Nel febbraio 1966, il regista già autore de La Strada, La Dolce Vita e 8½, dopo aver finito di girare Giulietta degli Spiriti – e dopo un paio di settimane per far “raffreddare il cervello” – incontra due inviati di Playboy, tra la spiaggia di Fregene e Roma, per parlare di cinema. E della sua visione personale su sesso e amore
di Curtis Pepper & Marika Aba
Anche i suoi detrattori riconoscono che, qualunque altra cosa possa essere, Fellini è irrefrenabile, inimitabile, eternamente se stesso. Sul piano visivo, tutti i suoi film recano il timbro inconfondibile di una tecnica di regia ricca di inventiva; e, sotto la facciata di bravura, tutti i suoi protagonisti condividono una duplice ricerca: verso il calore umano, solitamente attraverso le persone “sbagliate”, e verso la propria identità, di solito nei posti sbagliati. Figlio di un grossista di vini e generi alimentari di Rimini, Fellini crescendo non ha preso né le discipline della scuola parrocchiale, né i comfort tranquilli della classe media cui apparteneva: per dirne una scappò da scuola a 12 anni per far parte di un circo ambulante, come apprendista clown. Quando ha finito di girare Giulietta degli Spiriti alla fine dello scorso anno, abbiamo aspettato un paio di settimane, su consiglio di amici, «perché il suo cervello avesse modo di raffreddare», quindi abbiamo telefonate a Fellini nella sua casa nella vicina spiaggia di Fregene, sulla costa tirrenica – dove si stava ancora riprendendo da «la prova squisita», come la chiamava lui – e abbiamo esposto la nostra richiesta di un’intervista esclusiva. Avevamo sentito dire che sarebbe stato riluttante a parlare, in un primo momento, ma espansivo e loquace una volta convinto. E così è stato. La settimana successiva, nella sua casa senza pretese di Fregene, ci ha ricevuto con calorosa ospitalità per la prima delle nostre conversazioni. Proseguite poi nella sua berlina Mercedes nera lungo la strada dalla spiaggia allo studio, nel suo comodo appartamento nel quartiere chic di Roma, i Parinoli, e durante il lavoro in sala di doppiaggio, dove ha curato la traduzione di Giulietta in inglese. Abbiamo iniziato l’intervista con una candida, anche se non particolarmente seducente, questione personale.
PLAYBOY: Tra i tuoi amici, hai la reputazione di uno che le spara grosse. Uno di loro è arrivato a definirti «un colossale, compulsivo, consumato bugiardo». Qual è la tua reazione?
FELLINI: «Almeno mi dà credito di essere consumato. Chi vive, come faccio io, in un mondo di immaginazione deve fare uno sforzo enorme e innaturale per essere reale, concreto nel senso comune del termine. Sarei un terribile testimone in un tribunale – e anche un terribile giornalista. Mi sento in dovere di raccontare una storia secondo il mio modo di vedere, e questo è raramente il modo in cui è davvero accaduta».
PLAYBOY: Sei stato accusato di ricamare scandalosamente la verità anche nel raccontare la tua vita. Un amico dice che hai dato quattro versioni completamente diverse della rottura con la tua prima fidanzata. Perché?
FELLINI: «Perché no? Lei vale anche più versioni. Che bella ragazza! Le persone valgono molto di più della verità, anche quando non appaiono favolose come era lei. Se vuoi chiamarmi bugiardo per questo, ti rispondo che è indispensabile per consentire a un cantastorie di dare colore a una storia, approfondirla, a seconda del modo in cui ritiene debba essere raccontata. Lo faccio nei miei film e faccio lo stesso con la vita».
PLAYBOY: La maggior parte dei critici concorda sul fatto che la tua tecnica di narrazione è davvero esaltante, ma sono in disaccordo, in molti casi, sulla morale e il significato dei tuoi film. Questo ti riguarda?
