di eccezionale bravura e che talvolta nel film figurano appena in brevissime scene.
In conclusione il mio non è un film con attori presi dalla strada ma un film interpretato in massima parte da attori di tipo particolare.
Fioravanti: Le ha offerto difficoltà questa esperienza nuova di ricerca di tipi particolari e di lavoro con attori dialettali?
Loy: In realtà non è stata un’esperienza del tutto nuova. Quando ero aiuto regista di Zampa lavorai a Napoli per Processo alla città, un film di grande impegno produttivo, e in quella occasione dovetti fra l’altro occuparmi anche della ricerca di un gran numero di tipi napoletani, da scegliere appunto fra gli attori dialettali.
Guido Cincotti: L’esperienza di lavorare con attori napoletani, molti dei quali erano stati partecipi o testimoni delle 4 giornate, ha influito in qualche modo sull’idea che precedentemente ti eri fatto della insurrezione?
Loy: No, per lo meno non più di quanto il contatto con gli attori non influisca sempre in qualsiasi film, determinando inevitabilmente qualche cambiamento e qualche adattamento.
Fioravanti: : Quali sono state le reazioni del pubblico napoletano nell’assistere alla proiezione del film?
Loy: Bisogna distinguere il tipo di pubblico. La proiezione di gala, avvenuta al San Carlo, si è svolta in un clima glaciale. Dopo il successo riportato a Roma e trattandosi di un film fatto, in un certo senso, per i napoletani, non mi sarei mai aspettato una accoglienza così gelida. Ma qualcuno fece osservare a me e al produttore che non era il caso di dare troppa importanza a quella accoglienza. Si trattava di una proiezione ufficiale e gli invitati appartenevano a un certo mondo che pregiudizialmente è ostile a questo tipo di film. Ostile, vorrei precisare, non tanto o non soltanto per ragioni politiche, quanto piuttosto per ragioni psicologiche: si tratta di ambienti borghesi e anche intellettuali ostili per principio a cose che essi considerano come delle chiassate. Un atteggiamento, direi, ingenuamente reazionario, proprio di chi ritiene che alle sommosse in genere partecipino elementi teppistici e camorristici. In effetti il giorno successivo, quando il film cominciò le sue programmazioni normali, addirittura alle 10 del mattino, davanti a un pubblico composto in gran parte di giovani, il successo fu estremamente caloroso. Si creò addirittura un clima da festa popolare, quasi uno spettacolo nello spettacolo: si intrecciavano richiami fra galleria e platea, ci si additava i protagonisti del film, li si costringeva ad alzarsi in piedi e ad esibirsi all’ammirazione del pubblico, il tutto in un clima di grande fervore ed entusiasmo. Le situazioni prendevano il pubblico, tutte le battute scattavano al momento giusto, la commozione fu grande e il successo assoluto. Nel pomeriggio e in serata la sala era gremita: l’incasso fu di circa 3 milioni e 300 mila lire, e poiché i biglietti costavano solo 550 lire (e se pensiamo che a Napoli almeno il 20 per cento delle persone entra al cinema gratis) almeno 9.000 persone videro il film in quel primo giorno.
Debbo aggiungere che il contributo offertomi dai napoletani durante la lavorazione del film — voglio dire dagli attori minori, dai generici, dalle comparse, dalle masse che appena si vedono in campo lungo — è stato generosissimo, quale in nessun’altra città avrei potuto ottenere: e ciò non soltanto perché si trattava di un.film che li riguardava da vicino, ma proprio per lo spirito e l’entusiasmo tipici dei napoletani. In nessun’altra città avrebbero consentito che una troupe creasse tanto disordine; debbo anche dire che per nostra fortuna — e per sfortuna di Napoli — il disordine della città è ancora tale per cui l’aggravio portato da una troupe come la nostra fu sentito in modo relativo. Potrei raccontare molti episodi a questo proposito, ma finiremmo per portare la nostra conversazione su un tono eccessivamente aneddotico.
Sergio Rubini, allievo del I anno di ripresa cinematografica: Vorrei chiedere al direttore della fotografia, quali problemi tecnici particolari ha dovuto risolvere nel curare la fotografia del film, che pellicola ha adoperato e come ha ottenuto certi effetti che appaiono nel film stesso.
