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I film di Michelangelo Antonioni: Professione reporter (1975)

Quasi privo di musica (un flauto nel deserto, una chitarra nell'ultima inquadratura) Professione reporter è forse il più bel film “muto” degli ultimi cinquantanni, quello in cui meglio viene orchestrata la voce del silenzio. Chi dopo Blow up pensava che Antonioni non sarebbe riuscito a superarsi sbagliava.
Jack Nicholson in Professione: reporter (1975)

Il fotografo di Blow up, diventato reporter televisivo, è in un Paese (il Ciad?) del Centro Africa per preparare un servizio su quel continente «che di problemi ne ha sempre avuti molti», ci diceva Antonioni nel 1975. Il discorso su Professione reporter potrebbe iniziare anche così. Benché dieci anni li separino, questi due film “intimisti di avventure” — secondo l’espressione dell’au­tore — interpretati da due professionisti della comunicazione sembrano girati di seguito. A ben guardare, la seconda parte di questo “dittico” era già in qualche modo preannunciata nella prima: su una parete dello studio di Thomas era esposta una stampa riproducente il viaggio di una carovana nel deserto. Un dettaglio forse casuale, ma non troppo se si pensa alle numerose analogie che si possono riscontrare tra le avventure dei due protagonisti.

Quando si trova davanti al cadavere di uno sconosciuto, il fotografo Thomas crede per un momento di poter diventare “attore” nella vita; davanti al cadavere di uno sconosciuto, il reporter David Locke si illude di poter diventare un altro, un uomo d’azione, cambiando identità. Ancora una volta la realtà si incaricherà puntualmente di disingannarlo.

Per l’età (trentasette anni) e la professione, Locke ricorda da vicino il protagonista di uno sfortunato soggetto scritto da Antonioni subito dopo Blow up, che per una serie di disavventure produttive non ha mai potuto portare sullo schermo. Si tratta di Tecnicamente dolce. Una vacanza improvvisa porta un giornalista (si chiama T., come trentasette) ad un bivio della sua esistenza. Disilluso dalla politica e da una civiltà che lo ha alienato da se stesso, spinto da un bisogno di cambiare radicalmente, parte per la giungla amazzonica alla ricerca di un’esistenza più libera e personale a contatto con una natura allo stato puro. («E se andassi in Amazzonia a fare un servizio sulla giungla?» si domanda T. «Giungla e politica… No. Basta con la politica. Piante. La lotta delle piante per arrivare al sole»). Ma l’aereo che trasporta a destinazione lui e un suo compagno precipita a centinaia di chilometri dal più vicino centro abitato; privi d’equipaggiamento, affamati, braccati dai cannibali, respinti da una natura crudele in cui non sono più in grado di inserirsi armonicamente, invece dell’attesa liberazione i due “passeggeri” trovano la più atroce delle morti. La stanchezza professionale, la delusione cui va incontro il reporter di tecnica- mente dolce (il titolo è ispirato ad una nota frase del fisico Oppenheimer: «Se uno intravede qualcosa che gli pare tecnicamente dolce si attacca a quella e la fa»; “technically sweet” si potrebbe tradurre con “irresistibile”) sono molto simili a quelle che prova il reporter Locke nel deserto sahariano e alla fine della sua avventura. «Come storia — ci ha confidato Antonioni — Tecnicamente dolce mi piaceva più di Professione reporter perché mi riguardava più da vicino. Era una storia cioè che sarebbe potuta accadere a me. Io ci sarei andato subito nella giungla, sono fatto così per temperamento. Mentre all’appuntamento all’Hotel della Gloria, dove va il reporter Locke alla fine del film, non ci sarei probabilmente mai andato, sapendo di lasciarci la pelle. Il reporter è uno che vuole cambiare se stesso, eliminare se stesso per diventare un altro, quindi è uno che spinge più in fondo quello che per il protagonista di Tecnicamente dolce è semplicemente un bisogno vago in un momento di crisi… Tra i due personaggi c’è comunque una certa somiglianza. E questa è la ragione per cui dopo Professione reporter non me la sono più sentita di girare Tecnicamente dolce, avrei avuto l’impressione di ripetermi. Come il reporter Locke, il giornalista T. va in giro per il mondo perché, almeno per un certo periodo, vuol dimenticare se stesso». Non è un caso se ad interpretare i due protagonisti — T. e la ragazza — Antonioni voleva proprio Jack Nicholson e Maria Schneider, gli interpreti di Professione reporter.