FELLINI: «I critici devono capire i miei film? Non basta che divertano il pubblico?».
PLAYBOY: I tuoi film intendono principalmente divertire, allora, o il loro appeal al box-office è secondario agli intenti filosofici?
FELLINI: «Non sono interessato alla popolarità, ed è inutile parlare di intenti filosofici. Dopo ogni scena spesso non ricordo quelle che erano le mie intenzioni. Le intenzioni sono solo strumenti per metterti in condizione di fare qualcosa, per iniziare. Molte grandi opere sono fatte bene, nonostante il loro intento originale. Pascal, per esempio, ha scritto i Pensées per dimostrare la non esistenza di Dio e ha finito per fare esattamente l’opposto. Prendi La Dolce Vita. Quello che avevo intenzione era di mostrare lo stato d’animo di Roma, un modo di essere di un popolo. Quello che è diventato è un scandaloso report, un affresco di una strada e di una società. Ma non vado mai a Via Veneto – non è la mia strada. E non ho mai frequentato le feste degli aristocratici – io non ne conosco. La stampa di sinistra l’ha preso come un reportage su Roma, ma poteva non essere Roma, avrebbe potuto essere Bangkok o mille altre città. L’avevo inteso come un report su Sodoma e Gomorra, un viaggio nell’angoscia e nella disperazione. Intendeva essere un documento, non certo un documentario».
PLAYBOY: Ma se ci limitiamo all’impulso iniziale che li ha ispirati, c’è un tema comune che lega i tuoi film?
FELLINI: «Il mio lavoro non può essere altro che una testimonianza di quello che sto cercando nella vita. È uno specchio della mia ricerca».
PLAYBOY: Ricerca di che cosa?
FELLINI: «Di poter liberare me stesso. A questo proposito, credo, non ci sia scissione o differenza di contenuto o di stile in tutti i miei film. Dal primo all’ultimo, ho lottato per liberare me stesso – sempre dal passato, dalla formazione inculcatami quando ero bambino. Questo è quello che sto cercando, anche se attraverso personaggi, tempi e immagini diversi».
PLAYBOY: In che senso vuoi sfuggire al tuo passato?
FELLINI: «Sono stato gravato, durante l’infanzia, da un bagaglio inutile che ora voglio togliermi dalla schiena. Voglio diseducare me stesso da questi concetti senza valore, in modo da tornare alla mia personalità verginale, a una rinascita del vero intento e del vero sé. Non voglio perdermi in un insieme collettivo che non si adatta a nessuno perché è fatto su misura per tutti. Ovunque io vada, con la coda dell’occhio vedo dei giovani che si spostano in gruppi, come branchi di pesci. Quando ero giovane, ci muovevamo in direzioni diverse. Ci stiamo sviluppando in una società come le formiche, in blocchi e colonie? Questa è una delle cose che temo più di ogni altra cosa. Io detesto la collettività. La grandezza e la nobiltà dell’uomo consistono nell’emergere dalla massa. Come si libera da essa è un suo problema personale e una lotta privata. Questo è ciò che i miei film descrivono».
PLAYBOY: Un esempio reale da uno dei tuoi film?
FELLINI: «In 8½, Guido nella sua infanzia è imprigionato dalle norme e della società con senso di colpa e frustrazione. Molti di noi sono condizionati da una formazione simile. Poi, crescendo, ci troviamo in un profondo conflitto creato dall’averci insegnato a idealizzare la nostra vita, a perseguire gli ideali estetici ed etici del bene o del male assoluto. Questo impone standard impossibili e aspirazioni irraggiungibili che possono solo impedire la crescita spontanea di un normale essere umano, e possono plausibilmente distruggerlo. Si arriva a un momento nella vita in cui si scopre che ciò che ti è stato detto a casa, a scuola o in chiesa, non è vero. Si scopre che questo vincola il tuo sé autentico, il tuo istinto, la tua vera crescita. E questo apre uno scisma, crea un conflitto che deve essere risolto alla fine – o vi soccombi. In tutte le forme di nevrosi c’è questo contrasto tra alcune forme di idealizzazione e una forma estetica contraria. Tutto è iniziato con i greci, quando sancirono uno standard classico della bellezza fisica. Un uomo che non corrispondeva a quel tipo di bellezza si sentiva escluso, inferiore. Poi venne il cristianesimo, che ha istituito una bellezza etica. Questo ha raddoppiato i problemi dell’uomo, creando la doppia possibilità che non fosse né bello come un dio greco, né come un santo cattolico. Inevitabilmente, si erano resi colpevoli di una non bellezza o non santità, e probabilmente entrambe le cose. Così si viveva in disgrazia: l’uomo non ti amava, né Dio, quindi rimanevi al di fuori della vita».