Marcello Gatti: Ho adoperato pellicola Kodak plus X e 3 X. Quanto agli effetti speciali, cioè ai trucchi, mi pare che in tutto siano quattro. Si trattava di aumentare l’effetto già ottenuto dallo scenografo, con la ricostruzione delle macerie, facendo anche apparire degli edifici diroccati. Sono stati disegnati sul negativo, in corrispondenza delle immagini di edifici, dei fondi neri, sui quali poi sono fatte le riprese di edifici diroccati. Di questi trucchi si è occupato un americano, il signor Nathanson, specialista appunto in effetti speciali. Nathanson ha girato quelle scene, di cui noi in precedenza gli avevamo mostrato le fotografie, con una Mitchell speciale che ottiene una particolare fissità, per evitare che il disegno sul negativo si muovesse svelando il trucco. Naturalmente nonostante l’abilità del Nathanson i trucchi non sono perfetti e un occhio attento se ne accorge. Comunque vi ricordo quali sono i momenti del film in cui è stato adottato questo procedimento: il primo è nella scena in cui arriva l’automobile del colonnello tedesco avanti al Palazzo Reale e sullo sfondo si vedono i palazzi bombardati. Il secondo riguarda l’inquadratura dell’esodo a via Caracciolo. Il terzo è nell’inquadratura delle Fontanelle in cui sullo sfondo della strada si vedono altre sagome di case bianche diroccate. Infine all’inizio del film c’è un’immagine di piazza del Plebiscito deserta e altre inquadrature di strade vuote; nella terza di queste inquadrature si vede il mercato ittico che in realtà è ancora semi-distrutto, ma sulla destra c’è una prospettiva di strada con altri edifici diroccati.
Per ottenere la massima fissità dell’immagine la macchina da presa fu addirittura incatenata e legata, furono fatti numerosi provini, fu diaframmato in un modo particolare. Questo tuttavia non impedisce, come dicevo, che qualche minima oscillazione si avverta ugualmente. Soprattutto nell’inquadratura di via Caracciolo mi pare che il difetto appaia in modo evidente. Per questa ragione abbiamo dovuto accorciare anche quelle inquadrature, in modo che l’attenzione dello spettatore, inizialmente attratto dall’azione che si svolge nell’inquadratura stessa, non andasse poi a fermarsi sui particolari dello sfondo.
Gino Crescimone, allievo del II anno di regia: Vorrei chiedere al M° Rustichelli che ci dicesse qualcosa sulla sua collaborazione con Loy e sui problemi eventualmente incontrati per musicare questo film.
Carlo Rustichelli: Debbo dire che i contatti diretti con Loy sono stati piuttosto rari. Comunque, poiché avevo avuto da molto tempo la sceneggiatura, io ho fatto vari tentativi per trovare una chiave musicale per il commento. E debbo aggiungere che dopo la prima proiezione del materiale, vedendo come esso era necessariamente affollato di dialogo, di voci, di rumori naturali, guardai con disperazione Loy e gli chiesi: «dove la mettiamo la musica in questo film?». Successivamente ci venne l’idea di quella specie di tarantella popolare di tono epico, che mi pare si adatti abbastanza bene al carattere appunto epico che il film aveva.
Andrea Albino Frezza, allievo del II anno di regia: Noi tutti sappiamo — e lei stesso lo ha accennato prima — che per molto tempo prima che lei realizzasse Le 4 giornate, film sulla Resistenza non se ne sono più fatti in Italia. Vorrei che ci dicesse quali sono le ragioni storiche e politiche per le quali c’è stato un così lungo periodo di silenzio e come mai lei poi sia riuscito a fare questo film.
Loy: La prima parte della domanda non mi pare del tutto esatta. Voglio precisare che quando ho detto che ho aspettato molti anni per fare questo film intendevo parlare non di un particolare clima politico sfavorevole quanto di una sfiducia dei produttori verso le mie qualità di regista per film di questo tipo, il che è molto diverso. Tanto è vero che mentre io cercavo invano di fare un film di questo genere altri miei colleghi più autorevoli riuscivano a trattare temi della Resistenza. Ci fu indubbiamente fra il 1950 circa e il ’59, anno in cui Rossellini con Il generale della Rovere ripropose all’attenzione dei produttori e al successo del pubblico l’argomento Resistenza, ci fu indubbiamente un periodo di stasi dovuto certo a ragioni storiche che non mi sento capace di analizzare in modo approfondito.
