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Gangs of New York (2002) | Recensioni

Recensioni italiane di "Gangs of New York", il film del 2002 diretto da Martin Scorsese. Nel film, ambientato durante lo svolgimento della Guerra Civile Americana, il giovane irlandese Amsterdam Vallon (Leonardo DiCaprio) cerca vendetta contro il gangster William Cutting, detto "il Macellaio" (Daniel Day-Lewis), assassino di suo padre.
Gangs of New York (2002)

Amsterdam (Leonardo DiCaprio) di origini irlandesi, esce di prigione deciso a vendicare la morte di suo padre, ucciso sotto i suoi occhi da Bill il Macellaio (Daniel Day-Lewis), il leader di una gang ferocemente avversa all’immigrazione. Prima di ammazzarlo, Amsterdam decide di conquistarne la fiducia e, nel frattempo, si innamora di Jenny (Cameron Diaz), abile borsaiola, prostituta e protetta di Bill.

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di Lietta Tornabuoni

Allora. Dopo tante chiacchiere e anteprime, dopo una pressione pubblicitaria anche esasperante, com’è Gangs of New York di Martin Scorsese? È un film potente, ridondante, epico-mitico, grandioso e ogni tanto tedioso, non sempre interessante, distante: cinque minuti di C’era una volta in America di Sergio Leone erano più emozionanti di queste 2 ore e 45 minuti. È un film dall’assunto ovvio: ogni nazione e metropoli è nata nella violenza e nel sangue dei conflitti d’unificazione o delle lotte d’indipendenza; l’America non fa eccezione e la cine-epopea del West l’ha sempre raccontato. È un film coraggioso, perché nel clima nazionalpatriottico attuale ci vuole ardire per presentare New York, la città colpita, come un luogo storico di criminalità e corruzione; o per presentare i pompieri, nuovi eroi, come rivali maneschi che si picchiavano tra loro lasciando fiammeggiare gli incendi. Si comincia nel 1846 con il maggiore scontro, nella misera delinquenziale zona di Five Points, tra immigrati irlandesi cattolici e indigeni protestanti, tra la banda dei Conigli Morti e quella dei Nativi Americani guidate da Liam Neeson e da Daniel Day Lewis: gli irlandesi vogliono spazio, gli americani intolleranti non vogliono stranieri. In una grotta sotterranea, i combattenti si armano per una lotta barbara e medievale combattuta con asce, mazze ferrate, mannaie, lance, pugni di ferro, picche, coltelli, uncini, spade, bastoni: alla fine, la neve sarà rossa di sangue. Si conclude nel 1863 della Guerra Civile con i Draft Riots, i tumulti contro la chiamata alle armi obbligatoria ma evitabile dai ricchi in grado di pagare un sostituto 300 dollari, durante i quali l’ira popolare generò massacri di neri, assalti, saccheggi e incendi di case signorili, quattro giorni e quattro notti di devastazione. Le due grandi battaglie, girate magnificamente, incorniciano un mondo di gangs, di violenza e politica alleate, di terribile povertà e di vizi instancabili. È questo sfondo, oltre al titolo, che Scorsese ha tratto dal libro che il cronista Herbert Asbury scrisse nel 1927 (editore Garzanti). Niente altro. Il resto appartiene completamente al film. I protagonisti, il giovane irlandese Amsterdam Vallon (Leonardo DiCaprio) deciso a vendicare l’uccisione del padre, l’assassino americano feroce Bill il Macellaio (Daniel Day Lewis), la bella ladra che tutti e due usano e forse amano (Cameron Diaz), la vendetta, l’ultimo corpo a corpo, l’enfasi mitizzante che manca di autentica intensità e rappresenta il lato debole di Gangs of New York. Gli episodi inesistenti nella Storia: la flotta non cannoneggiò mai la città, lo sgargiante edificio Barnum non venne mai dato alle fiamme. Difetti? C’è uno squilibrio tra la grazia di DiCaprio e la forza di Day Lewis (bravissimo però quasi irriconoscibile, rovinato da un paio di baffoni all’insù da pochade). Il ritmo è a volte zoppicante, reso sussultorio da salti, ellissi: si sa che Scorsese aveva filmato per cinque ore, che ha dovuto fare larghi tagli, e forse anche a questo si deve l’inopinato intervento di tre diverse voci narranti, l’ultima delle quali eccitata e euforica come per la radiocronaca d’una partita di calcio. L’anacronismo che ha indotto a girare il film all’antica, senza molti effetti, con centinaia di comparse, tutto in studio a Cinecittà (oppure in finti sotterranei, ambienti di gran risparmio), dà al film una patina antiquata. Ma persino le alterazioni fanno parte della bravura di Martin Scorsese: Gangs of New York non sarà il suo film migliore, ma testimonia la sua capacità di pensare in grande.