PLAYBOY: E oggi?
FELLINI: «In forma modificata, questa tendenza etica-estetica prevale ancora, e non c’è scampo da essa attraverso la semplice negazione, anche se molti hanno provato. Si può sfuggire in maniera molto semplice, però: rendendosi conto che, se non sei bello, va bene comunque, e se non sei un santo, va bene lo stesso – perché la realtà non è idealità. Ma questa accettazione di sé può verificarsi solo quando hai capito un fatto fondamentale della vita: che l’unica cosa che esiste è se stessi, il tuo vero sé individuale in profondità, che vuole crescere spontaneamente, ma che è incatenato dalle bugie inefficaci, dai miti e dalle fantasie che propongono una morale irraggiungibile o la santità o la perfezione: tutto ciò ci fa il lavaggio del cervello durante la nostra infanzia indifesa».
PLAYBOY: Dopo essersi liberati dal passato, che succede?
FELLINI: «Poi si è liberi di vivere nel presente, e non cercare di volare in maniera vile verso il proprio passato, o anche verso il futuro».
PLAYBOY: In che modo verso il futuro?
FELLINI: «Voglio dire che dobbiamo interrompere la proiezione di noi nel futuro, come se fosse pianificabile, prevedibile, tangibile, controllabile – non lo è – o come se si trattasse di una dimensione esistente al di fuori e al di là di noi stessi. Dobbiamo imparare a trattare le questioni così come sono, non come speriamo o temiamo possano essere. Dobbiamo affrontarle così come esistono oggi, adesso, in questo momento. Dobbiamo risvegliare il fatto che il futuro è già qui, da vivere nel presente. In breve, svegliarsi e vivere!».
PLAYBOY: Sebbene spesso i tuoi protagonisti, alla fine della loro odissea spirituale, imparino a convivere con se stessi come sono e con la vita così com’è, alcuni hanno interpretato il loro risveglio come una rassegnazione fatalistica alla condizione umana.
FELLINI: «No, no! Non una rassegnazione fatalistica, ma l’accettazione positiva della vita, un proliferare di amore per la vita. Il ritorno di Guido alla vita in 8½ non è una sconfitta. Piuttosto, è il ritorno di un vincitore. Quando si rende conto, infine, che non sarà mai in grado di risolvere i suoi problemi, solo di poter vivere con essi -quando si rende conto che la vita stessa è una confutazione costante della decisione – egli sperimenta un’euforica rinascita di energia, un ritorno di un profondo sentimento religioso. Egli è in pace con se stesso finalmente, libero di accettare se stesso così com’è, non come avrebbe voluto essere o avrebbe potuto essere. Questo è il finale ottimista di 8½».
PLAYBOY: Giulietta degli spiriti non ha essenzialmente la stessa morale?
