Il generale Paul Mireau, comandante di una delle divisioni del generale Georges Broulard, è ambizioso, arrivista, vanitoso, tutto teso alla conquista di medaglie e promozioni. I suoi uomini sono stanchi, avviliti, decimati, ma pur di avere altre decorazioni e avanzamenti egli non esita a mandarli verso un dissennato sacrificio: comanda un attacco umanamente impossibile; e quando vede il ripiegamento e l’insuccesso, prima cerca di far fuoco con le artiglierie sul propri uomini, poi li accusa di codardia, li processa e li fucila. Uguale natura ha il generale Broulard, il quale conosce bene le debolezze di Mireau. Anche se egli ammette di non sapere se effettivamente il fallimento dell’attacco sia dovuto alla mancata partecipazione di una compagnia, conclude che il processo e l’esecuzione di tre uomini serviranno a rinforzare il morale dell’intera divisione: il suo cinismo non consente la pietà umana. Broulard è il vero rappresentante, insieme e ancor più di Mireau, di tutti quei generali che stavano e stanno ancora dietro alla bella propaganda patriottica, che assumevano e assumono spesso in Parlamento arie di dittatori supremi.
Chi sono i condannati a morte, e perché vengono scelti quei soldati, e non altri? Il soldato Arnaud viene scelto a sorte: di qui anche la sua reazione violenta di fronte al cappellano: egli non può, non vuole trovare un punto d’incontro; dice di no al confessore, e non accetta la conversazione. Ma gli altri? Il soldato Ferol è davanti alla corte marziale perché “socialmente indesiderabile”: sociali-sta, rappresenta il “pericolo sovversivo”, le inquietudini delle minoranze rimaste fedeli all’idea della fraternità internazionale dei proletari, che riprendevano forza a mano a mano che l’esaltazione patriottica e l’energia repressiva dei primi giorni sfumavano, a mano a mano che dall’estero venivano notizie sulla non dispersa coscienza operaia di opposizione alla guerra. E il caporale Paris viene scelto dal proprio comandante, della cui vigliaccheria è testimone (ubriaco, durante una ricognizione era fuggito dopo aver ucciso uno dei suoi soldati). Questo comandante Roget dice una tremenda verità al caporale, in merito alla inutilità di incolpare un ufficiale: – Quale parola credi che ascolteranno? Quella di un soldato, o di un ufficiale?-
Aggiunge Stanley Kubrick: – Quale parola credi che ascolteranno: quella di un colonnello, e di complemento, o quella dei generali, e di carriera? – Il “più eccelso penalista di tutta la Francia”, il colonnello Dax, non riesce a far prevalere la giustizia e la pietà di fronte alla corte marziale, fatta di generali e di sudditi fedeli (uno zelante aiutante di stato maggiore funge da pubblico ministero). Il vero colpevole, egli afferma, è lo Stato maggiore, e, se volete, accusate me. “Ci sono dei momenti in cui mi vergogno di appartenere al genere umano, e questo è uno di quelli. L’attacco non è stato un’onta per la bandiera, ma questa corte marziale è un’onta per la Francia. Non posso credere che la pietà verso il prossimo manchi veramente qui”. Non può, o non vuole credere? Lettore attento di Johnson, Dax ha appreso che la pietà si acquista e si accresce coltivando la ragione, che noi proviamo certamente sensazioni spiacevoli vedendo una creatura che soffre, ma che in esse non v’è pietà: “la pietà c’è solo quando abbiamo il desiderio di alleviare quelle sofferenze”. Dax può essere molte cose, meno che figlio di Broulard, “vecchio, sudicio, degenerato”. Personaggio positivo, è cosciente, con una prospettiva: di qui la protesta (e quella di Kubrick). È inevitabile che un simile uomo, con una tale visione e modo di agire – inconsueti a una classe privilegiata, a una casta alla quale Dax si rifiuta di aderire – appaia a Broulard un idealista, e che costui lo compianga come un minorato. Scaltrita “volpe dell’Armée”, non riesce a comprendere come Dax abbia a cuore la sorte dei condannati e non invece l’accedere al posto di Mireau, prendere il comando della divisione. – “In che cosa ho sbagliato?” – domanda Broulard. – “Visto che non sa rispondere, compiango lei”, commenta Dax.