La Stampa, 24 gennaio 2003

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di Tullio Kezich

Gangs of New York mi appare come un film imponente, ma non ispirato. Sul tema arrivano da oltreoceano valutazioni contraddittorie: da una parte Martin Scorsese si porta a casa il meritatissimo Golden Globe per la migliore regia, dall’ altra le masse gli negano il consenso popolare. Qualcuno ha scritto che i campioni di questa epopea della rissa continua non hanno lo smalto degli eroi di Victor Hugo. È come avere davanti I miserabili senza Jean Valjan, Javert e Cosetta. Se DiCaprio fa la faccia feroce, troppo spesso gli sceneggiatori dimenticano il tema della vendetta di cui il divo è portatore. Molto lodato dalla stampa Usa, Daniel Day Lewis rischia di apparire una caricatura del vero Bill il Macellaio, morto del resto prima dei fatti che i l film racconta; e stretta fra i due litiganti la povera Cameron Diaz non esiste. Lo scenografo Dante Ferretti ha compiuto una memorabile impresa ricostruendo a Cinecittà la New York ottocentesca, tra quadri di orrore dantesco e massacri metropolitani. E tuttavia, nel rifiutare il realismo, la messa in scena rinuncia anche alla verità delle passioni e dei fatti. Per districarsi nella complicata trama bisogna tornare al libro originario, Le gang di New York di Herbert Asbury (Garzanti) dove appaiono chiare le motivazioni dell’ unico personaggio veramente storico, il politicante Boss Tweed (Jim Broadbent). Il quale, scoprendo negli immigrati irlandesi un inesauribile serbatoio elettorale, tradì i conservatori «nativisti», proprio come se oggi Berlusconi mollasse Bossi. Forse una certa confusione è nata dai tagli intervenuti nella tormentata edizione del mastodontico spettacolo, che non fa capire come e perché la ribellione contro la coscrizione obbligatoria nel 1863, repressa nel sangue da Lincoln, costò alla gente di colore l’ incendio di un asilo di bambini e il linciaggio di una decina di malcapitati. Congestionato e iperviolento, nella visione bellina a senso unico di Scorsese, Gangs of New York finisce per essere un gran carne vale di manierismo pantografato.