FELLINI: «In sostanza, sì – soltanto trasportata in un altro piano più profondo, con sfumature più decadenti, e detto in modo meno realistico. Giulietta sfiora i miti all’interno della psicologia umana, le sue immagini, quindi, sono quelle di una favola. Ma si tratta di una realtà più profonda dell’uomo: l’istituzione del matrimonio e la necessità all’interno di esso della liberazione individuale. È il ritratto di una donna italiana, condizionata dalla nostra società moderna, ancora un prodotto di deforme formazione religiosa e dogmi antichi – come quello di sposarsi e vivere felici e contenti. Quando cresce e questo non si è avverato, lei non può né affrontare né capire, e così scappa in un mondo privato di ricordi di ieri e di un domani mitico. Tutto quello che fa è influenzato dalla sua infanzia, che ricattura in visioni ultraterrene, e dal futuro, che lei porta alla vita in fantasie bizzarre e vivaci. Il presente per lei esiste solo nella irrealtà elettronica di spot televisivi. Lei viene finalmente svegliata da queste visioni dall’abbandono del marito: ma questo compimento della sua più grande paura diventa l’episodio più positivo della sua vita, perché la costringe a trovare se stessa. E questo le dà la lungimiranza di capire che tutte le paure – i fantasmi che vivevano intorno a lei – erano dei mostri della sua creazione, generati da un’educazione distorta e da una fraintesa religione. Si rende conto che gli spiriti si sono resi necessari, anche utili, e meritano di essere ringraziati, e nel momento in cui li ringrazia, non li teme e odia più, e si trasformano in positivo, in esseri che sono per lei piacevoli».
PLAYBOY: C’è qualche messaggio specifico in questo per tutti noi?
FELLINI: «Una lezione – una lezione che tutti dobbiamo imparare – come Giulietta ha finalmente fatto: che il matrimonio, se si vuole sopravvivere, deve essere considerato come l’inizio, non come il lieto fine, che è qualcosa su cui si deve lavorare; ma anche che non è l’alfa e l’omega dell’esistenza umana, e che non deve essere qualcosa che si accetta dal di fuori, come un tabù inviolabile. Perché non ammetterlo? Il matrimonio come istituzione deve essere riesaminato. Viviamo con troppe ideologie che non funzionano. L’uomo moderno ha bisogno rapporti più ricchi».
PLAYBOY: Di che tipo?
FELLINI: «Extraconiugale e prematrimoniale. L’uomo non è fondamentalmente un animale monogamo. Il matrimonio è la tirannia, una violazione e la mortificazione dei suoi istinti naturali. Una donna, d’altra parte, tende a creare un mondo intorno a un solo uomo. La tragedia dell’uomo moderno è che ha bisogno di una molteplicità di relazioni individuali, considerando che, almeno nella cultura in cui vivo io, è ancora costretto nello stampo single-accoppiato. Senza di esso, la sua vita potrebbe evolvere in qualcosa di interessante, in un’evoluzione superiore. Curiosamente, i molteplici ruoli delle infedeltà sembrano tirare fuori il meglio in alcuni uomini; se non fosse per il senso di colpa, potrebbe farlo nella maggior parte degli uomini».
PLAYBOY: Quello che stai suggerendo è completamente in contrasto con gli insegnamenti della Chiesa cattolica. Non sei un cattolico?
FELLINI: «È difficile biologicamente e geograficamente non essere un cattolico in Italia. È come una creatura nata sotto il mare – come non può essere un pesce? Per uno nato in Italia, è difficile non respirare, a partire dall’infanzia, questa atmosfera cattolica. Uno che viene da genitori italiani, passa l’infanzia in Italia, entra nella Chiesa da bambino, fa la comunione, assiste a funerali cattolici – come può non essere altro che un cattolico? Ho una grande ammirazione per coloro che si dichiarano laici indipendenti – ma non vedo come ciò possa avvenire in Italia. Presto o tardi, tuttavia – anche in Italia – ogni uomo deve fare l’inventario di sé, determinare fino a che punto egli è un cattolico, o forse non lo è per niente».
PLAYBOY: La tua caricatura spietata degli ecclesiastici cattolici, specie in 8½, ha indotto alcuni teologi a questa conclusione su di te. Hanno ragione?