Giulio Cesare Castello: Infatti l’apparizione nel ’55 di un film come Gli sbandati di Maselli fu considerato una eccezione quasi abnorme.
Loy: Ma a parte le ragioni storiche, che certamente molti avranno analizzato, io avrei la tendenza a non attribuire tanto la responsabilità a una situazione particolare e nemmeno ai produttori, quanto a noi stessi registi. Sta di fatto che in linea di massima in Italia quando un regista — e questo per fortuna da qualche tempo capita soprattutto a noi giovani — si impunta con fermezza nel voler realizzare un certo progetto finisce per aver partita vinta. Ciò naturalmente si deve all’azione ferma, coraggiosa, solidale che in molte occasioni i registi italiani hanno svolto per affermare certi loro diritti. In definitiva non credo molto ai copioni nel cassetto inutilizzati per l’ostracismo dei produttori. S’intende che per difendere con tenacia le proprie idee i registi debbono anche saper rinunziare alla prospettiva di facili guadagni. Se io dopo aver diretto dei film comici, al solo scopo di guadagnare e di maturare tecnicamente, avessi continuato — come mi sarebbe stato facile — a dirigere altri film di quel genere, non avrei mai realizzato né Un giorno da leoni né Le 4 giornate di Napoli (realizzando i quali ho guadagnato molto ma molto meno).
Occorre dunque sempre un minimo di coraggio da parte dei registi, ai quali comunque non si possono sempre rimproverare le ragioni umanissime per le quali certe volte debbono anche soggiacere a sollecitazioni di carattere meramente professionale. Con questo non voglio negare che una decina di anni fa una particolare situazione politica possa aver scoraggiato la produzione in un certo tipo di film. Ma direi che certe opposizioni o certi ostracismi più o meno ufficiosi riguardassero non tanto i film sulla Resistenza veri e propri quanto piuttosto quei film realistici che potremmo definire di denuncia sociale, quelli per intenderci che secondo alcuni esponevano agli occhi degli stranieri i nostri panni sporchi.
Castello: C’è da considerare che in quegli anni, a torto o a ragione, i produttori ritenevano che i film della Resistenza non interessassero più e fossero quindi destinati a un sicuro insuccesso. Lo stesso Rossellini incontrò molte difficoltà prima di poter fare Il generale Della Rovere. Questa diffidenza era dettata da un clima generale, sul quale influivano da un lato certi umori politici e dall’altro lato lo scarso successo commerciale riportato in precedenza da alcuni di quei film.
Fioravanti: C’è forse un’altra ragione. I film sulla Resistenza realizzati nell’immediato dopoguerra vedevano il fenomeno con occhio documentaristico e un’aderenza immediata. Una tale visione indubbiamente col passare del tempo aveva perso di attualità. Il merito dei film di questa specie di rifioritura che si è avuta negli ultimi anni, dal Generale Della Rovere alle 4 giornate di Napoli, è forse quello di esaminare i fatti da una prospettiva diversa, meno documentaristica. Il trapasso dal primo tipo di visione al secondo ha certamente influito sulle fortune del genere, causando un certo sbandamento tra gli stessi registi e quindi un temporaneo abbandono di quei temi. Vorrei a questo proposito fare una constatazione: proprio negli anni in cui il cinema italiano sembrava aver abbandonato l’argomento Resistenza, debbo dire che proprio al Centro Sperimentale molti allievi realizzavano «shorts» in cui quel tema medesimo veniva più volte ripreso, e proprio da un angolazione che si sforzava di diventare critica e storicistica.