Corriere della Sera, 22 gennaio 2003

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di Emanuela Martini

«Chi si sarebbe mai sognato che la guerra potesse arrivare a New York?». E invece, nel 1863, la guerra infuria nelle strade di Manhattan: due anni prima il presidente Lincoln ha deciso di abolire la schiavitù e undici stati del sud si sono distaccati dall’Unione. La guerra di Secessione é lontana, ma gli uomini che vanno a combatterla, i proscritti, i volontari forzati, i pochi che sembrano crederci, partono da tutti gli stati, e soprattutto dagli strati più bassi. Le bare di legno che calano dalle navi (in un’inquadratura drammaticamente sintetica) si incrociano con i soldati in partenza per il fronte. Dilaga ovunque l’odio per i neri, considerati causa della guerra e uccisi e torturati a ogni angolo di strada da ogni etnia newyorkese, e cresce il furore contro le autorità che obbligano alla leva chiunque non possa pagare 300 dollari (e, contemporaneamente, comprano le elezioni, fanno votare i cadaveri, si servono dei peggiori delinquenti per eliminare o sabotare gli avversari). E un giorno il popolo più disgraziato di New York si ribella e insorge. Quattro giorni e quattro notti di orrore, un picco tra i tanti che animano e devastano costantemente Five Points, la zona della città che si estende tra il porto, Wall Street e Broadway, dove gli immigrati vivono ammucchiati, stivati in cunicoli per topi, e si combattono giorno dopo giorno per la supremazia, ladri, assassini, borseggiatori, pirati, prostitute, tirati da una parte o dall’altra da nuovi sindaci, nuovi politici, nuovi ricchi. Five Points era l’inferno, con i gironi orribili del degrado più spaventoso e demoni ghignanti e sanguinari, ma un inferno alimentato dalla compassata ferocia della New York che conta, sempre molto lontana dalla presunta età dell’innocenza. Gangs of New York, il film che Martin Scorsese ha voluto fare a ogni costo, ispirandosi al libro omonimo di Herbert Asbury, é l’altra faccia del suo capolavoro del’93: dove là il cinismo e gli interessi economici dei ricchi potenti tessevano una tela di ferro per reprimere gli istinti dei loro simili, qua, davanti ai socialmente inferiori, non badano a spese, e la violenza e lo sfruttamento si fanno concreti e fisici. Questo é il tessuto storico su cui scorre Gangs of New York, un tessuto reso palpabile dai molti indizi disseminati da Scorsese nelle immagini e nei dialoghi, mentre le bande di Five Points continuano a massacrarsi: a metà dell’800 dominano i Nativi, guidati da Bill il Macellaio, che sono un po’ più ricchi e un po’ più borghesi degli altri, indossano abiti alla moda e si fanno pagare dai politici, ma non sono per questo meno spietati. Intanto crescono gli irlandesi, la feccia del momento, brulicanti e miserabili. Quella che contrappone nel 1846 Bill il Macellaio e Padre Vallon é anche una guerra di religione, Cristiani contro Papisti; una guerra che si riaccenderà quando Amsterdam, il figlio di Vallon, verrà a reclamare vendetta, con quel coltello sulla cui lama il sangue é rimasto rappreso per diciassette anni. Barbaro, estremo e vertiginoso, Gangs of New York si regge su una matematica lucidità d’intenti: la Storia dei popoli e delle razze (tutte) é fatta col sangue, coi quarti di libbra strappati dal corpo dei nemici vinti, con le vendette che squassano le generazioni, con l’odio cieco nei confronti di un “altro” (uno qualunque). Ogni corpo esibisce o occulta le proprie ferite: l’occhio di vetro di Bill il Macellaio, le cicatrici sul torace e il marchio a fuoco sul viso di Amsterdam, la triste devastazione del ventre di Jenny, dal quale fu strappato un bambino. ogni razza conta i suoi morti e ogni città i suoi crateri e i suoi cimiteri. Cento anni dopo, gli irlandesi si saranno affrancati dalla miseria al punto di eleggere il presidente più amato del’900 (John Fitzgerald Kennedy). Oggi tocca ai neri altoborghesi contare, e non poco, negli equilibri elettorali del Paese. Il Bene e il Male, il giusto e l’ingiusto, stanno dovunque e da nessuna parte. Tra i personaggi di Scorsese non ce n’è uno che sia totalmente buono o totalmente cattivo: persino Bill il Macellaio ha altezze cavalleresche e tragici momenti di intimismo e dubbio; mentre Amsterdam non esita un istante ad appropriarsi delle armi e della furia oscena di nemici e predecessori. E quando tutto per un attimo si ferma, restano fumo, macerie, silenzio e polvere; e le civiltà risorgono sulle lapidi. Ieri come oggi.

