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Il dr. Stranamore – di Enrico Ghezzi [Il Castoro Cinema]

Per molti versi, il film più «erotico» di Kubrick è 'Il dr. Stranamore' (1963) (girato anch’esso in Inghilterra), che segna la fine della collaborazione con Harris (il quale vuol passare alla regia ed esordirà due anni dopo con 'Stato d'allarme', film che sembra essere la risposta «realistica» a Stranamore).

di Enrico Ghezzi

Per molti versi, il film più «erotico» di Kubrick è Il dr. Stranamore (1963) (girato anch’esso in Inghilterra), che segna la fine della collaborazione con Harris (il quale vuol passare alla regia ed esordirà due anni dopo con Stato d’allarme, film che sembra essere la risposta «realistica» a Stranamore). È il risultato dell’interesse, acutissimo da anni in Kubrick (ottanta libri letti sull’argomento, oltre a tutte le riviste di armamenti e studi strategici), per i problemi derivanti dall’esistenza e dall’eventuale uso delle armi atomiche.

Anni 60. Impazzito, in preda a delirante anticomunismo, il comandante di una base aerea americana manda ai suoi aerei l’ordine cifrato di attacco atomico contro l’Unione Sovietica. Spera in tal modo di spingere il Presidente a sfruttare il vantaggio acquisito coll’ormai inarrestabile prima salva (solo il generale conosce il segnale per richiamare i bombardieri alla base) – che sicuramente provocherà una reazione atomica sovietica –per lanciare un attacco a fondo con buone possibilità di riuscita. Il Presidente rifiuta il folle ricatto, convoca lo Stato Maggiore al Pentagono, invitando anche l’ambasciatore sovietico. All’esercito viene ordinato di prendere a tutti i costi la base, per poter ordinare il rientro agli aerei. Qualche «falco» invece consiglierebbe proprio di sfruttare la situazione determinatasi. Ma dal telefono diretto Mosca–Washington giunge la notizia che i russi hanno già da pochi giorni in funzione l’ordigno «fine del mondo», arma di dissuasione assoluta, che in caso di esplosione atomica su un qualsiasi punto del territorio nazionale provocherebbe una letale pioggia radioattiva infestando per decenni tutta la Terra. La cosa doveva essere annunciata al mondo intero (solo se conosciuta un arma del genere può far valere la sua tremenda efficacia) durante la parata del 1° maggio. Presa la base, ricostruito fortunosamente il cifrario che sembrava perduto per il suicidio del generale pazzo, gli americani riescono in extremis a richiamare tutti i bombardieri: meno uno che, colpito da un missile, con la radio fuori uso. prosegue inesorabile verso un obiettivo secondario, sfuggendo ai radar col volo radente. La bomba precipita sull’obiettivo; comincia la «fine del mondo». Al Pentagono il dottor Stranamore consigliere scientifico di origine tedesca, spiega come si potrà perpetuare la razza (e la nazione) trasferendo nei più profondi pozzi minerari gli appartenenti alle principali scale gerarchiche e individui razzialmente perfetti, un maschio per dieci donne, al fine di permettere un rapido ripopolamento in vista di un futuro riemergere alla luce del sole. Quando Stranamore finisce la sua relazione (mentre il «falco» ricomincia ad accusare di spionaggio l’ambasciatore nemico), come per un miracolo si alza dalla carrozzella su cui sedeva paralizzato, quindi il fungo atomico occupa lo schermo, e una voce di donna canta un motivo degli anni ’40: «Ci incontreremo ancora, in un giorno di sole…».  

Lolita dava l’immagine della serra–astronave in cui si produce il cinema di Kubrick, Stranamore è il primo film palesemente costruito all’interno di tale spazio inedito. Inedito anche se i primi anni ’60 vedono l’avvio abbastanza fortunato del genere «fantapolitico»: Tempesta su Washington di Preminger, Sette giorni a maggio di Frankenheimer, L’amaro sapore del potere di Schaeffner, A prova di errore di Lumet, film questo prodotto un anno dopo quello di Kubrick e in cui un «errore» atomico – ancora ai danni di una città russa, Mosca – viene riparato dal Presidente USA Henry Fonda ordinando ai missili americani di distruggere senza preavviso New York. Arena di dibattito e spettacolo «nuovo» nato col mito kennedyano, dalla fine tragica di tale mito trarrà ancora un po’ di linfa per qualche anno, poi il vuoto fino al magistrale Perché un assassinio di Pakula (ma siamo già oltre il 1970). Questo genere è lo schermo popolare su cui è proiettato Stranamore, essendo la popolarità di esso un intrigo politico –poliziesco le cui possibilità di suspence sono allargate dalla scala nazionale o mondiale degli avvenimenti e dal gioco inquietante sul futuro.