FELLINI: «Dicano ciò che vogliono. In una forma non classificata, penso di essere profondamente religioso – perché accetto gli infiniti misteri della vita senza conoscere i suoi confini finiti, li accetto con gioia. È questo essere anti-cattolico e anti-religioso? Quando parlo in maniera polemica del deformare i nostri figli con il dogma cattolico, sto parlando di una inflessibile applicazione della Controriforma cattolica. Gli insegnanti cattolici di Guido in 8½ sono stati mostruosi e insensibili, ma non hanno nulla a che fare con Papa Giovanni XXIII, per esempio, che ha cercato di spazzare via tutta questa ignoranza e ci aiuta a riscoprire la vera fede cristiana. Se un tipo di falsa e fuorviante educazione cattolica genera sensi di colpa, inibizioni e complessi, allora dico che è non solo giusto ma necessario individuarla – e, se possibile, eliminarla».
PLAYBOY: In questo includi il cosiddetto doppio standard di moralità nei confronti delle donne, che le divide in “brave” ragazze e “cattive” ragazze?
FELLINI: «Assolutamente. Soprattutto per noi cattolici, la donna è vista come lo spirito o la carne, come l’incarnazione della virtù, la maternità e la santità o l’incarnazione del vizio, della prostituzione e della malvagità. Il problema è quello di trovare il legame tra questi opposti. Ma è difficile, perché non sappiamo chi è la donna. Lei rimane in quel luogo preciso in cui comincia l’oscurità dentro l’uomo. Parlare di donne significa parlare della parte più oscura di noi stessi, la parte non sviluppata, il vero mistero intimo. In principio, credo che l’uomo fosse completo e androgino – sia maschio che femmina, o nessuno dei due, come gli angeli. Poi venne la divisione, ed Eva è stata sottratta da lui. Quindi il problema per l’uomo è di riunire sé stesso con l’altra metà del suo essere, trovare la donna che sia giusta per lui – giusta perché lei è uno specchio di se stesso. Un uomo non può diventare completo o libero fino a che non ha liberato la donna – la sua donna. È sua responsabilità, non di lei. Egli non può essere completo, veramente vivo, fino a quando non la rende la sua compagna, e non una schiava per atti di libidine o una santa con un’aureola».
PLAYBOY: Dai quindi il benvenuto come una sana tendenza alla sempre maggiore libertà sessuale, di cui attualmente godono i film, interviste e i locali – e la nudità che vi si mostra?
FELLINI: «Fa tutto bene, perché solleva il velo di mistero e oscurità, l’aspetto clandestino del sesso che lo deforma. Pensa a ciò che una donna deve sembrare a un uomo in carcere, come alcune parti del suo corpo gli devono apparire lussureggianti. Liberato, si affretta a casa dalla sua ragazza con visioni deformate. Voracemente, ri-esplora il paese dimenticato del corpo della donna, ma i desideri mostruosi sono presto pacificati, e il mito femminile diventa una normalità, ancora una volta».
PLAYBOY: Sei d’accordo con coloro che ritengono che una donna totalmente nuda perda molto del suo mistero?
FELLINI: «Solo il suo mistero visivo. Dal momento che la donna rappresenta la metà nascosta di noi, il mistero religioso di accoppiamento con la nascita, la mistica, la fusione erotica che integra tutto l’uomo, è chiaro che sarà sempre in possesso di segreti insondabili invisibili anche per l’occhio interiore. Quindi non vedo alcun motivo per mantenere la sua coperta verso l’esterno, per mantenere le sue ricchezze terrene sepolte, simili a un tesoro di un pirata nelle viscere della terra».
PLAYBOY: Le donne nei tuoi film – prede o predatrici, sante o sensuali – tutte sembrano essere molto più vibranti e positivamente vive rispetto agli immobili protagonisti maschili. Perché?
