di Claudio G. Fava
È perfino imbarazzante scrivere di un film che è stato accompagnato da una campagna tambureggiante di stampa, di quelle che in genere vengono dedicate a Schumacher o Ronaldo, e che è stato minutamente descritto e analizzato (a forza di anticipazioni segrete, rigorosamente errate nello stile) prima ancora di essere apparso sugli schermi. Un minestrone contraddittorio di indiscrezioni, generalmente inventate e illusorie – tradizione ormai di tutti i capiredattori dei giornali sia stampati che televisivi –, rese poi furibonde di rabbia celebrativa dalla morte subitanea di Kubrick. Di cui tutti hanno celebrato la vita e le opere, senza probabilmente essersene molto occupati quando era in vita e conduceva la sua fastosa esistenza di recluso cibernetico nella campagna inglese.
In ogni caso per comodità del lettore che voglia tener fede alle regole, ecco un riassunto della trama del film così come risulta a uno spettatore che abbia cercato di essere attento al massimo, ma che può aver commesso errori: a New York, durante un party in ambiente di milionari, il giovane e agiato medico William Harford è chiamato da parte, rapidamente e discretamente, dal ricchissimo e misterioso padrone di casa, Victor Ziegler, per soccorrere la sua amante, una giovane ragazza nuda, che ha perso i sensi sotto l’effetto di stupefacenti. Mentre il dottor Harford compie il suo dovere, sua moglie Alice – dirigeva una galleria d’arte, ma ora fa solo la madre di famiglia – viene sottoposta alla corte serrata di una sorta di superseduttore ungherese da strapazzo. Più tardi Alice parla al marito di un ufficiale di marina da cui in passato si era sentita profondamente attratta. In qualche modo colpito e quasi sconvolto, il dottore visita la figlia di un suo paziente appena deceduto che di fatto gli si offre, e finisce quasi per avere rapporti sessuali con una prostituta, ma si interrompe anche qui quando Alice lo trova al telefono. Il medico incontra un vecchio amico, Nick, che era stato suo compagno d’università, ma che aveva poi abbandonato lo studio della medicina per suonare il piano nei locali notturni. Nick parla a William di una villa misteriosa, dove si consumano orge di lusso e dove lui è chiamato a suonare, ma dove lo obbligano a tenere una benda sugli occhi per essere sicuro che non veda nulla. William si incapriccia follemente dell’idea, costringe Nick a confidargli l’indirizzo della villa e la parola d’ordine necessaria per entrare (“Fidelio”; come si vede alla cultura non si rinuncia) e, malgrado l’ora tardissima, si procura senza badare a spese una maschera – all’orgia bisogna partecipare in costume – presso un ambiguo noleggiatore di costumi. Questi è un mitteleuropeo, Milich, che pare vendere la figlia giovanissima, sorpresa con due giapponesi seminudi, e alternativamente biasimata ed esaltata dal torbido padre.
Finalmente fornito del mascheramento necessario, il dottor Harford raggiunge (in taxi) una splendida villa isolata nella campagna, dove viene ammesso grazie alla parola d’ordine e assiste a una sorta di cerimonia ricca di beffardi toni pseudoliturgici, in cui un cerimoniere vestito di rosso sceglie delle bellissime donne, nude ma mascherate, per partner diversi. Una donna si avvicina al medico e lo supplica di andarsene, ma egli vuole restare per osservare l’orgia. Il cerimoniere chiede al protagonista la seconda parola d’ordine, quella necessaria per potersene andare, ma la ragazza dichiara che garantirà per lui e Harford è forzato a uscire.