Simile spazio attrae Kubrick per la libertà e astrattezza che concede. Per Kubrick, è la libertà di costruire il più dichiarato e constatabile di tutti i suoi film–congegno, la più visibilmente perfetta delle sue macchine per la storia che narra lo scacco più tragico. I pezzi qui si incastrano come ingranaggi senza giunture, combaciami con secchi rumori di «slam» meccanici, senza nessun bisogno di olio lubrificante. Tutto ciò, è per la prima volta riprodotto da Kubrick nell’immagine delle macchine (computer della base, bombardieri, mezzi di comunicazione), che raddoppia quella (della follia) dell’uomo. La metafora principale, che indica tutto il meccanismo, è quella sessuale. (Ciò rinvia a Lolita, il quale si legava a Spartacus con la battuta di Sellers. Il gioco magari plausibile, ma irrilevante, dei supposti riferimenti al film successivo – o al precedente – in ogni tappa di Kubrick, ha intrigato parecchi critici, contenti di poter formare almeno una collana dalle pietre diverse. Vedi anche Ciment: «L’esplosione cosmica alla fine di Stranamore è un preludio a 2001. L’occhio del feto alla fine di questo film annuncia la prima inquadratura di Arancia meccanica sull’occhio del mutante Alex. Le persone in abito vittoriano che applaudono gli exploit sessuali di Alex nell’ultima inquadratura di Arancia meccanica sarebbero forse i futuri lettori di Thackeray, celebrante le traversie e le scappatelle dello scavezzacollo Barry?»).

Il nome del titolo (con in più il sottotitolo: come imparai a non preoccuparmi e ad amare la bomba) è la prima indicazione della presenza della metafora sessuale. Dopo una scritta cautelativa della Columbia (casa distributrice) in cui si afferma che nella realtà il sistema di sicurezza americana rende impossibili certi incidenti (ma alla fine tale scritta rientra agevolmente nell’irrisione generale), il film inizia con la voce fuoricampo che su una distesa di nubi spinte dal vento dalla quale spuntano cime di montagne accenna alle notizie che «da più di un anno» (non ci sono date nel film) correvano sull’arma totale che i russi stavano costruendo tra le nebbie di una località artica. Subito dopo si ha l’inquadratura «fallica» della protuberanza sul muso di un bombardiere, e quindi, al suono di suadente melodia (infatti, Try a Little Tenderness), assistiamo al rifornimento in volo di uno dei B–52 sempre pronti a correre verso il proprio obiettivo una specie di siringa scivola dall’aereobotte e si innesta «dolcemente» in musica sul dorso del bombardiere. La sequenza e stata vista sia come coito che allattamento, e le numerosissime allusioni sessuali del film sono state lette sia come riferimenti ironici che come singole metafore (cfr. Walker, Phillips, Ranieri), ma non è un semplice codice di lettura tra gli altri quello che si istituisce dall’inizio, quanto piuttosto la struttura che sostiene il meccanismo di costruzione del film e (cioè) di distruzione del mondo. Il generale che scatena il disastro è un impotente che accusa il complotto comunista di avvelenare i «fluidi vitali» degli americani, e che ha deciso di negare alle donne corruttrici il suo personale fluido. Dei tre personaggi impersonati dallo scatenato Sellers, due (il Presidente e il Cap. Mandrake, l’ufficiale inglese che alla base aerea cerca di convincere il folle a desistere, e che dopo il suicidio di questi ricostruisce infine il fatidico segnale di ritorno) danno impressione di debolezza e scarsa virilità; il terzo (Stranamore) bloccato sulla sedia a rotelle dà alla fine chiari segni della sua ossessione sessuale quando gli brillano gli occhi nel prevedere gli accoppiamenti sotterranei. Il «falco» stolido tronfio generale Turgidson («figlio del turgido», George C. Scott) è convocato al Pentagono mentre stava per concedersi un distensivo relax con la segretaria–amante (la stessa che abbiamo visto poco prima scrutata dal comandante del bombardiere nel paginone centrale di «Playboy»), e dalle sue telefonate sarà tormentato durante la riunione. Il premier russo è «disturbato» dal collega americano durante un week–end galante nella sua dacia di campagna. Il «pacchetto di sopravvivenza» di cui dispongono i membri dell’equipaggio del bombardiere contiene (oltre a quasi tutti i simboli–oggetti dello scambio capitalista, dal dollaro al rublo alle calze di seta) anche una scorta di preservativi. Infine, tutta la cavalcata del B–52 «protagonista» è ritmata dalla mistura ossessiva di due marcette (la sudista When Johnny comes Marching Home e la westerniana Riders of the Sky) sottolineata dalle batterie e da pesanti interventi dei fiati in un procedere da inarrestabile stantuffo, e inquadrata spesso in modo da rendere visivamente lo scivolamento irresistibile in avanti (l’aereo – inquadrato da sopra – «slitta» velocissimo lungo la Terra, schiacciato su di essa dalla m.d.p., destinato dalla mancanza di carburante a incontrarsi traumaticamente con essa) e da provocare il coinvolgimento più fisico che emotivo dato dalla rapida «penetrazione» dello spazio dello schermo (operata qui non dalla m.d.p. come in Orizzonti di gloria, ma dallo stesso oggetto ripreso come una diligenza che solca la prateria western). Al termine l’esplosione.