Castello: Quel che dice il Direttore mi sembra giusto in linea storica; è forse meno accettabile per quanto riguarda specificamente il film di Loy. Le 4 giornate infatti — e questo forse spiega le perplessità dei giudizi di una certa parte della critica — è un film che non mi pare si sia proposto la strada storicistica nella interpretazione degli avvenimenti napoletani. A me il film è piaciuto, come è piaciuto alla grande maggioranza della critica e come piace al pubblico, e mi sembra che se Loy ha scelto una strada che a taluni sembra anacronistica ha certo avuto delle buone ragioni che sarebbe interessante sentirgli confermare o smentire, o comunque spiegare. Voglio dire che se Loy, piuttosto che seguire quella strada che in effetti a 15 o 20 anni di distanza dagli avvenimenti può essere in 90 casi su 100 la più giusta e la più doverosa, ha seguito invece una strada più simile a quella che si percorreva negli anni dell’immediato dopoguerra (ricollegandosi abbastanza chiaramente al primo Rossellini e ai film russi post-rivoluzionari), è perché ha sentito la sua materia come una materia attuale, che gli ha suggerito naturalmente quel tono da «chanson de geste» che mi pare sia una delle caratteristiche più evidenti del film. Questo procedimento, se può avere causato qualche inconveniente dal punto di vista della valutazione storica di una situazione, ha però portato dei vantaggi per quel che riguardava una rappresentazione degli avvenimenti svoltisi a Napoli. La sistemazione storica delle 4 giornate napoletane è ancora molto imprecisa: il modo caotico in cui gli avvenimenti si svolsero fa sì che gli stessi storici non sanno da che parte prenderli; gli schemi consueti degli storici sono stati sconvolti per cui una ricostruzione vera e propria della Resistenza napoletana non esiste o finisce per frantumarsi nella aneddotica. Ora mi pare che proprio questo sia tornato a vantaggio di Loy, dando al suo film quel tono così fervido e spontaneo, rendendo simpatica la stessa insurrezione, molto più di quanto non avvenga in altri film più impegnati nel senso di una ricostruzione critica e storicistica dei fenomeni.
Loy è riuscito a ritrovare le emozioni che il cinema dava quindici anni fa. Vorrei sapere da Loy se è d’accordo nel mio giudizio: cioè che fra le due possibili strade, quella dell’interpretazione storicistica e quella della celebrazione epico-popolare da «chanson de geste», egli ha scelto la seconda non soltanto perché la particolare situazione napoletana lo costringeva a questo ma anche perché ciò gli serviva per ritrovare uno slancio epico piuttosto che fare un discorso razionale.
Loy: Il nostro sforzo non è stato puramente storicistico: noi abbiamo cercato di impegnarci su una strada che vorrei chiamare di storicizzazione cinematografica. Indubbiamente una posizione storicistica non era del tutto sufficiente per il tipo particolare di film che volevamo fare. Ho detto prima che avevamo raccolto un’ingente documentazione ma ho aggiunto che poi abbiamo dovuto metterla da parte perché quella documentazione non ci dava se non il sottofondo su cui bisognava costruire l’edificio narrativo del film. La vera, intima ragione per cui volevamo fare questo film era di esporre attraverso di esso un’idea pacifista: l’idea della guerra alla guerra. Se ho scelto quindi di dare al film quel tono particolare che Castello ha messo in rilievo non è stato per un’intellettualistica presa di posizione contro quel tipo un po’ razionalistico di film sulla Resistenza a cui d’altronde io stesso mi ero avvicinato con Un giorno da leoni, ma perché era il film che io intravedevo a spingermi in quella direzione. La immediatezza delle immagini, che a Castello fa citare Rossellini e che da parte di alcuni mi ha causato l’accusa di scarsa chiarezza di concezione storica, deriva proprio dal modo particolare in cui avevo concepito questa specie di romanzo epico. È questione quindi di una scelta che si può chiamare artistica o stilistica e non di una particolare concezione ideologica.
L’emozione che mi dava l’idea di questa sollevazione popolare di 19 anni fa era un’emozione attuale, che considero valida ancora oggi e quindi valida in senso universale, al di fuori delle contingenze storicistiche. Mi sembra attuale l’idea di un popolo inerme, qualunque esso sia, che si arma come può e si solleva per scacciare l’occupante dalla città. D’altro canto c’è anche una ragione di preferenza stilistica: attraverso le esperienze fatte, attraverso la stessa esperienza di Un giorno da leoni — film che ho rivisto più volte e di cui ho scoperto tutti i difetti — mi è nato un fastidio sempre più forte per le ricostruzioni in teatro, le immagini ricercate, le belle illuminazioni, mi è nato un rifiuto per il formalismo; mi dà fastidio che si senta la macchina da presa. Aggiungerò che mi dà anche fastidio una certa tendenza della critica italiana a sottovalutare i film che non presentano una particolare cura della forma e ad esaltare invece le opere calligraficamente a posto, le opere eleganti, fini, morbide, di ricercata fattura. È naturalmente una questione di gusto personale.