Dax è sicuro della causa che difende. Solo per qualche attimo ha un dubbio: quando, dopo il colloquio finale con Broulard, vede di ritorno al suo comando gli uomini, a un’ora dall’esecuzione dei compagni, maltrattare una ragazza tedesca, “ultima preda di guerra”. Che Broulard abbia ragione? Sono un idealista, un alienato? È proprio vero che il pubblico dimentica presto? (“Non avrà un seguito, l’inchiesta”, dice Broulard a Mireau, quando apprende che quest’ultimo aveva comandato il fuoco delle artiglierie sui propri reparti. “Il pubblico dimentica.”). Che il soldato sia un animale, e che come tale vada trattato? Che la natura umana non si possa cambiare? Sono momenti di un’alta drammaticità. Gli interrogativi incalzano nella mente di Dax, e dello spettatore. Ma a poco a poco il viso addolorato e spaurito della ragazza si impone, il suo canto, all’inizio sommerso da fischi e scherni, si fa distinto, alla sua voce si unisce il coro dei soldati, alle sue lacrime le loro lacrime: sono uomini, non bestie; al sergente che porta l’ordine di partire immediatamente per il fronte Dax, ormai rinfrancato, dice: “Dia ancora qualche minuto agli uomini”. […]
Orizzonti di gloria occupa, nella filmografia pacifista, un posto particolare: ci troviamo di fronte a un film che non è pacifista soltanto: esso non si sofferma sulle descrizioni, non presenta “belle morti”, romantiche descrizioni della parte avuta da singoli uomini o reparti in questo o quel conflitto armato, ma individua le canaglie che si nascondono dietro il falso o interessato patriottismo. Broulard, Mireau, gli altri ufficiali – eccetto Dax – non rappresentano certo per questi soldati francesi la Repubblica, il paese, la patria: quella patria di cui si dice che ami ugualmente tutti i suoi figli.
I fatti narrati, nel romanzo e nel film, sono verificabili. Personaggi, unità, luoghi, – avverte Cobb in una nota a chiusura del suo libro – sono immaginari, ma i fatti narrati sono verificabili, del resto, ieri come oggi. E il conflitto, adombrato nel film (la paura di Broulard per la stampa, e i politici), tra gli alti gradi dello Stato maggiore e il governo, tra ufficiali di carriera e ministri, le diffidenze nei riguardi dei militari esistono ancor oggi, e i sintomi di sfiducia vanno sempre più manifestandosi anche tra le truppe. Non si può certo dire con il Time che il film ha il solo difetto di attaccare un “male che non è di moda “. Il fatto decisamente importante del film è, anzi, questo: Kubrick, presentandoci una storia del passato, coniuga anche il presente; inoltre il fenomeno che denuncia non è dato come eccezionale, né tanto meno come patologico e clinico, ma come tipico a una classe, a una casta la cui condanna viene fatta attraverso un personaggio che a essa dovrebbe appartenere e invece si oppone (“Posso essere tutto”, dice Dax a Broulard, “ma non vostro figlio”). Il carattere inedito e democratico di Kubrick, la sua esigenza di verità e di realismo sono evidenti.
Chi è Stanley Kubrick? È un nome nuovo, o quasi. Ventinovenne, egli non è il rappresentante di una generazione “bruciata”, o “dorata”, uno dei tanti che non sanno liberarsi dalla disperazione in cui sono caduti. Si può ritrovare in lui l’esigenza di una risposta all’interrogativo amletico, alla differenza tra ciò che sembra e ciò che è. La tecnica che dimostra in Orizzonti di gloria è documentaristica, nel senso che lo stile è spoglio, ma non povero di senso plastico: le preoccupazioni formali sono sempre subordinate al soggetto, in funzione di esso e della costruzione dei personaggi. Si vedano le tre carrellate nelle sequenze della trincea (l’ispezione paternalistica di Mireau all’inizio, e le ispezioni ben diverse di Dax quando sta per iniziare l’attacco e quando l’attacco è già fallito); i movimenti di macchina durante il processo, in quell’enorme e fredda sala, in cui i prigionieri appaiono troppo piccoli e troppo soli: spesso le inquadrature sono a metà occupate dalle nuche, macchie informi e nere, degli inquirenti: cose, non uomini. I tipi sociali vengono definiti con precisione, con particolari asciutti, essenziali: Adolphe Menjou qui ritorna grande attore, e Kirk Douglas dà vita al suo personaggio più umano e simpatico. Kubrick non osserva e descrive soltanto, ma narra e partecipa; per questo le figure anche minori – i prigionieri, la ragazza tedesca, il sergente, il comandante della batteria – non scadono nel bozzettismo, ma risultano protagonisti di un unico grande dramma.
Kubrick è senza dubbio, nel cinema americano attuale, il regista più coraggioso, un talento indipendente e fuori da equivoci e compromessi: il suo distacco dai Brooks, dai Ray, Aldrich, Robson, è totale. La formula produttiva da lui scelta, è un esempio di film a basso costo, di indipendenza economica richiesta per la libertà delle idee. Egli esprime la sua protesta ufficialmente e con estrema chiarezza; dal tono di Orizzonti di gloria non si ha sentore di una riconciliazione da parte di colui che protesta. Un pericolo, comunque, esiste: saprà Kubrick resistere ai pericoli dell’industria americana della cultura?
Pubblicato in Cinema Nuovo, n. 126, 1° marzo 1957, pp. 152-153