Mentre va ad un laborioso appuntamento con certi ribelli che hanno sequestrato degli stranieri, il reporter londinese David Locke viene inspiegabilmente abbandonato in pieno deserto dalla sua guida. Deve aver preso la pista sbagliata. A questa delusione professionale se ne aggiunge una di ordine tecnico: la Land-Rover si insabbia su una duna; a nulla servono i suoi sforzi, le sue imprecazioni (in una crisi di nervi, il reporter colpisce ripetutamente la macchina con il badile, poi si lascia cadere esausto sulla sabbia, urlando e singhiozzando come un bambino). Trascinando i piedi — il pesante equipaggiamento in spalle — raggiunge faticosamente il villaggio. Nel miserabile albergo non c’è sapone, e gli scarafaggi passeggiano indisturbati per la stanza. Locke è distrutto. Se fosse possibile piantare tutto e ricominciare da capo…

C’è un altro cliente nell’albergo, un europeo di nome Robertson. Giorni prima David Robertson è venuto a far visita al reporter; deformazione professionale, Locke ha registrato il colloquio al magnetofono. Sentendo il bisogno di sfogarsi, Locke bussa alla porta del connazionale. Non udendo risposta, entra nella stanza. Il corpo di Robertson giace bocconi sul letto. Gli aveva detto che soffriva di cuore. Invece di chiamare qualcuno, Locke richiude accuratamente la porta alle sue spalle. Qualcosa lo trattiene in quella stanza. Si avvicina lentamente al letto. Mentre volta il cadavere (nell’appoggiarsi, la mano avverte qualcosa sotto le coperte, un taccuino pieno di appunti) Locke rimane inchiodato a fissare quei lineamenti che gli sembrano così familiari. Robertson gli somiglia come un sosia. Suadente come la melodia del misterioso flauto proveniente dal deserto, un pensiero si insinua nel suo animo. Chi una volta nella vita non ha desiderato diventare un altro? Niente di più facile, in quella località sperduta.

Non ci sono formalità da adempiere. Basta trascinare il cadavere nella propria stanza, sostituire la foto sul passaporto. Non deve nemmeno prendersi la briga di programmare il futuro; i prossimi appuntamenti sono indicati sul taccuino trovato accanto al cadavere. L’aero­porto di Monaco (sul biglietto c’è il numero — scritto a mano — di una cassetta di sicurezza) sarà la prima tappa di un viaggio che si prospetta eccitante come una caccia al tesoro. Mentre Locke si prova la giacca azzurra di Robertson — è della sua misura — alza gli occhi verso il soffitto, come ad assaporare l’aria che viene dal vecchio sferragliante ventilatore. («Mi assalì l’idea di quella mia sconfinata libertà» leggiamo nel capitolo VIII de «Il fu Mattia Pascal»). Quando la cinepresa, dopo una panoramica verso l’alto, torna ad inquadrare il personaggio, notiamo che Locke sta abbottonandosi la camicia di Robertson: nell’attimo in cui è rimasto fuori campo (nell’intervallo tra due panoramiche) il reporter ha preso la decisione di cambiare identità. Per evocare la metamorfosi ad Antonioni basta una semplice panoramica. Chi è il fu David Robertson? Mentre procede alla sostituzione delle fotografie sui due passaporti, Locke riascolta la conversazione avuta con il vicino di stanza. (In un originale flashback rivediamo l’incontro come se si svolgesse in quel momento, senza rotture nel continuum spaziale-temporale: a un certo punto non udiamo più il rumore del ventilatore né le voci del registratore, scostandosi dal tavolo di Locke la cinepresa panoramica verso la finestra aperta, Robertson entra in campo e la conversazione riprende “dal vivo” là dove si era interrotta). Robertson è un “globetrotter” che prende la vita “come viene”. Non ha famiglia né amici, “solo qualche occupazione”. Sul genere di “affari” che lo ha condotto fin lì Robertson è stato avaro di notizie. «Lei lavora con le parole, le immagini. Cose vaghe. Io invece vengo qui con delle merci, cose concrete. E mi capiscono subito» ha detto. Di quali merci si tratti, Locke lo scoprirà più tardi. Per ora gli basta sapere che il suo sosia è un uomo d’azione, privo di legami. «Il cliente del numero undici è morto» annuncia laconicamente al portiere. Il trucco riesce. David Locke viene sepolto nel deserto e il falso Robertson parte per Monaco, via Londra; così sta scritto sul biglietto. Appro­fitterà dalla tappa per fare una capatina a casa: come Mattia Pascal, il fu D. Locke vuol assicurarsi di essere davvero morto. Tranquillizzato dalla pila di telegrammi di condoglianze ammucchiati sulla consolle nell’ingresso, preleva da una cassetta i suoi risparmi («La mia libertà, che al principio mi era parsa senza limiti, ne aveva purtroppo nella scarsezza del mio denaro» leggiamo ne «Il fu Mattia Pascal») poi se ne va. Incipit vita nova.