Il giorno dopo, ansioso di saperne di più, trova l’albergo ove alloggiava il suo amico Nick, il pianista, ma grazie alle confidenze di un impiegato ammiccante e annuente, visibilmente attratto dal dottore (Alan Cumming, a me ignoto, si mette in luce, in pochi minuti, con un piccolo pezzo di bravura), apprende che Nick è uscito in fretta con due signori sconosciuti e non è più tornato. Harford torna da Milich per restituire gli abiti e scopre che la sua maschera è scomparsa. Riceve una missiva in cui lo si esorta a non compiere altre inchieste a proposito dell’orgia. Poi apprende della morte di una ragazza e, persuaso che sia la modella nuda che lo ha aiutato, si reca alla Morgue e ne riconosce il corpo. Viene convocato da Ziegler, il quale gli conferma i suoi sospetti, gli dice che la ragazza non era altri che una tossicomane (quella che il medico aveva salvato all’inizio) e lo ammonisce: Harford ha destato molti sospetti andando all’orgia in taxi invece che con auto propria e dimostrando inoltre di non sapere che “non” esisteva una seconda parola d’ordine per uscire dalla villa. Il medico torna a casa e vede che la maschera scomparsa giace sul cuscino del letto matrimoniale a fianco di Alice. La moglie gli dice che dovrebbero essere grati per quel che hanno e alla domanda di lui: «Cosa dobbiamo fare?», risponde con un verbo esplicito in cui lo invita a far l’amore.
Nella interessante recensione di Charles Whitehouse pubblicata su Sight and Sound si ribadisce il fatto che, a parte l’ambientazione nella New York odierna (del resto tutta fascinosamente ricostruita in studio, con il luccichio di luci e di colori che rende toccante il gioco della memoria, per un regista newyorchese ormai da decenni bizzosamente lontano dalla patria e dalla città d’origine), Kubrick e lo sceneggiatore Raphael si sono limitati ad aggiungere due sequenze. La prima è quella iniziale in cui Harford salva la ragazza in overdose alla festa di Ziegler e la seconda è la scena finale in cui lo stesso Ziegler opportunamente spiega a Harford la situazione e la necessità che ha portato alla morte della ragazza, che all’orgia aveva sacrificato la sua vita per salvare quella del medico. Per il resto, secondo Whitehouse, essi hanno rispettato il testo che Arthur Schnitzler (1862-1931) aveva pubblicato nel 1926 con il titolo Traumnovelle.
Jean-Pierre Coursodon scrive che i riferimenti d’epoca fanno pensare che l’azione sia ambientata nel 1897. Nel primo dopoguerra, Schnitzler era ormai celebre, dopo aver pubblicato opere di struttura diversa – Morire, del 1895, Girotondo, del 1897, Il tenente Gustl, del 1901, Verso la liberazione, del 1908, eccetera – che ne fecero, in apparenza, soprattutto il descrittore dei facili amori di una ricca e colta borghesia viennese. Fino a quando ci si accorse che in realtà si trattava di uno dei più sottili testimoni della fine Ottocento e del primo Novecento e di uno dei più talentuosi cantori della tragica fine del sogno austriaco, destinato poi a essere divorato dall’abisso del futuro antisemitismo nazista, che costituisce uno dei momenti nodali non solo della letteratura, ma della storia europea nella prima parte del secolo (non a caso il medico-scrittore era un esponente di quella tipica borghesia ebraica viennese che venne traumaticamente amputata ed espulsa da una società di cui era stata una delle componenti più fervide e produttive). E anche, sia detto incidentalmente, della fine della felicità dell’Europa, che non potrà mai più rimettersi dal trauma suicida sfociato nella folle Prima guerra mondiale e nella distruzione della duplice monarchia. Avvenimento forse positivo per le minoranze italiane, ma certo catastrofico per quel che riguarda l’equilibrio dei Balcani e quindi del Continente.
Confesso di aver letto molto di quel che è stato scritto sul film – ad esempio segnalo al lettore interessato anche alla critica non italiana che Positif, una delle riviste di cinema più “kubrickiane” in assoluto, ha dedicato al regista un dossier di una ventina di pagine nel numero di settembre 1999 e addirittura uno di circa 140 pagine nel numero speciale di ottobre –, ma di aver capito poco. E di quel che è stato scritto, e del film in sé stesso. Della prima cosa non mi stupisco, avendo perso quasi tutte le illusioni a proposito della mia intelligenza. Della seconda sì, perché in realtà il film mi è piaciuto moltissimo. Non riesco bene a spiegarmene le ragioni, ma è così. Non capisco ma mi adeguo, come Ferrini. Forse è un frutto dell’antica dimestichezza con il regista, tipica della mia generazione: in fondo avevo solo un anno meno di lui e lo seguo fedelmente dai tempi di Rapina a mano armata e de Il bacio dell’assassino (purtroppo non sono mai riuscito a vedere il primo lungometraggio, Fear and Desire, di cui Morandini, nel suo utilissimo dizionario, dà anche il titolo italiano, Paura e desiderio, specificando che costò, nel 1953, 50.000 dollari e che è stato ritirato dalla circolazione dallo stesso autore, il quale lo realizzò quando aveva 23 anni). Fedeltà poi ribadita dall’arrivo di Orizzonti di gloria che, per un lettore di Remarque, di Dorgelès e di Carlo Salsa, era il massimo che si potesse desiderare verso la fine degli anni ’50, già così diversi da quelli della Prima guerra mondiale.