Film TV, 28 gennaio 2003

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di Roberto Nepoti

No, Gangs of New York non è il capolavoro annunciato; o meglio, lo è solo in parte. Capolavoro a metà è un concetto che non regge? Sia pure: resta il fatto che il film, dopo aver mescolato per due terzi cose belle (la nervosa sequenza iniziale) con altre meno riuscite, nell’ultima parte decolla vertiginosamente offrendo allo spettatore un’ora di cinema memorabile. Liberamente tratto dal libro di Herbert Asbury, ospite del comodino di Martin Scorsese per una trentina d’anni, Gangs of New York è un “noir in costume” ambientato durante la guerra civile americana. Del film di gangster ci sono tutte le componenti fondamentali. Due bande si fronteggiano nel quartiere di Five Points: i Nativi, che si considerano americani perché nati sul posto, e i Dead Rabbits, immigrati irlandesi. Sono tribù barbariche, che si battono all’arma bianca in combattimenti rituali; durante uno scontro il capo della prima, Bill il Macellaio (Day-Lewis), uccide il leader dell’altra. Quindici anni dopo il figlio del morto, Amsterdam (DiCaprio), torna al vecchio quartiere e s’infiltra nella gang del Macellaio. Vuole vendicare il padre, ma è affascinato dal suo assassino; in più, s’innamora della donna di Bill, la cleptomane Jenny (Diaz). Fin qui, nulla di straordinario. Fatto salvo il talento visivo, anzi, alcune cose deludono: una certa insistenza nel “rifare” Sergio Leone, ad esempio, o la caratterizzazione esagerata di Day-Lewis che, tutto ghigno e cilindro, dovrebbe apparire cattivissimo e invece fa pensare a Ezechiele Lupo. Procedendo verso la fine, però, la storia nera ambientata in un contesto dickensiano cede il posto a un grande film politico, complesso e di un coraggio ammirevole. La grande battaglia che chiude la narrazione, come l’altra l’apriva, chiama in causa la Storia con la maiuscola: New York brucia per la rivolta – repressa sanguinosamente – contro la coscrizione obbligatoria (solo chi ha 300 dollari in tasca può evitare la guerra), gli scontri tra le fazioni d’immigrati, le aggressioni razziste. Così, Scorsese ci dice due o tre cose che sa sull’America, spiegandoci meglio di chiunque altro la fascinazione degli americani per la violenza e il loro stato di perenne paranoia. Ci dice che è un Paese di orfani inconsolabili (come i due protagonisti maschili lo sono del padre) delle rispettive terre d’origine. Ci dice che la violenza vera, definitiva è quella delle istituzioni e del potere politico. Ed ecco come è nata la grande nazione americana.