Castello: C’è un punto nel film che risulta piuttosto oscuro proprio dal punto di vista narrativo. Esso cioè non spiega in che modo i napoletani siano venuti in possesso delle armi, non spiega come furono proprio i tedeschi, abbandonando le armi che ritenevano superflue nelle caserme, a fornire l’armamento ai rivoltosi.
Loy: È vero; c’erano nel film due scene, eliminate per ragioni di metraggio, che chiarivano questo punto. C’era una scena in cui si vedevano marinai italiani che la mattina del 9 settembre gettavano in mare le loro armi per non lasciarle ai tedeschi e poco dopo degli scugnizzi si tuffavano in mare e le ripescavano. C’era poi un’altra scena in cui quei patrioti che nel film vediamo sparare con delle cariche che poi risultano essere a salve invadevano una caserma abbandonata e si appropriavano appunto di cassette piene di munizioni.
D’altro canto non appare strano, come pure qualche storico ha scritto, che i tedeschi abbiano lasciato tanto armamento nelle caserme. Non appare strano primo perché essi, nella situazione di estrema provvisorietà in cui si svolsero gli avvenimenti, ignoravano resistenza di certi depositi di armi lasciati dalle truppe italiane, e poi perché non pensavano che la popolazione civile potesse armarsi e sollevarsi contro di loro. Non dimentichiamo che quella di Napoli fu la prima sollevazione di civili contro gli occupanti tedeschi.
Castello: Ma perché non avete lasciato nel film queste scene chiarificatrici?
Loy: Per ragioni di economia narrativa e perché abbiamo pensato che un solo accenno in questo senso potesse bastare e avere un valore emblematico. Infatti è rimasta la scena di quel gruppo di marinai che nascondono le armi sotto le macerie di un edificio e successivamente di notte vanno a riprenderle. Questa scena, che d’altronde non amo troppo perché mi sembra abbia una funzione eccessivamente didascalica, ha comunque un po’ il valore di un simbolo dell’intera situazione e del comportamento degli italiani in quelle circostanze. Per la stessa ragione non ci è parso necessario spiegare come mai gli studenti e il professore nella palestra del Liceo al Vomero siano in possesso di tante armi. Nella realtà quel professore fu avvertito da un militare che in una certa caserma esistevano delle armi, e di notte lui e i suoi allievi le andarono a prendere e le trasferirono nella palestra della scuola. Avevamo scritto anche questa scena, ma poi mi è parsa non indispensabile e l’ho eliminata dalla sceneggiatura.
Berenice Sparano, allieva del I anno di costume: Vorrei sapere come ha fatto ad ottenere tanto slancio e tanta verosimiglianza non solo dagli’ attori ma anche dalle comparse, trattandosi di appartenenti ad un popolo — come lei stesso ha detto — così selvaggiamente individualista.
Loy: Ma proprio perché sono selvaggiamente individualistici: ciascuno di loro ha recitato come se fosse il protagonista, anche se si trattava di apparire in fondo a una inquadratura e poi scomparire per sempre. In ciò hanno secondato proprio le mie intenzioni, che erano di fare un film in cui tutti, anche i volti anonimi, fossero i protagonisti. Questo può darsi contribuisca a dare al film quel tono popolaresco che ha indotto qualcuno a definirlo spiritosamente, ma secondo me ingiustamente, «Pane, amore e Resistenza».
Cincotti: C’è una cosa che mi pare manchi nel film, nonostante tanto scrupolo di esattezza storica e ricchezza di documentazione: la presenza dei fascisti. Risulta infatti in maniera precisa che le retate della popolazione civile erano, sì, ordinate dai tedeschi, i quali però si limitavano in un certo senso a controllare, ma materialmente le effettuavano i fascisti. Lo facevano magari senza eccessiva ferocia, con tolleranza e comprensione, un po’ nello stile di quell’unico fascista, o meglio collaborazionista, che appare nell’episodio dell’Università, ma in effetti erano loro a farlo. Si possono aggiungere anche altri episodi più gravi: per esempio il fenomeno dei cecchini, di quei fascisti arrabbiati che, anche per motivi di salvezza personale — perché prevedevano quello che poteva capitargli dopo — diedero luogo a un fenomeno che chiamerei di antiresistenza, sparando dai tetti e impegnandosi in maniera concreta contro i rivoltosi. Tutto questo nel film non appare e, se non toglie niente alla compiutezza artistica dell’opera, indubbiamente toglie qualcosa alla completezza del quadro storico.