FELLINI: «Trovo le mie figure femminili – come Anita Ekberg e Sandra Milo – più eccitanti da creare, forse perché la donna è più intrigante dell’uomo, più sfuggente, più erotica, più stimolante».
PLAYBOY: Che cosa ti ha spinto a dare alla Ekberg, la cui carriera era in discesa, il ruolo di star come femmina voluttuosa in La Dolce Vita?
FELLINI: «Lei incarnava in ogni dettaglio la mia immagine mentale del ruolo. La sua precedente carriera era irrilevante».
PLAYBOY: Come sei riuscito a trasformarla in un sex symbol come non era mai riuscita a diventare a Hollywood?
FELLINI: «Le ho solamente fornito la parte migliore per ottenere, forse per la prima volta, il pieno impatto della sua sensualità stravagante. Non ho praticato alcuna misteriosa alchimia. Non ho fatto altro che tirare fuori il meglio di lei, cosa che faccio con tutti i miei altri attori».
PLAYBOY: La maggior parte degli attori sono preparati a impersonare qualcun altro, un personaggio fittizio. Tu invece desideri che rappresentino se stessi. Non c’è un conflitto di interessi?
FELLINI: «Non proprio. Una volta che si sono abituati all’idea di ripiegarsi su se stessi piuttosto che verso l’esterno, la maggior parte trova che questo venga più naturalmente, che permetta loro di portare più autenticità. Per molti ruoli, naturalmente, solo una parte del carattere dell’attore potrà avere a che fare con il personaggio che sta interpretando, quindi non chiedo loro di essere completamente spontanei, ma di essere selettivamente auto-rivelatori. Ma anche quando vi è una profonda identificazione tra attore e ruolo, egli non si limita a riprodurre se stesso. Io gli chiedo di esporsi gradualmente, strato dopo strato, fino a raggiungere il livello in cui si fonde completamente con il personaggio. Anche se le sue motivazioni nel subconscio e le reazioni saranno quelle dell’uomo che sta impersonando – e viceversa – l’identità dell’attore e della parte devono rimanere un’illusione drammatica, la sua spontaneità apparente deve essere studiata, la sua naturalezza premeditata. Nonostante il suo rapporto con il ruolo, saranno necessarie tutte le sue doti di attore per portare il personaggio credibile alla vita. Un esempio è la performance meravigliosamente sensibile di Marcello Mastroianni come Guido in 8½, una parte con cui egli si è profondamente identificato».
PLAYBOY: Sei vicino a Mastroianni nella vita privata?
FELLINI: «Quasi in simbiosi. Anche se raramente ci vediamo al di fuori del lavoro, abbiamo un rapporto profondo, che è come se ci fosse uno specchio davanti a me che dice: “Sono io. Non sono io…” e così via. È straordinario. Questo è il vincolo di base della nostra amicizia, ma lui è anche molto simpatico umanamente. Vedo in lui una carica di entusiasmo, l’innocenza e la ciarlataneria, simile a quella di un fratello più piccolo. E non meno sono un ammiratore della sua professionalità».
PLAYBOY: Sei così profondamente coinvolto con qualche altro attore?
FELLINI: «Non così intensamente, anche se sono esageratamente entusiasta di tutti i miei attori perché sono i miei burattini, le creazioni della mia fantasia. Per me sono i più grandi attori del mondo e divento ferocemente difensivo verso di loro».
PLAYBOY: È vero che vai raramente al cinema – anche per vedere i tuoi film?
FELLINI: «Verissimo. Quando finisco un film, come ho detto, io sono posseduto dalla visione del mio prossimo, ed è sempre un amante geloso. Inoltre, voglio vivere nel presente, non indugiare nel passato. Come per i film di altre persone, io al cinema vado molto, molto di rado. Preferisco fare film, piuttosto che guardarli».
PLAYBOY: Hai visto film di Kurosawa?
FELLINI: «Solo I Sette Samurai, ma credo che sia il più grande esempio vivente di tutto ciò che un autore del cinema dovrebbe essere. Provo un’affinità fraterna con il suo modo di raccontare una storia».