Nella cassetta numero 58 del deposito bagagli all’aeroporto di Monaco l’ex re­porter trova una busta che contiene un catalogo ciclostilato di vari tipi di armi. L.a scoperta della nuova professione lo diverte. Il salto nella “concretezza” di cui gli aveva parlato Robertson non poteva essere più radicale.

Mentre sfoglia il ciclostilato non si accorge che due individui — uno bianco e uno africano — lo stanno osservando. Non sapendo di essere atteso, l’ex reporter — noleggiata un’auto — vaga per la citta sconosciuta. Seguendo una carrozza infiorata tirata da una pariglia bianca che gli ha tagliato la strada, finisce in una chiesa barocca dove si celebra un matrimonio. In questo décor da favola ha luogo il primo inatteso incontro della sua nuova vita. (Mentre osserva la festosa cerimonia — è il primo matrimonio filmato da Antonioni — Locke rivive un episodio emblematico del suo matrimonio. Un giorno, in un momento di esaltazione, aveva acceso un gigantesco falò in giardino. «Sci im­pazzito?» aveva urlato Rachel, la moglie, affacciandosi dalla terrazza. Estasiato alla vista di quel fuoco liberatore, il marito aveva risposto laconicamente: «Sì»). I due misteriosi individui che lo seguono dall’aeroporto sono gli emissari dei ribelli a cui Robertson ha venduto le armi Felicitandosi con lui. gli consegnano la “prima rata” del pagamento. «Lei ha affrontato gravi rischi per la nostra causa… Lei non è come gli altri, lei crede in noi» mormora commosso l’afri­cano, un certo Achebe. «La seconda rata le sarà versata a Ginevra, lei sa dove. Il nostro prossimo incontro sarà a Barcellona. Gli accordi restano invariati» interviene il tedesco. Locke finge di capire. Dopo averlo messo sull’avviso («Lei sa che il nostro attuale governo ha agenti che potrebbero interferire col suo lavoro») i due uomini si licenziano con un cordiale “arrivederci”. Aprendo la busta che i due gli hanno consegnato (dentro c’è un grosso fascio di banconote) Locke si lascia sfuggire una comica esclamazione di meraviglia: «Cristo!» Prima di uscire dalla chiesa si scusa con il “padrone di casa” per l’involontaria bestemmia. È euforico. Tutto gli appare sotto una luce nuova.

«Sciolto nel presente da ogni legame, e d’ogni obbligo, senza più il fardello del passato e con l’avvenire dinanzi che avrei potuto foggiarmi a piacer mio, l’a­nima mi tumultuava nella gioia di quella nuova libertà. Non avevo mai veduto così uomini e cose. Mi si presentavan facili e lievi le nuove relazioni… Mi veniva di sorridere di tutto e a ogni cosa. Come mi sentivo leggero. Ah, un paio d’ali!». Ci sovvengono queste parole di Mattia Pascal (capitolo Vili) mentre vediamo Locke sospeso tra cielo e mare sulla teleferica che sorvola il porto di Barcellona. A un certo punto si sporge nel vuoto, movendo le braccia come un uccello. Ripensiamo ai “voli” di Vittoria (L’eclisse) e di Mark (Zabriskie Paini) e crediamo per un momento che il nostro Icaro sia riuscito a liberarsi di tutti i “fardelli” dell’esistenza. Ma all’appuntamento nel parco non si presenta nessuno: Achebe, l’emissario dei ribelli, è stato sequestrato dagli agenti del controspionaggio; tra poco li avrà alle calcagna anche il falso Robertson. Il loro compito sarà facilitato dalla moglie di Locke, che cerca Robertson per tutt’altre ragioni. Breve la vita felice del fu David Locke.