Il comandante dell’aereo, maggiore «King» Kong (il caratterista western Slim Pickens), sblocca la macchina danneggiata che non ne vuol sapere di partorire la bomba, e a cavalcioni della bomba stessa precipita sull’obiettivo, urlando e sventolando (come i cowboys nella «partenza» del Fiume rosso) il capellone Stetson con cui fin dall’inizio dell’attacco ha sostituito il casco regolamentare. L’avvicinamento lo schiantarsi a terra del binomio uomo–bomba sono realizzati con uno zoom violentissimo, ingoiarne, fisicamente offensivo e nello stesso tempo attraente e ormai «da compiersi» come un orgasmo irrefrenabile. Mentre al Pentagono si ipotizza la riproduzione sotterranea in serre riscaldate, il fungo si alza, poi – costruzione fallace – si disperde in nubi luminose, puri cerchi di luce, luce che tramonta, e la voce di Vera Lynn canta una vecchia canzone della Seconda Guerra mondiale sulla speranza di rivedere i reduci: «Non so dove, non so quando, ma ci incontreremo di nuovo, in un giorno di sole…» (We’ll meet again), è anche un appuntamento per il prossimo ma impossibile «accoppiamento», un rifare l’amore dopo che il mondo si distrugge nel gigantesco orgasmo di una copula tra la bomba e la Terra, resa orribilmente «feconda» dalla Bomba totale che vi è stata installata. Se il cerchio si chiude con nubi luminose che rimandano all’inizio, se ancora una volta Kubrick sembra aver costruito il congegno con cinismo e anzi deridendo un costitutivo atto fisico dell’uomo con la metafora della distruzione che si sostituisce ad esso riproducendolo, tuttavia nell’immane derisione è posto precisamente il problema della responsabilità razionale dell’uomo e delle meccaniche perversioni del potere. L’immagine stupenda e decisiva dell’uomo a cavalcioni della bomba, nell’ineluttabile esplosione provocata dal «caso», è violenta e precisa contestazione dell’apparenza stessa di ineluttabilità; se l’esplosione è cosmica, all’origine di essa v’è ancora l’uomo (come mostra la struttura, denudata nel film, dell’atto sessuale e della procreazione), anche se non molto più cosciente delle sue macchine (il che sarà ironicamente estremizzato in 2001).

Quasi inutile analizzare nei dettagli il congegno filmico Stranamore. La strana rigorosa meccanica struttura di questo «amore» è infatti chiara già a una prima visione. Tutta la vicenda è risolta essenzialmente in tre soli ambienti: la base di Burpleson, il bombardiere «Leper Colony» (colonia di lebbrosi), la War Room al Pentagono. Il passaggio da un décor all’altro viene orchestrato in modo «musicale», non nel senso delle dolci melodie udibili alle estremità del film, ma in una sempre più ossessionante progressione ritmica. La m.d.p., passando bruscamente da un décor all’altro, li mette demiurgicamente in relazione e contrasto. La «crisi di comunicazione» (Walker) fra i tre luoghi è il primo ironico segno di debolezza in un apparato gigantesco, quello della comunicazione «totale» e continua nei media. La potenza e comodità di tali mezzi viene elusa ed irrisa da un semplice divieto da parte del comandante della base (infine il suo nome: Ripper, lo squartatore, con riferimento al mitico e storico Jack), che fa bloccare le linee telefoniche con l’esterno e confisca radio e televisioni; Sellers–Mandrake, quando sente per caso da una radiolina confiscata provenire musica leggera, comincia a comprendere che è assai improbabile che sia in corso una guerra nucleare con i russi, e viene a sapere da Ripper la verità: ma la stessa musica leggera che a lui permette di rendersi conto della situazione, per lo spettatore è ironicamente l’accompagnamento trascinante del volo inarrestabile dell’aereo, il ritmo che porta al disastro, mentre negli altri due ambienti non si ha musica e si cerca di impedire la catastrofe. Lo stesso «gioco» si ha nei confronti del cinema come mezzo apparentemente realistico di comunicazione e trasmissione: la camera a mano e la fotografia casuale degli scontri tra il personale della base e l’esercito, vuole accentuare l’illusione di realtà, in senso cine-giornalistico: ma è la realtà assolutamente «indefinita» e priva di senso che si ha dall’immagine filmica (come nel «reale» bruto), secondo il processo che nelle stesse sequenze fa stupire i difensori della base – istruiti e ingannati da Ripper – per le «perfette imitazioni» di armi, autocarri e divise, che gli «sporchi rossi» sono riusciti a procurarsi («saranno nostri residuati bellici», aggiunge un milite, in una delle innumerevoli battute del film). L’immagine in sé non definisce nulla, può essere A o B: solo l’organizzazione di diverse immagini e l’informazione su di esse permettono un discorso.