Loy: Rispondo volentieri a questo rilievo che non sei il solo a farmi. Nella cronaca delle 4 giornate e di conseguenza nel disegno del film c’era la presenza dei fascisti. C’era per esempio la figura di quel tale che verso la metà di settembre, dopo la liberazione di Mussolini dal Gran Sasso, si autoproclamò federale di Napoli ed emanò quel bando del Partito fascista repubblicano che radunò un gruppetto di uomini abbastanza sparuto ma molto rumoroso, i quali durante i combattimenti delle 4 giornate non figurano mai : più che altro aiutarono i tedeschi indicandogli le strade, l’ubicazione dei veri punti cruciali della città, ecc. Essi entrarono in scena, si può dire, dopo le 4 giornate, quando i tedeschi si stavano già ritirando dalla città, e alcuni di questi fascisti continuarono a sparare dai tetti delle case facendo numerosi morti soprattutto fra le donne che ingenuamente, vedendo che i tedeschi erano partiti, riprendevano a circolare per le strade per provvedere alle piccole esigenze della vita quotidiana.
Verso la fine del film era previsto un episodio del genere piuttosto violento, che terminava con un tentativo di linciaggio di un fascista che aveva ucciso una donna e che veniva salvato da alcuni patrioti. Era un episodio autentico, riferito anche da Giulio Schettini in un suo libro. Ma alla fine, nell’ultima stesura della sceneggiatura, preferimmo eliminare la presenza dei fascisti perché ritenemmo che la loro presenza avrebbe spostato alquanto l’asse tematico del film. Come ho già detto, l’idea che noi volevamo esprimere era quella della guerra alla guerra, quella di una popolazione civile e pacifica che prende le armi per scacciare l’invasore, non quella di una guerra civile — che in realtà poi a Napoli non c’è stata —, rappresentare la quale avrebbe imposto un andamento completamente diverso alla narrazione.
Ci è sembrato insomma che un sia pur parziale difetto di completezza storica avrebbe dato una maggiore coerenza tematica e stilistica a un film che già per altre ragioni è abbastanza pletorico e temevamo potesse diventare addirittura confuso. La nostra è dunque una esigenza di semplificazione e di chiarezza.
Cincotti: Tornando alla definizione data da Castello al film come di una « chanson de geste » debbo dire che essa mi pare più giustificata anche dalla realtà delle cose. In effetti molti degli episodi che appaiono nel film e che sono autentici, come quello del bambino che muore nel tentativo di far saltare un carro armato o quello del marinaio fucilato avanti al portone dell’Università, già in quelle giornate, nonostante la confusione, T.isolamento in cui si trovavano i vari quartieri della città, vennero risaputi e divulgati per vie misteriose e che oggi sembrano incredibili, colorandosi fin d‘allora di colori mitici, acquistando un sapore leggendario che contribuiva a infiammare i cittadini, a farli sentire partecipi di una vicenda straordinaria.
Lucia Tarenchi, allieva del II anno di recitazione: Poiché nel film agisce Lea Massari vorrei un suo giudizio su questa attrice.
Loy: Indubbiamente Lea Massari è un personaggio singolare nel panorama del nostro cinema: una specie di antidiva. Come donna ha un carattere non molto facile: piena di incertezze, di timori, dotata di un senso forse eccessivo di autocritica. Ma nel suo lavoro è di una semplicità e di una serietà straordinarie. Proprio la sua eterna insicurezza rende molto più facile lavorare con lei piuttosto che con tanti altri attori sempre eccessivamente sicuri di sé. Naturalmente quella delle 4 giornate è stata per lei una esperienza nuova. La Massari veniva da esperienze recenti di tutt’altro genere: aveva fatto del teatro, aveva fatto L‘avventura con Antonioni e per il mio film ha dovuto adeguarsi ad una tecnica, a un sistema di lavoro completamente diversi. Ma con lei sono stato aiutato non solo dalla sua serietà, ma anche perché tra le attrici italiane era quella che anche come tipo fisico meglio si adattava a quel personaggio. Acconciata in un certo modo, completamente priva di trucco, l’attrice un po’ intellettualistica e sofisticata che avevamo conosciuto in altre occasioni si è trasformata completamente.
Paolo Graziosi, allievo del II anno di recitazione: Vorrei anche un suo giudizio su Gian Maria Volontà.