la Repubblica, 25 gennaio 2003

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di Giulia D’Agnolo Vallan

Così, nel 1841, Charles Dickens, in visita a New York, descriveva Five Points, quartiere nella parte sud di Manhattan che, all’incirca, corrisponde all’odierna intersezione tra Little Italy e Chinatown: “…è come se il mondo del vizio e della miseria non avessero altro da mostrare . . . tutto ciò che è detestabile, marcio e fatiscente si trova qui”. E’ il quartiere, e l’universo, dove Martin Scorsese ha ambientato il suo Gangs of New York. Enorme, controverso, ricchissimo, tra Dickens (l’Oliver Twist di David Lean) e Griffith (Intolerance), tra Raoul Walsh (The Bowery) e Sergio Leone (C’era una volta in America), Gangs arriva in sala dopo trent’anni di gestazione e (almeno) tre di lavorazione. Che Scorsese volesse fortissimamente questo film – al punto da stringere un patto col diavolo, e cioè con Harvey Weinstein, per realizzarlo – non stupisce, perché Gangs porta con sé non solo la genesi di New York (e degli Usa), ma anche tutti i grandi temi del cinema metropolitano di Scorsese: la riflessione sulla violenza, la centralità della religione, il mondo del crimine e i suoi rituali, il rapporto tra classi, la fascinazione per gli emarginati. Liberamente tratto dal libro del giornalista Herbert Asbury (pubblicato nel 1928 e edito da Garzanti ), Gangs si svolge nella Manhattan di metà ottocento, durante gli anni della prima ondata d’immigrazione (quella dei cattolici irlandesi), sullo sfondo della guerra civile, e culmina con la rivolta più sanguinosa mai avvenuta negli States: un’insurrezione contro la leva che mise la città a ferro e fuoco e durante la quale morirono forse duemila persone, una specie di versione iperbolica dell’incendio di Atlanta in Via col vento. Il set è una downtown miserabile e barocca, un Far West, dove criminali, polizia e potere politico locale stanno dalla stessa parte, dove gang che si chiamano Dead Rabbitts o Bowery Boys combattono micidiali battaglie di strada armati di coltelli, mazze, pietre, carcasse di topi imbottiti di piombo e denti limati come quelli di Dracula. La birreria locale è una costruzione che sprofonda sotto terra per parecchi piani, come gironi dell’inferno, mentre su palcoscenici pericolanti si mette in scena La capanna dello zio Tom, si lanciano coltellacci e sorridono ineffabili ballerine cinesi. Scorsese, che racconta di aver scoperto da piccolo la storia di quel quartiere così vicino a quello in cui è cresciuto, ha ricostruito a Cinecittà una New York che nasconde in sè anche parecchio del cinema di avventura che il regista guardava da bambino: prima ancora di quello dello spettatore, l’occhio ammaliato da questo affresco incredibile è proprio il suo. La trama del film: Amsterdam (Leonardo DiCaprio) di origini irlandesi, esce di prigione deciso a vendicare la morte di suo padre, ucciso sotto i suoi occhi da Bill il Macellaio (Daniel Day-Lewis), il leader di una gang ferocemente avversa all’immigrazione. Prima di ammazzarlo, Amsterdam decide di conquistarne la fiducia e, nel frattempo, si innamora di Jenny (Cameron Diaz), abile borsaiola, prostituta e protetta di Bill. Se nella love story DiCaprio/Diaz Weinstein vedeva gli ingredienti di un Titanic “made in Miramax”, le preoccupazioni di Scorsese – e anche degli attori, tutti molto bravi – sembrano decisamente altre. E i pubblicizzatissimi scontri tra regista e produttore, le varie riscritture della sceneggiatura, i tagli, ci arrivano riflessi nel film, impressi sulla pellicola, sotto forma di (due) intenzioni diverse, spesso opposte. Il che, hanno scritto i critici americani, fa di Gangs un film imperfetto, un capolavoro mancato. In realtà non è una definizione importante: Gangs è uno dei grandi film di Scorsese, e uno dei più grandi film sull’America. È anche un oggetto orgogliosamente anacronistico (probabilmente l’ultimo dei grandi kolossal ricostruiti in studio) e un film che ha il coraggio di finire sullo skyline di New York con ancora le Twin Towers in piedi, ricordando all’America di oggi che non può non guardarsi indietro, dimenticare quello che è stata, e, allo stesso tempo, che non può non guardare avanti, negare “l’altro”, ciò che viene da fuori. Perché questa è esattamente la sua storia.

Ciak, 1 gennaio 2003

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di Silvio Danese

Opera nata per l’epica americana sotto l’egida della sineddoche (la parte per il tutto: le radici di New York per l’America), è la ricostruzione, in chiave western romantica, degli scontri tra bande, nativi contro irlandesi, per il dominio della nascente organizzazione sociale, civica, poliziesca e politica. La grandiosa ricostruzione delle abitazioni, falansteri collettivi e sotterranei cavernosi firmati da Ferretti a Cinecittà, nella luce seppia di Ballhaus, è lo spazio di risonanza della violenza del Macellaio, un dandy volgare e sanguinario, e della vendetta di Amsterdam. Scorsese è un grande scrittore: onore e sfida, coraggio e paura, deferenza e oltraggio escono dalle pagine di Dickens e Shakespeare diventando carne, azione, passione e cronaca, nonostante qualche inadeguatezza del cast. È da discutere se la frequente impressione di trovarsi in un set-affresco, anziché nel near-west “vero” di New York 1850, sia un limite e non invece la metafora stilizzata della catastrofe nostra contemporanea. Da vedere.