Una mattina, al bar del suo albergo, l’ex reporter scorge una vecchia conoscenza, Martin Knight, un produttore della B.B.C.; Rachel l’ha spedito a Bar­cellona per rintracciare Robertson, l’u­nico testimone della morte del marito. Poteva mai “immaginare” che “neppure morto” si sarebbe “liberato della moglie”? («Il fu Mattia Pascal». XV). Non gli rimane che la fuga. Come Mattia Pa­scal. il nostro «forestiere della vita» comincia a «misurare i confini» di quella sua «sconfinata libertà». Quando più tardi la moglie riceverà gli effetti personali del marito e scoprirà il trucco della foto sul passaporto. Locke avrà alle calcagna anche la polizia spagnola che lo vuol proteggere dagli agenti segreti che danno la caccia a Robertson. Voleva liberarsi per sempre del suo vecchio io, e ora si trova a dover fuggire due volte.

Per il momento Locke deve preoccuparsi solo di seminare l’inviato di Ra­chel. Visionando dei vecchi servizi realizzati da Locke (l’intervista ad un premier africano, un’esecuzione capitale, lo strano incontro con uno stregone) Ra­chel viene presa dalla curiosità. Vuol saperne di più sulla persona del marito. «Forse mi sono sbagliata su di lui» confessa a un amico. Attraverso l’inchiesta di Rachel (nella parte centrale, il film segue contemporaneamente due piste.

quella spagnola — la fuga di Locke — e quella inglese) il regista solleva il velo sul passato del protagonista, lasciandoci intuire le ragioni che lo hanno spinto ad abdicare alle sue funzioni, a rifugiarsi nella personalità di un altro. Locke è stanco della politica, di una professione che non gli consente di avere un “dialogo reale” con le situazioni in cui si trova coinvolto. Dopo l’intervista, piena di luoghi comuni trionfalistici, con il premier africano, Rachel ha chiesto al marito: «Perché non hai detto a quel­l’uomo che è un bugiardo?». «Non credere che io non sia d’accordo con te, ma il mondo è quello che è, non è ancora pronto per gli ideali; la realtà è quella che è, e noi dobbiamo fare i conti con la realtà», avrebbe potuto rispondere il reporter, usando la formula con cui il direttore del giornale giustifica i tagli apportati ad un articolo troppo esplosivo del reporter di Tecnicamente dolce. Proprio perché la realtà e la sua professione sono così frustanti Locke ha dato le dimissioni.

Per cercare di “dare consistenza’’ a quella sua «nuova vita campata nel vuoto» il fu Mattia Pascal si mette a viaggiare per l’Europa. «Libero, liberissimo io potevo essere soltanto così, con la valigia in mano: oggi qua, domani là. […] Mi sarei armato di una discreta filosofia sorridente per passare in mezzo a questa povera umanità». Dichiarato civilmente morto, il fu Mattia Pascal si dà un’identità fittizia (Adriano Meis non esiste), può quindi tranquillamente “porsi” a far di sé “un altro uomo”. Salvo poi ad accorgersi di non essere nessuno, e che la sua libertà senza anagrafe non gli serve a nulla («Cos’ero io se non un uomo inventato, un’invenzione ambulante?») perché esistiamo in quanto gli altri riconoscono la nostra esi­stenza. («Pirandello vuol dimostrare, in maniera sarcastica e paradossale, che l’identità è un mero fatto sociale; per Antonioni invece l’identità è insopprimibile coscienza esistenziale, noi esistiamo — come grumo di dolore — anche e soprattutto fuori della società» ha scritto Moravia). Stanco di condurre una vita da fantasma, Adriano Meis uscirà «da quella menzogna divenuta ormai insostenibile» simulando il suicidio e scegliendo di restare un morto, il fu Mattia Pascal. Il reporter di Antonioni si sui­cida prendendo il posto di un altro, di cui eredita il destino. Se il dramma di Mattia Pascal è di non essere nessuno, per la società, il dramma di Locke è di essere — per sé e per gli altri — due persone. di dover fuggire “due volte”.