Loy: È un attore molto serio; direi che è un grande attore. È un professionista che nel suo lavoro mette un vero slancio, un impegno che secondo me si avverte nella proiezione, una concentrazione autentica, seria e profonda.
Pier Annibale Danovi, allievo del I anno di recitazione: Con gli attori fresi dalla strada lei riesce ad ottenere tutto quello che vuole, o si limita a sfruttare quel tanto che essi le possono dare?
Loy: Rispondere alla sua domanda implicherebbe forse una schematizzazione che non mi sento in grado di fare. Esistono degli attori professionisti che non sanno recitare o per lo meno non riescono a capire le intenzioni del regista, e ai quali bisogna dare indicazioni molto minuziose, contentandosi poi di un risultato approssimativo. Viceversa ci sono degli attori improvvisati — e questo capita soltanto a Napoli — che rivelano una straordinaria propensione per la recitazione. In questo senso sono stati straordinari, per esempio, i ragazzi che appaiono nel film : per esempio il ragazzo che fa la parte di Aiello (il capo degli evasi dal riformatorio) dopo pochi giorni si improvvisò mio assistente nel guidare i suoi compagni, interrompendo magari una azione quando gli sembrava che uno degli altri non avesse rispettato una pausa o avesse prolungato troppo la durata di una certa battuta. Era come se avesse un metronomo nelle orecchie. Io davo il segnale di inizio di una scena, l’azione cominciava e imo dei ragazzi interveniva dicendo : « no non è venuta bene, bisogna ricominciare perché quello ha fatto la pausa troppo corta». Naturalmente questo non sempre avviene. Quando si adoperano attori presi dalla strada, nonostante le ampie selezioni, i provini ecc. capita al momento pratico di trovarsi di fronte a dei testoni assolutamente incapaci di seguire le indicazioni che gli si danno, o a gente che si lascia completamente paralizzare dal panico della macchina da presa. Ritengo quindi che anche per attori improvvisati, come per gli attori professionisti, non si possa generalizzare, ma si debba giudicare caso per caso.
Fioravanti: Vorrei fare una breve osservazione a quello che ha detto Loy poco fa quando ha sostenuto che lo irritano i film dai quali traspare una cura eccessiva della forma e di essere propenso a trascurare questo aspetto dell’opera cinematografica. Debbo dire che vedendo Le quattro giornate si ricava l’impressione di un’opera che, senza essere formalistica, rivela tuttavia un costante sforzo di ricerca formale, peraltro perfettamente aderente al contenuto e al tono della vicenda.
Loy: La mia posizione è polemica nei confronti degli eccessi calligrafici, non verso una ricerca formale che sia soltanto un modo espressivo. È chiaro che quando si accusa Antonioni di calligrafismo si cade in errore perché la ricerca dell’immagine in Antonioni è strettamente inerente a quello che lui racconta; in lui è l’immagine che determina l’atmosfera, il clima, e perciò quella ricerca si risolve in stile. Io intendevo riferirmi agli imitatori, a quelli che non avendo la stessa esigenza intima si esercitano freddamente a fare del calligrafismo, che è un semplice ricalco. Nel caso del mio film una deliberata ricerca formalistica non c’è, evidentemente; tuttavia non ho neanche voluto dargli quel tono crudamente documentaristico che è straordinario e splendido, per esempio, in Paisà; è stato il carattere stesso che ho voluto dare alla narrazione a imporre un certo stile. Avrete forse notato che la tecnica prevalente nelle 4 giornate è quella del campo lungo, dal quale di rado si staccano piani più ravvicinati. Anzi avrei voluto abbondare ancora di più nel campo lungo, avere prospettive profondissime, inquadrare interi quartieri; ma naturalmente questo non sempre è stato possibile per ragioni di traffico e anche per il pericolo di inquadrare edifici moderni e anacronistici. Mi pare comunque che l’alternarsi improvviso di primi piani a campi lunghi e a visioni complessive dia una certa efficacia alla vicenda creando un rapporto fra gli individui e la coralità degli avvenimenti, il che è proprio quel che volevo ottenere.
Umberto Campagna, allievo del II anno di scenografia: Mi sembra di aver notato che i costumi, cioè gli abiti indossati dai personaggi principali, non si attengano strettamente alla moda dell’epoca.