Il Giorno, 24 gennaio 2003

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Gangs senza Weill, gangs senza Brecht

di Giovanni Maria Rossi

Poteva essere Birth of a Nation + Intolerance, la riscrittura griffithiana della storia americana e del linguaggio cinematografico secondo Scorsese. Non è andata proprio così. Il soffio dell’epica (qualche benevolo recensore italiano ha scomodato Omero, oltre che Shakespeare e Dickens) si è fatto troppo spesso travolgere dalla nuvoletta dei comics, strisce affrescate con cura e dai personaggi fragili, essenzialmente per le smagliature e gli eccessi di una sceneggiatura (Jay Cocks, anche soggetto, Steven Zaillian, Kenneth Lonergan) che stenta a trovare un equilibrio drammaturgico tra le vicende individuali – una comunissima, archetipica storia di vendetta privata – e le pagine occulte e tragiche dei libri di Storia che un fantasioso reportage del giornalista Herbert Asbury aveva riportato alla luce nel 1928.

Curiosità o coincidenza: in quello stesso anno Bertolt Brecht e Kurt Weill misero in scena l’Opera da tre soldi, che sotto molti aspetti – non certo per l’ironia e la lucidità ideologica – può aver ispirato Gangs: gli slums di Soho, le folle cenciose e violente dei mendicanti e della criminalità londinese, il bandito dandy e spietato Mackie Messer dal coltello facile, la prostituta Jenny delle Spelonche, il corrotto capo della polizia Brown.

Ma il film di Scorsese, senza il coraggio di stilizzare fino in fondo una coreografia scandita dalle songs, si riveste di un immaginario splendido e ridondante, intasato di visioni in Technicolor e Cinemascope accumulate negli anni dell’adolescenza, western, reziari, gladiatori, Ben Hur, corsari, swashbucklers, Via col vento, e ricostruite nella maturità alla scuola severa di Sergio Leone. Senza leggerezza.

Nel sordido crocicchio di Five Points, Lower Manhattan, gli eventi e le personae si affastellano nell’arco di circa vent’anni, dalla cruenta carneficina all’arma bianca tra immigrati irlandesi e sedicenti nativi americani (1846) ai disordini di New York contro la coscrizione obbligatoria, sedati a colpi di cannone dalla Marina nordista (Draft Riots, 1863).

Tra le pieghe della Guerra Civile, parto traumatico della nazione americana, Scorsese ha trovato le radici di una violenza ancora più assoluta, endemica, scaturita dalla miseria, dall’intolleranza religiosa e razziale, dalla difesa ferina del territorio e del malaffare. Altro che melting pot e Grande mela delle opportunità! Altro che ideali democratici e umanitari! Five Points, New York, per il cattolico Martin è l’anticamera dell’Inferno, l’Inferno stesso, con espliciti riferimenti danteschi ai gironi e ai peccati capitali che il satanico Bill the Butcher (Bill il Macellaio) sembra esercitare in serie completa, con soddisfazione e impunità.

Corrotti i politici, corrotti i poliziotti, corrotti i vigili del fuoco, corrotti i predicatori, è la guerra per bande di tutti contro tutti, la terra s’impasta del sangue dei dannati che vivono nelle malebolge urbane e dal cimitero di Brooklyn si può scorgere lo skyline nebbioso della metropoli all’alba dell’11 settembre, 2001, in un cerchio senza fine né riscatto. Nello spazio scenico grandioso creato da Dante (!) Ferretti, multicentrico, polifonico, la rappresentazione cerca di svincolarsi dai moduli realistici, stemperando in grottesco le più trucide e inverosimili azioni di violenza, ma resta greve, appesantita dai dettagli maniacali, aggrovigliata dalla compresenza di corpi e lame e ghigni e squarci che ingenerano assuefazione più che classica catarsi.