Apparentemente Eyes Wide Shut – a quel che ho capito significherebbe pressappoco “Occhi aperti e spalancati”, ma è un modo di dire insolito – sembrerebbe una molteplice riflessione sulla sensualità e sulla sessualità della coppia. Una sorta di peregrinazione fra i risvolti, le furbizie, gli ammiccamenti, le menzogne, le manie e le follie di una società – oggi come ai tempi di Schnitzler, anche se con diversissime visibilità e disinvoltura – ossessionata dai problemi sessuali e ben decisa di utilizzare questa pulsione fondamentale per ogni possibile meccanismo di vita collettiva (in primis la moda, la pubblicità e più largamente ogni forma di persuasione collettiva, occulta o palese). Una peregrinazione apparentemente ben decisa a concludersi con la scoperta che la cosa migliore è la fedeltà della coppia, scoperta a cui si arriva camminando a zigzag fra mille diverse tentazioni.
È dunque questo il succo del film? O non piuttosto il piacere maniacale di ripercorrere un percorso narrativo qualsivoglia, ma illuminato dal gusto minuzioso e ossessivo di far cinema proprio di Kubrick? Di cui si avverte la presenza – sembra sia stato sempre lui, da vecchio fotografo di talento, ancora una volta a scegliere le luci, compiendo quindi il lavoro più delicato proprio del direttore di fotografia – in ogni momento del film, alle spalle di ogni inquadratura, dietro l’incombere della steady-cam, dietro ogni espressione dei protagonisti, come degli altri attori. Dei quali non è difficile indovinare l’obbediente estenuazione, agli ordini d’un regista capace di far rifare lo stesso ciak cento e più volte, sino a quando gli interpreti distrutti (come confessò Jack Nicholson ai tempi di Shining) non si sdraiavano sfiniti per terra. Kubrick li voleva così perché fossero più veri e meno “recitanti”. Il risultato è spesso enigmatico nei fini, ma affascinante nei mezzi e nei singoli frammenti. Ogni inquadratura è, come sempre con Kubrick, un’opera d’arte e la recitazione è mirabile. Vorrei dire anche nei difetti. Non so se Tom Cruise dovesse essere proprio come appare: certo è che, sempre attonito e come soprappensiero, sembra un po’ gnocco se lo si paragona a Nicole Kidman (sua moglie nella vita e nel film), sottile, maliziosa, attraente, scintillante di una misteriosa consapevolezza femminile, pronta a capire e a non capire, ad annuire e a ignorare. Una prova di autentico divismo che, d’ora in avanti, dovrebbe, se mai, far ricordare Tom Cruise come il marito della Kidman, e non viceversa, così come si è fatto da quando i due si sono sposati (1990).
Porteremo a lungo nella memoria l’enigma di questo film, che è come una dolce e vaga serata d’addio di un nostro misterioso amico settantunenne, che ci ha lasciato per sempre senza svelarci quasi nessuno dei suoi segreti. In compenso, ancora un volta, ci lascia diversi memorabili frammenti di recitazione. Di alcuni s’è detto. Vorrei aggiungere qui Sidney Pollack, che disegna da par suo il misterioso personaggio altolocato, il quale è dietro tutte le trame misteriose raccontate nel film. Mi auguro che la gente riconosca in lui – che ogni tanto, nel corso della carriera, si è concesso persuasive vacanze da attore e da produttore – il regista, da almeno trent’anni a questa parte, di molti film di successo. Anche lui, in fondo, è un vecchio amico.
Letture, n.563 gennaio 2000