In Lolita il grottesco che toccava tutti i personaggi veniva però assorbito nella mediazione generale del melodramma, istituito (in una variante un po’ raffreddata) dal gioco dei desideri, dei rivolgimenti improvvisi del racconto, dell’agnizione. In Stranamore la principale mediazione è quella operata dalla farsa, che è insieme satira. Il meccanismo è incredibilmente sorvegliato (i nessi tra una scena e l’altra, tra un’inquadratura e l’altra, sono infiniti e diventano sempre più numerosi ad ogni visione del film). L’uso il più possibile «realistico» dell’illuminazione esalta questa fissità in senso espressionistico. Kubrick adopera le poche luci esterne per evidenziare le fonti luminose visibili in campo. Da qui, per esempio, il taglio violento e allucinato di luci e ombre nelle inquadrature della geometrica War Room in cui il cerchio di lampadine sulla testa dei partecipanti alla tavola rotonda si contrappone alla forma triangolare della struttura della sala e alla sagoma trapezoidale dello schermo; e dello squadrato e funzionale ufficio di Ripper, del volto di questi – Sterling Hayden – illuminato in primissimo piano dalla luce da tavolo, nell’immobilità paurosa e imperscrutabile della follia; e dell’interno dell’aereo, anch’esso in «luce reale» che dà all’ambiente l’aria incerta e irreale di un Flying Dutchman tecnologico in cui gli uomini spiccano come forme astratte tra gli accessori e la strumentazione ripetutamente inquadrata da brevissima distanza. Limitato è l’uso del movimento di macchina, che qui si esercita e si costruisce su personaggi estremamente semplificati, a tratti pure macchiette o puri nomi. Solo poco prima delle riprese Kubrick decise di volgere nel farsesco il documentato realismo del libro da cui traeva la sceneggiatura (cui chiamò a collaborare T. Southern –Candy – proprio perché contribuisse a rendere saporosi i dialoghi), desiderando dare un movimento interno a quella che, nella selezione dello script, poteva ridursi a una ugualmente ridicola ma insipida e piatta apologia dell’ineluttabile.