Nella fuga senza requie gli viene in aiuto una conoscente occasionale, una studentessa di architettura incontrata per caso in un palazzo-museo di Gaudi, dove si è nascosto per sfuggire all’inviato della moglie.

Attratta dal mistero di quest’uomo («Sto scappando da tutto, tranne alcune cattive abitudini di cui non riesco a liberarmi» le dirà più tardi rispondendo a una sua domanda), la ragazza si offre di fargli da compagna, da guardia del corpo (depista con grande abilità l’inviato di Rachel), da coscienza anche. «Questa presenza luminosa, leggera, scesa dal cielo come un uccello — ha scritto M. Laigle, — consente al fuggitivo di riprendere la strada». Ma il cammino del­l’ex reporter è pieno di trabocchetti. Nessuno si presenta anche al secondo appuntamento segnato nell’agenda di Robertson. Mentre il futuro appare sempre più incerto, i fantasmi del passato si fanno sempre più minacciosi. Un giorno, nel vestibolo di un albergo sulla Costa del Sol, Locke si trova davanti Ra­chel; guidando all’impazzata riesce a far perdere le sue tracce, ma a un certo punto la macchina lo pianta in asso. Meglio separarsi prima che arrivi la polizia. «C’è una nave che parte da Almeria per Tangeri, prendila, ci ritroviamo lì tra tre giorni» dice Locke alla compagna. Alla ragazza però non piace «la gente che rinuncia». «Tu non puoi continuare così… scappando sempre — replica. — Vai agli appuntamenti. Robertson li ha presi. Credeva in qualcosa. È questo che volevi anche tu, no?». Locke sa solo ciò che “non” vuole. Gli manca quell’e­nergia vitale che sorreggeva Robertson, una ragione per vivere, per cui lottare. È più facile cambiare identità che sradicare certe “cattive abitudini”; il nostro personaggio ce lo portiamo sempre dietro. «Siamo noi che restiamo sempre gli stessi» aveva detto a Robertson, prima di imbarcarsi nell’avventura. Nemmeno lui. dunque, aveva creduto fino in fondo nella possibilità di riuscire a «far di sé un altro uomo».

Non avendo la stoffa per assumere i suoi due destini, non gli resta che lasciarsi andare alla deriva. Per compiacere la ragazza, forse più che per intima convinzione, andrà all’ultimo appuntamento segnato nell’agenda. Sa a cosa va incontro? «C’è tutto il film dietro questa domanda» ci ha risposto l’au­tore. «Potrei dire che il desiderio di morire è semplicemente annidato nel suo inconscio, a sua insaputa. Oppure, che Locke comincia ad assorbire la morte dal momento in cui si china sul cadavere di Robertson. Ma potrei anche dire che all’appuntamento ci va per le ragioni opposte: infatti è Daisy che va ad incontrare, e Daisy è un personaggio della sua nuova vita. Ma Locke non deve crederci molto a questa apertura. Al punto in cui è, non si identifica più in niente. “Essere è essere nel mondo”, dice Heidegger; a quel punto del film, Locke non è più ‘nel mondo’; il mondo è là, fuori dalla finestra».

Accompagnata la ragazza all’autobus, prima di recarsi aH’hotcl de la Gloria Locke “perde tempo” nella piazzetta deserta del villaggio. È una delle tipiche scene antonioniane in cui apparentemente non accade nulla: seduto sul marciapiede Locke dà un calcio ad un pezzo di carta portato dal vento, poi raccoglie per terra un minuscolo petalo rosso, lo osserva a lungo, lo infila in una sgretola- tura del muro, dopo una pausa di indecisione con il palmo della mano lo schiaccia sul muro facendo cadere un pezzo di intonaco. È un addio alla vita degno del miglior Hemingway.