Loy: La sua constatazione è giusta, ma le dirò che sono stato io stesso a volere questo. Mi sembrava che marcare eccessivamente la moda del 1943 — un certo tipo di permanente, le scarpe ortopediche, le gonne un po’ sopra il ginocchio, certe camicette e certi golf, tutta quella moda, diciamo così, squallida dell’epoca, che oggi ci appare orribile — avrebbe significato dare un’accentuazione in senso ironico. D’altro canto io credo che a Napoli esista una moda popolare che è abbastanza simile ancora oggi a quella di quaranta anni fa; forzare la raffigurazione fisica dei personaggi in quel senso mi dava fastidio.
Campagna: Allora questo scarso rispetto per la fedeltà storica è dovuto ad una sua personale posizione di gusto?
Loy: In certo senso sì; spesso ho quasi litigato con lo scenografo e costumista del film, Gianni Polidori, mio carissimo amico e che è stato anch’egli allievo al Centro. Lui naturalmente si preoccupava della verosimiglianza e della fedeltà storica; io cercavo di resistergli ma non soltanto per una questione di gusto personale, ma anche per quelle ragioni obiettive a cui ho accennato.
Giovanni Calendoli: Vorrei che ci chiarissi il significato che hai voluto attribuire alla figura del capitano interpretato da Volaolé, personaggio che- mi sembra molto elaborato e che perciò è un po’ un personaggio chiave.
Loy: Quel capitano rappresenta un po’ l’italiano medio, l’italiano di quella generazione che ha fatto tutte le guerre del fascismo e che l’8 settembre si trovava ad aver perso gli anni migliori della sua vita ed è quindi preso da un profondo avvilimento. Quel capitano ha fatto tre anni di guerra, ha perso una mano in Russia, si vede osteggiato e disprezzato quasi fosse lui il responsabile della guerra e la sua prima reazione è naturalmente Io scetticismo, l’abbandono. «L’unico ordine che ho ricevuto, dice, è quello di non dare ordini»: è appunto la conclusione amara a cui giunsero i nostri militari in quei giorni. Ma in seguito — e questo è uno dei significati del film — quando vede che i civili, gli inermi prendono l’iniziativa e insorgono, allora anch’egli si inserisce, dapprima con rabbia, con amarezza, perché i tedeschi lo hanno trattato male in Russia, quindi per risentimento personale; successivamente con una maggiore coscienza. Ma quando tutto è finito il capitano comprende bene che la rivolta vittoriosa è nata sotto la spinta di sollecitazioni a cui lui è estraneo, capisce che il suo compito è finito, che quella è stata una rivolta di civili contro militari e che la sua è stata quasi una semplice partecipazione tecnica. Perciò rientra nell’ombra e lascia che siano gli altri, i veri protagonisti delle 4 giornate, a godersi la loro vittoria. Posso aggiungere che questo personaggio risulta dalla fusione di tre personaggi autentici: soprattutto al Vomero ci fu un certo capitano Strumolo che coordinò e guidò l’azione dei patrioti e che non si seppe mai se era già capitano o se era un semplice caporale improvvisatosi ufficiale in quelle circostanze. Successivamente costui entrò nell’esercito di liberazione, si fece lanciare con il paracadute oltre la linea gotica per mettersi in contatto con i partigiani dell’Emilia, fu catturato dai tedeschi e ucciso.
Danovi: È vero che la televisione italiana doveva trasmettere un dibattito sul suo film e che improvvisamente lo ha soppresso?
Loy: Non ne sono informato esattamente. Non è esatto per esempio che io dovessi partecipare a questa trasmissione. Ho sentito dire che dovevano intervenire il produttore Lombardo e i due scrittori napoletani Marotta e Prisco. Per quali motivi poi la trasmissione non si sia più fatta è cosa che ignoro.
Frezza: Che cosa ci può dire sulle polemiche di questi giorni, sulle dichiarazioni di molti esponenti tedeschi i quali negano non solo la opportunità di questo film ma la realtà storica degli avvenimenti che lei ha mostrato e delle stesse 4 giornate napoletane?
Loy: Si tratta di polemiche molto recenti di cui stanno parlando tutti i giornali, i quali hanno anche riportato le rispettive prese di posizione. Mi pare quindi che non sia il caso di riprendere qui questo argomento, perché non potrei dirvi niente di più di quanto tutti voi avete letto sui giornali.
Fonte: Bianco e Nero, Anno XXIII – N. 12 – Dicembre 1962