Solo di tanto in tanto magnifici voli d’angelo di dolly e gru si sollevano sullo spettacolo opprimente di questi conflitti primari, lasciando un varco alla riflessione, prima di riscivolare a terra tra le fughe e i colpi e gli schizzi di sangue. A differenza dei dipinti di Brueghel – di cui qualcuno ha trovato riverberi in Gangs – dove tutto è simultaneo e affollato nel frame, senza che l’armoniosa unità narrativa venga incrinata dai singoli episodi raffigurati, il film di Scorsese affonda a volte in troppe scene convulse dove lo sguardo dello spettatore si mescola e si perde, smarrendo il senso del racconto e quindi della Storia. Ma forse è questo il sottofondo shakespeariano che abbiamo invano cercato in tutti i 168 minuti del film: “Life… is a tale / told by an idiot, full of sound and fury, / signifying nothing”.

Drammaturgia.it, 4 febbraio 2003

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Gangs of New York: il cerchio di neve delle religioni

di Marco Luceri

Ritardi su ritardi, ma alla fine ci siamo. Preceduto da un clamore mediatico e da un’attesa spasmodica che ne hanno fatto una leggenda già prima del lancio, attesissimo all’ultimo festival di Cannes dove non è mai arrivato, finalmente è uscito anche nelle sale italiane il nuovo film di Martin Scorsese.

Sicuramente dedicare l’attenzione alle fasi che hanno portato alla realizzazione del film potrebbe essere un elemento interessante per capire quanto il regista newyorkese, nel parlare della “sua” New York (e dunque della “sua” America) abbia voluto osare nei confronti della sua stessa città e del suo Paese, nel dipingerne la Storia e forse anche la mitologia.

Girato infatti interamente a Cinecittà (che per una volta è tornata ai vecchi fasti), Gangs of New York parla innanzitutto del suo creatore, Martin Scorsese. Che il regista italo-americano avesse in mente (o magari nel cuore…) di girare un film importante nell’officina dove furono realizzati alcuni tra i maggiori capolavori del cinema italiano, non era un mistero da tempo. Ma per un film come questo, che parla di radici e di legami di sangue in maniera così diretta ed epica, il discorso assume un valore simbolico molto più importante. Le radici che legano Scorsese, figlio di emigranti, come regista al cinema italiano e come uomo all’Italia, hanno consentito un’operazione di recupero di un certo alveo di situazioni, storie, atmosfere che devono al sacro, contemporaneo quanto contraddittorio sentimento di sradicamento e di desiderio di radici la loro ragione di sviluppo e di immissione in una Storia altra come quella Americana, la terra dove tutto è possibile, anche ri-nascere, anche però morire innumerevoli volte.

L’elemento autobiografico diventa allora una singolarissima molla per far scattare un complesso sistema di riletture personali della Storia dell’America , ed in primo luogo del Cinema che questa Storia l’ha raccontata. Con Gangs of New York si voltano definitivamente le spalle a tutta una tradizione hollywoodiana che voleva che l’America nata con la lunga conquista del West, il lontano Ovest sconosciuto, la terra di nessuno su cui portare i valori di democrazia, libertà, giustizia dei coloni dell’Est, nato dalla Dichiarazione d’Indipendenza. Il lungo sogno americano, immortalato da decine e decine di film che avevano in Ford il maestro riconosciuto, qui lascia tremendamente il passo. Alle sperdute vallate dell’Ovest si sostituiscono le brulicanti strade della città dell’Est che esplode per le contraddizioni razziali, alle guerre con gli indiani si sostituisce la guerra di Secessione, ai valori della Carta quelli del Sangue, all’unica bandiera molti simboli sacri. Il filo che lega Scorsese alla tradizione è allora forse quello che passa attraverso il Griffith di Intolerance o di Nascita di una nazione, un antico filo rosso che si sviluppa sulle contraddizioni interne e non su quelle esterne.