Qualcuno ha preceduto Locke all’hotel de la Gloria, la “signora Robertson”. La compagna di Locke non è partita, vuole stargli vicino fino all’ultimo respiro. Le loro stanze attigue si affacciano su una piazza polverosa. Locke si stende sul letto; in piedi accanto alla finestra, protetta da un’inferriata, lei gli descrive quello che vede fuori. Lui racconta la storia del cieco che, riacquistata la vista a quarant’anni, all’inizio è incantato, poi constatando quant’è brutto e squallido il mondo dopo tre mesi si toglie la vita. La ragazza capisce il senso di quell’apologo: dopo un ultimo, tenero abbraccio, esce dalla stanza. Come Ole Anderson, il protagonista di un celebre racconto hemingwayano, «The Killers», Locke at­tende che si compia il suo destino. La cinepresa volta le spalle al protagonista («abbandoniamo Locke, ma è lui che ci abbandona» ha scritto Benayoun): la fine dell’avventura del fu David Locke viene suggerita attraverso una “suite” apparentemente casuale di immagini e suoni del tran tran quotidiano. (La cinepresa carrella impercettibilmente verso l’inferriata; nel momento in cui la supera — senza stacco — e si affaccia nella piazza, dove continua la vita di ogni giorno, viene agganciata da una gigantesca gru; per neutralizzare le inevitabili oscillazioni al momento dell’aggancio la “macchina” era stata montata su dei giroscopi). Il regista lascia allo spettatore il compito di immaginarsi la dinamica del delitto, di cui gli vengono forniti gli indizi. «La piazza — scrive Reggiani — raccoglie dapprima l’indifferenza e la subdola quotidianità. Poi sull’indiffe­renza si inseriscono alcuni segni di tensione. Quando entrano in scena gli assassini non c’è sobbalzo o stupore». Da una Citroen bianca escono due negri; uno si dirige verso l’ingresso dell’hotel, l’altro tenta di distrarre la ragazza di Locke che si aggira inquieta nella piazza (come l’amico di Ole Anderson, «non resiste all’idea, terribile, che lui si è chiuso nella stanza sapendo che deve morire»). Si sente uno sbattere di porte, poi un rumore sordo. Poco dopo la partenza della Citroen sopraggiungono a grande velocità due auto della polizia; c’è anche la moglie di Locke. Mentre i poliziotti indugiano in portineria, la studentessa cerca di raggiungere la stanza del compagno; la porta è chiusa a chiave. Dopo aver seguito l’itinerario dei soccorritori carrellando lungo la facciata dell’hotel, la cinepresa si ferma davanti all’inferriata della stanza di Locke. Il cerchio si chiude. «Il travelling ottico diventa il movimento stesso della morte, della sparizione, dell’assenza» (Bonitze).

L’ex reporter giace sul letto esanime. Il destino ha voluto che gli uccisori di Robertson giungessero prima dei poliziotti che dovevano proteggere Locke. «È David Robertson? Lo riconoscete?» domanda l’ufficiale alle due donne. «Non l’ho mai conosciuto» risponde, a sorpresa, Rachel. «È una risposta illuminante, crudele ed enigmatica insieme» scrive Benayoun («Non l’ho mai conosciuto veramente» aveva confidato ad un amico, prima di lasciare Lon­dra; per lei David è morto da tempo). La risposta affermativa della studentessa — «Sì», mormora con un filo di voce — equivale alla negazione di Rachel: accettando, per ragioni diverse, di giocare l’enigmatico gioco del fu David Locke. «secondando la sua scelta fino in fondo» (Reggiani), le testimoni delle sue due identità ratificano la finzione, come hanno fatto gli uccisori distruggendo la sua identità fisica. Ma forse «questo atto di riconoscimento — suggerisce Reggiani — non è una patente esterna di credibilità al trucco di Locke, ma una ulteriore prova del fallimento, della fragilità dell’inganno»: «La ragazza non riconosce il David che s’è liberato, ma il suo compagno di viaggio». «L’Avventura di questo Vinto si chiude con la sua Eclisse» osserva argutamente Benayoun.