PLAYBOY: Che pensi di Bergman?
FELLINI: «Ho una profonda ammirazione per lui e per il suo lavoro, anche se non ho visto tutti i suoi film. Primo, è un maestro del suo mestiere. Secondo, è in grado di rendere le cose misteriose, accattivanti e, a volte, repellenti. Per questo, ha il diritto di parlare di altre persone e di essere ascoltato. Ha la qualità seducente di ipnotizzare l’attenzione. Anche se non sei in pieno accordo con quello che dice, ti piacerà il modo in cui lo dice, il suo modo di vedere il mondo con grande intensità. È uno dei registi più completi che io abbia mai visto».
PLAYBOY: Antonioni?
FELLINI: «Io ho rispetto per la sua costanza, la sua integrità fanatica e il suo rifiuto del compromesso. Antonioni ha avuto un inizio professionale molto difficile. I suoi film, per molti anni, non sono stati accettati, e un altro uomo, meno onesto, meno forte, si sarebbe ritirato. Ma Antonioni ha proseguito per la sua strada solitaria, facendo ciò che credeva fosse giusto fare fino a quando non è stato riconosciuto come un grande creatore. Questo ha sempre fatto un’impressione enorme su di me. È un artista che sa quello che vuole dire, ed è molto».
PLAYBOY: Tuffaut?
FELLINI: «Sono terribilmente in imbarazzo, ma non ho visto nulla di suo. Spiacente».
PLAYBOY: De Sica?
FELLINI: «Grande potenza di realizzazione, e un maestro dei suoi attori. È un regista molto buono, per qualcuno quasi intoccabile, a causa del posto speciale che ha occupato dopo la guerra».
PLAYBOY: Dopo La Dolce Vita, sei stato inondato di offerte di film dall’America. Pensi potresti esprimerti liberamente come regista a Hollywood?
FELLINI: «Probabilmente no, ma ho la tentazione di provare comunque. Mi piacerebbe fare un film su ciò che catturò la mia immaginazione durante le mie visite in America. Ma anche se avessi una chiara idea di che cosa dire, la realizzazione pratica, la traduzione effettiva di questa idea in immagini sarebbe imbarazzante e, probabilmente, ne uscirei sconfitto».
PLAYBOY: Perché?
FELLINI: «In Italia, so cosa sto facendo. So come gestire i miei attori, come vestirli, come renderli credibili nei ruoli che ho creato per loro. So cosa voglio dir loro di esprimere, perché so di cosa sto parlando. Anche se butto una comparsa in scena, ha un motivo per essere lì e renderà quella scena più autentica per quei pochi secondi in cui si trova sullo schermo. Ma come potrei fare questo in un paese straniero? Come faccio a sapere, per esempio, quello che un tassista di Boston avrebbe indossato a casa in un pomeriggio di domenica? Perderei un sacco di tempo, e questo sarebbe fatale, perché la cinematografia, almeno a mio parere, ha bisogno di una padronanza assoluta, del controllo di tutto e tutti – dall’intimo della star femminile, ai baffi del protagonista maschile, al modo in cui i fiammiferi vengono messi sul lato sinistro del tavolo. Questo è un ostacolo vero e profondo. È per questo che un autore deve lavorare con la lingua che lo ha nutrito fin dall’infanzia, che ha lasciato in lui un deposito culturale e un bagaglio di costumi e tradizioni. Così, l’idea di un mio sradicamento per lavorare in America – o altrove al di là di questi confini – sarebbe inconcepibile per me».
PLAYBOY: Il prezzo giusto potrebbe farti cambiare idea?