Simboli sacri, si diceva. In effetti la componente religiosa in questo film è fondamentale, e non solo perché una delle due parti in lotta è irlandese (ed è noto il particolare rapporto con la religione che ha questo popolo), ma anche perché è proprio l’eccesso di simbologia religiosa (in senso lato) che conferisce quell’aura di sacralità, quella dimensione mitica ai personaggi che ne determina pesantemente le scelte; la loro è una religiosità istintiva, irrazionale, sanguinaria, come ben dimostra la stupenda, affollatissima scena d’apertura del film: a ritmo di rullo di tamburi e vecchie litanie della madrepatria, Scorsese ci accompagna nel cammino di questi “santi guerrieri” che dalle oscure caverne escono fuori nella calma, fredda e silenziosa cornice innevata del quartiere; sono solo attimi, quando la controparte fa il suo ingresso nell’arena e le regole dell’onore sono ripetute anche sul campo di battaglia, il silenzio lascia il posto alla violenza ferina dello scontro, tutto “fisico”, che si chiude con la morte del Padre Vallon (Liam Neeson) e la fuga del piccolo figlio.

Nel cuore di New York (come ci sottolinea lo stupendo, lunghissimo dolly che chiude la scena) si muore con onore e con onore si rinasce. Il filo che lega le storie di padre e figlio è ancora una volta un rasoio, una formula in forma di rito, un medaglione, ancora una volta simboli sacri. Le medagliette che portano al collo i tre personaggi principali, il nativo Bill le Boucher (un superlativo Daniel Day-Lewis), la giovane bellissima Jenny (Cameron Diaz), e l’irlandese Amsterdam (Leonardo Di Caprio), scandiscono e suggellano l’evolversi della storia: tutti e tre hanno e si scambiano questi oggetti del destino: chi ne ha troppi perché li ruba senza capirne il vero valore prima di perderli (Jenny), chi li dona per amore e poi vuole riottenerli come segni di tradimento (Bill), chi giura su di essi la missione della propria vita e del proprio amore (Amsterdam). Perché avere un medaglione significa avere una storia, appartenere ad una tribù, avere radici e poter proclamare il proprio posto nel mondo.

La contrapposizione che lega le due figure principali del film, Bill e Amsterdam, è più fittizia che reale, vive cioè piuttosto nell’immagine della fabula, che non nella realtà drammaturgica: i due uomini non si contrappongono, si completano l’un l’altro in un movimento che si sviluppa in tre parti: la fuga del piccolo dopo la morte del padre, il tempo che i due passano l’uno a fianco all’altro, lo scontro fino alla morte di Bill. Ma, a parte la preponderanza tematica della seconda parte, è il carattere circolare di tutto il movimento che avvicina le due figure in uno spazio complementare. Alla fine infatti i due giacciono per terra l’uno di fronte all’altro, coperti di sangue e polvere (sepolti dagli avvenimenti della Storia che hanno impedito loro di misurarsi in una vera lunga battaglia), come in un sepolcro; subito dopo l’ultima immagine di Bill è ancora una volta l’immagine di una tomba, ma la sua tomba, il suo posto per l’Eternità, è al fianco di Padre Vallon, in un ideale storia continua che si perpetua, grazie all’onore, sul senso della morte e del sangue, che lega vite a vite, tribù a tribù, simboli a simboli, radici a radici.

Alla fine rimane la Storia, quella collettiva, con le rapidissime dissolvenze che ci narrano in pochi istanti la storia di un secolo e mezzo di America, e la voce di Bono, che canta sui titoli di coda “These are the hands that build America”, sono queste le mani che hanno costruito l’America, la sua Storia e, forse, anche il suo Mito.

Drammaturgia.it, 4 febbraio 2003

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