E l’aspetto farsesco–satirico è stato accusato di «cinismo». Aristarco ha parlato di incapacità di sollevarsi dalla farsa alla satira. Nel film, però, l’uso della farsa più scatenata e volgare (interrogato sul perché abbia voluto dare un soprannome ad ogni personaggio, Kubrick risponde: «per essere satirico e ingiurioso, per essere volgare») diviene subito satirico. Infatti, l’accusa sempre rivolta alla farsa, anche alla più geniale, di non riuscire a contestare realmente ciò di cui parla (per la disorganizzazione o l’organizzazione casuale delle sue forme che la fanno restare marginale e subalterna), qui cade non appena il «contenuto» farsesco viene a confronto con la strutturazione accuratissima dell’insieme (della «denuncia»). La definizione–semplificazione ironica è spinta al massimo, spesso all’eccesso di una comicità televisiva di bassa lega (vedi la figura dell’ambasciatore russo De Sadeski, o quella del colonnello Bat Guano – «sterco di pipistrello» – che per non danneggiare una «proprietà privata» non vuol sparare alla macchina della Coca–Cola dei cui spiccioli ha bisogno Mandrake per telefonare al Presidente). Ciò serve alla «popolarità» della comunicazione, ma si riconduce sempre nell’effetto visivo unito al dialogo, a quello che è il fondo di ogni ironia (dr. D. Ball, La définition ironique, «Révue de littérature comparée», 1976, n. 3): la ridefinizione ironica dell’uomo, «est homo animale rationale?». In questo rientrano i nomi derisori dei personaggi, che in genere giocano con espressioni gergali designanti organi e funzioni sessuali o altre funzioni umane rimosse dal funzionalismo igienico, come la defecazione, oppure si riferiscono a nomi dell’universo della cultura popolare (da Mandrake, che è però anche il nome di una pianta afrodisiaca, a King Kong, a Ripper, Lothar, ai soprannomi di carattere sportivo, ecc.). Da Burpleson (la base), «figlio del rutto» (insieme con Turgidson due nomi cattivissimi a indicare i frutti dell’uomo) a De Sadeski, il turbinio allusivo di nomi fabbricati è nel segno del maestro sommo di satira, Swift, come indica la precisa citazione nel nome di una base russa, Laputa. Kissoff (o Kissev), il premier russo di cui si sente solo la voce telefonica, è in un certo senso il nome più curioso che rimanda allo Stranamore del genialmente cabarettistico Sellers (le cui improvvisazioni sul set Kubrick integra volentieri nel film), l’uomo dai mille volti che doveva impersonare anche il maggiore Kong e che avrebbe potuto «fare» (non necessitando caratteri) tutti i personaggi come in una recita dell’infalicabile Quilty. Oggi appare evidente la rassomiglianza dello scienziato e consigliere strategico tedesco col dottor Henry Kissinger della politica estera americana. Kubrick conosceva le sue opere sul controllo di una strategia nucleare, e pare che Sellers conoscesse personalmente l’allora nascosto personaggio.

Questo porta all’aspetto del film che ho finora trascurato in quanto già ribadito nelle occasioni precedenti e qui evidentissimo. Stranamore è infatti soprattutto, nell’oggettivazione suprema del problema atomico (cioè della conservazione o distruzione del mondo), l’ennesimo lavoro su una struttura logico–matematica in questo caso sulla «teoria dei giochi» che tanta parte ha negli studi americani di strategia. Giochi e previsioni basate sul calcolo di milioni di morti, Orizzonti ai gloria in scala massima: le parole di Turgidson sui «soli» 50 milioni di morti che gli USA avrebbero se portassero subito l’attacco a fondo possono colpire per cinismo, ma sono quasi testuali citazioni da testi di Kahn o dello stesso Kissinger. Non dovrebbe sorprendere, ma è impressionante constatare fino che punto è «realistico» il film, leggendo la raccolta di saggi scritti proprio negli anni di Stranamore da A. Rapaport (Strategia e coscienza, Milano 1969), in cui si critica appunto la tendenza a trattare il problema nucleare in termini di «gioco matematico», citando espressamente la teorizzazione fatta da Kahn della Macchina della Fine del Mondo.

Si indica di nuovo in Kubrick la disperata coscienza romantica di una presenza costante dell’irragione nella ragione umana, dell’irrazionalità nella ragione progressiva dello spirito hegeliano. Ricordiamo la follia improvvisa di Turgidson che quando già sa tutto anche della Fine possibile, si abbandona nella War Room a un’esaltazione delle capacità del pilota del bombardiere che sta sfuggendo ai russi, e atteggia le braccia a imitarne il volo possente e spettacolare: «dovreste vederlo», e noi spettatori lo vediamo dall’inizio del film, un po’ timorosi ma affascinati, e anzi sempre in attesa di quelle che sono le sequenze più «stimolanti». Ricordiamo ancora lo sciogliersi della paralisi del razionalissimo Stranamore al momento dell’esplosione di irrazionalità pura che è la Bomba: «Mein Fuhrer! Io cammino!» è l’esclamazione gioiosa della razionalità tedesca che smette di macerarsi e autopunirsi (l’arto meccanico di Sellers spesso esplode in autolesionisti uppercut, oltre che nel saluto nazista per tornare al Nulla. È la coscienza lucida della contemporanea ragione e irragione che aveva Poe, di nuovo citato (le lettere del suo nome formano la sigla–chiave nel cifrario del pazzo Ripper: P.O.E., ragione e irragione, Peace On Earth, Purity Of Essence); la follia di Monsieur Verdoux; la freddezza disperata e maniacale con cui Svevo analizza le perversioni della coscienza di Zeno.

Pubblicato in Stanley Kubrick, di Enrico Ghezzi, Firenze: La Nuova Italia

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