FELLINI: «Il denaro non mi interessa. È utile e bello averne, ma non è un’ossessione, e non lo è stata neanche quando non ne avevo. Quando sono arrivato a Roma a 18 anni, e, a volte, non avevo abbastanza soldi per il pranzo. Ma era il cibo che desideravo. Non ho soldi con me in questo momento, non ne ho mai. Spesso, per il caffè, mi affido agli amici. Forse sono stato in grado di fare soldi proprio a causa di questo. I soldi vanno a quelli che non li corteggiano».
PLAYBOY: E la fama. Sei indifferente anche a quella?
FELLINI: «Lo vorrei, ma non è così facile da ignorare. Riesce a interferire con il tuo tempo e la tua privacy. Anche se sono riuscito a mantenere un piccolo santuario lontano dagli occhi pubblici, ci sono più e più invasioni. Quando sono andato in America, sono stato assediato da donne che pensavano avessi la chiave della felicità, una sorta di ricetta per la vita serena. Mi telefonavano a tutte le ore e mi aspettavano nei corridoi dell’hotel. Ho detto loro che non avevo risposte, amuleti, elisir, niente di niente per loro, ma non mi volevano credere. Io sono un regista, non un veggente. Quello che ho da dire, lo dico attraverso il mio lavoro».
PLAYBOY: E il tuo lavoro, come hai detto, è stato un tentativo di fuga dal passato. Pensi di esserci riuscito?
FELLINI: «In una certa misura. Mi sento meno in colpa ora per le cose per le quali la mia educazione infantile mi ha insegnato a sentirmi in colpa».
PLAYBOY: Come il sesso?
FELLINI: «O qualsiasi utilizzo intelligente dei sensi che porti oltre i confini della morale puritana. Così mi sento più forte, meno indifeso. Ma, poi, è giunto il momento della maturazione, non ti pare? Alla mia età un uomo dovrebbe essere un po’ più maturo. Di tanto in tanto, però, ritengo che questa calma comprensione potrebbe essere distrutta da un unico, improvviso, violento, inaspettato confronto emotivo».
PLAYBOY: Con una donna?
FELLINI: «Non so con cosa o chi. Ma è sempre possibile nella vita, e ancora di più quando sei più sicuro di te stesso».
PLAYBOY: Sei sicuro di te stesso?
FELLINI: «Non in senso egoistico, ma mi sento meno emotivo, più in pace con me stesso che mai. Anche se ho perso un po’ della mia forza e del mio potenziale, nel processo – insieme con la mia combattività giovanile – ritengo che un sentimento religioso, profondo ma autentico, sia nato dentro di me. Ma ho avuto una vita fortunata, quindi è possibile che il mio ottimismo derivi dal non aver mai conosciuto molto dolore o pena».
PLAYBOY: Hai paura di invecchiare?
FELLINI: «No: probabilmente per lo stesso motivo».
PLAYBOY: Come per la morte?
FELLINI: «La morte è un pensiero molto strano, così contrario a quanto si pensa nella nostra vita fisica, che è davvero difficile parlarne. Non sappiamo di che cosa si tratti, quindi tende a coglierci un vago terrore. È come un continente leggendario, una terra lontana di cui si è sentito parlare in termini contraddittori. Alcuni dicono che esista, altri che non sia così. Alcuni dicono che sia più bello, altri, che sia orribile. Alcuni sostengono che sia meglio di questo mondo, altri ancora che non c’è niente di bello come la vita, che la morte sia solamente il silenzio e l’oblio. Ma, diciamo la verità: c’è questo paese, e, prima o poi, noi tutti dobbiamo andarci».
PLAYBOY: Sono la fede e la curiosità, le tue ricette per una vita felice?
FELLINI: «Diciamo che sono le ricette per una vita piena. La felicità è solo una condizione temporanea che precede l’infelicità. Fortunatamente per noi, questo funziona anche nell’altro senso. Ma è tutta una parte del carnevale, non è vero?».
Playboy, 13, no. 2, Febbraio 1966; pp. 55-66 [Leggi qui il testo inglese originale]
Playboy Italia, Marzo 2010; pp. 118-124