Che cosa fa di questa «metafora sul­l’impossibilità di uscire da sé e di trovare la realtà altro che in sé e nelle proprie contraddizioni» (Reggiani) una delle opere più sconvolgenti di Antonioni? La sua assoluta sincerità, il suo mistero, e naturalmente l’altissima qualità delle immagini, delle metafore visive. Pur partendo da un soggetto non suo (lo ha firmato l’inglese Mark Peploe) in cui convivono originalmente spunti pirandel­liani e camusiani, l’autore riesce a farci sentire fino in fondo il dramma del protagonista, a coinvolgerci nel suo viaggio iniziatico: la nausea esistenziale, il piacere sensuale che prova nell’abbandonarsi all’ebbrezza di una libertà che gli sembra sconfinata, la sua delusione quando scopre l’impossibilità di «acquistare un nuovo sentimento della vita» (era il sogno anche di Mattia Pascal), il suo lasciarsi andare alla deriva. Il segreto della coinvolgente sincerità di Pro­fessione reporter — l’opera forse più sofferta e personale di Antonioni, dopo Il grido e Blow up — lo si può forse ricercare nell’identificazione dell’autore con il protagonista. Anche lui. come il reporter. opera su un materiale — la pellicola — effimero, condannato alla distruzione in un termine più o meno breve; anche lui esce da una (frustrante) esperienza di testimone, il film sulla Cina; anche lui fa il globetrotter (da dieci anni non ha più realizzato un film in Italia). Ed è un caso, si domanda Benayoun, se Jenny Runacre, che interpreta la moglie di Locke, ha una somiglianza impressionante con l’ex “signora Antonioni”, Mo­nica Vitti? Secondo Benayoun, Professione reporter «rappresenta una svolta vertiginosa», «una sistematica tabula rasa di un cineasta» che sembra voler tagliare i ponti dietro di sé.

Si è molto parlato dell’originalissimo piano sequenza (sette minuti) che conclude il film. Ma fin dalle prime scene ambientate nell’assoluto inaccessibile del deserto — dove Locke «cerca di sfuggire al deserto della propria vita» (Moravia) — le immagini sono cariche di una misteriosa tensione. Si pensi all’in­quietante apparizione del misterioso cammelliere nel mare di sabbia rosa: impassibile, inaccessibile come la realtà, passa accanto alla Land-Rover “en panne” senza degnare di uno sguardo il reporter (dopo l’attacco di rabbia Locke si è lasciato cadere distrutto sulla sabbia), e si allontana lentamente verso la catena di picchi rocciosi neri che delimitano l’orizzonte.

Tutto, in questo film memorabile, e forse insuperabile, è all’insegna della discrezione. («L’avventura di Locke è data per tocchi di una discrezione che rasenta l’impercettibilità — rileva Moravia. — Antonioni non ha mai avuto la mano così leggera, così reticente e allusiva».) Dalla struttura narrativa, la più complessa ed ellittica del cinema di Anto­nioni, al raffinato dosaggio dei colori (una prodigiosa varietà di bianchi e ocra), al commento sonoro: quasi privo di musica (un flauto nel deserto, una chitarra nell’ultima inquadratura) Professione reporter è forse il più bel film “muto” degli ultimi cinquant’anni, quello in cui meglio viene orchestrata la voce del silenzio. Chi dopo Blow up pensava che Antonioni non sarebbe riuscito a superarsi sbagliava. Con Professione reporter il regista compie un ulteriore passo verso l’universalità («Il doppio suicidio di Locke proietta una luce rivelatrice sul mondo occidentale, al quale egli appartiene, diventa esemplare di una condizione universale» annota Moravia), verso l’armonia e l’essenzialità. Forse l’unico passaggio pleonastico è il breve dialogo — troppo letterario — del vecchio che viene a sedersi vicino a Locke nel parco comunale di Barcel­lona: «C’è della gente che quando guarda i bambini immagina un mondo nuevo… io invece vedo soltanto la vieja tragedia che ricomincia e si ripete, sempre». Tutto questo Antonioni lo ha già detto, e splendidamente, con le immagini. Come osservava Camus dopo una rilettura di Moby Dick, «le immagini, i sentimenti moltiplicano la filosofia per dieci».

Cesare Biarese, Aldo Tassone, I film di Michelangelo Antonioni, Gremese Editore, 1985

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