Corriere della Sera
Tullio Kezich
Tolgo il saluto all’Oscar dopo aver visto Casinò di Martin Scorsese: non aver incluso questo titolo nella cinquina dei migliori dell’anno è per i votanti un segno di totale insipienza. O di malafede? Sul dilemma non si è pronunciato, da veterano assuefatto alle ripulse dell’Academy, lo stesso Scorsese. Quando ho avuto occasione di chiederglielo, poco prima delle «nominations» di cui già immaginava l’esito, ha solo allargato le braccia come di fronte a una calamità naturale, poi ha accennato a se stesso con un rassegnato gesto negativo e infine ha aggiunto: «Sharon Stone, may be…». E in effetti la bionda di Basic instinct ha strappato la sua meritata candidatura per un personaggio di femmina venale e autodistruttiva, un ritratto fra i più coraggiosi e spietati. Ma di altre «nominations» nemmeno l’ombra: né al film, né al regista anche come sceneggiatore in simbiosi con Nicholas Pileggi, né allo smagliante operatore Robert Richardson, né al geniale scenografo Dante Ferretti, né agli altri tecnici, né ai guaglioni di malavita Robert De Niro e Joe Pesci in un duetto che fa faville. Negli anni Settanta Las Vegas era ben diversa dalla Disneyland del gioco d’azzardo che è diventata oggi; e il film racconta, appunto, il grande cambiamento, tornando ai tempi in cui la Babilonia del deserto del Nevada si affidava alla protezione delle potenti famiglie mafiose e alla dabbenaggine dei clienti ultraricchi. Si comincia nell’83 con Sam (De Niro) che salta per aria nell’esplosione della sua automobile, segue la fantasmagoria dei titoli astratti ideati dal mago Saul Bass e accompagnati dalle note bachiane della Passione secondo Matteo. E l’annuncio di una tragedia americana dove, nel contesto di un massacro da teatro classico, sui tre protagonisti di un triangolo che suonerebbe nobilitante chiamare amoroso due moriranno e solo uno (proprio quello assassinato sotto i nostri occhi) scamperà per raccontarla come Ismaele in Moby Dick. Nella città del vizio fa il nido una coppia di «bravi ragazzi» che hanno seguito percorsi paralleli nel mondo del crimine: l’ebreo Sam Rothstein è il genio dei tenutari, il tipo dall’eleganza sgargiante e dalle ostentate buone maniere che tiene alla funzionalità delle sue bische e utilizza i sicari senza sporcarsi le mani; l’altro è l’oriundo italiano Nicky Santoro, uno sciamannato e implacabile tagliagole perennemente con lo stecchino in bocca. Casinò dimostra che in un mondo malato i rapporti umani si disgregano, l’amicizia diventa una parola vuota e l’amore non esiste. Come si vede dal fallimento del matrimonio di Sam che, dopo aver sposato Ginger, scaltra sanguisuga del tavolo verde, e averla coperta di diamanti e pellicce, non è riuscito a trasformarla in una compagna affidabile. Se volete sapere tutti i retroscena e le motivazioni procuratevi l’appassionante romanzo-documento scritto in contemporanea con il film dallo sceneggiatore Pileggi (edizione Rizzoli), dove i personaggi sono chiamati con i loro nomi veri. Qui da una storia realmente accaduta, proprio come faceva Shakespeare con le cronache dei re inglesi, Scorsese ha estratto le linee di forza di un racconto drammatico che sposa l’iperrealismo al pittoresco nella descrizione della malavita, con i suoi complicati rituali piccolo borghesi e le sue feroci condanne inappellabili. Da oggi in poi, quando vedremo le mille luci di Las Vegas non potremo evitare di pensare alle tombe clandestine immerse nel buio del deserto circostante. Se nel teatro elisabettiano ci si scannava per la corona, ai tempi nostri ci si scanna per il denaro: il giudizio di Casinò sull’ambiente del gioco, metafora delle pulsioni di morte della società capitalista, è di rifiuto totale. Forse perciò questo imponente film di denuncia non è destinato a diventare troppo popolare.
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Film TV
Emanuela Martini
Qualcuno ha detto che è una versione violenta di Quei bravi ragazzi (e violento, sanguinoso, esasperato, lo è davvero); qualcun altro che Scorsese gira su stesso, sui suoi temi e le sue ossessioni, e che dovrebbe fermarsi, pensare, reinventare. Forse è vero; ma è anche vero che Ford, Hitchcock, Fellini hanno continuato per tutta la vita a fare lo stesso film. Il cinema non è (solo) questione di storie, temi, personaggi; il cinema è soprattutto una questione di immagini, di movimenti di macchina, di ritmo, di “idee del mondo”. E l’immaginario di Scorsese è rutilante, enorme, squarciato dalla violenza e dal delirio di personaggi che sono “più grandi della vita”, e la sua idea del mondo è disperata, inorridita, tragica. Come i suoi film. Casinò è un melò pazzesco e instancabile, dove tre caratteri sopra le righe si conducono all’annientamento. È anche (marginalmente) un thriller dove dei gangster troppo ambiziosi si scontrano senza speranza con padrini vecchissimi e impigriti, sempre seduti a un’interminabile ultima cena. Ed è un’epopea nostalgica di un “West” (la Las Vegas anni ’70) regolato dalla legge del più forte, ma dove ancora circolano uomini e miti e non solo gitanti e impiegati della Disneyland del gioco d’azzardo. Quanto a Scorsese, è davvero un regista “più grande della vita”: le prime due ore di Casinò (che ne dura 3), tutte “palleggiate” tra le voci off di De Niro e Pesci, tutte spezzate e frenetiche, colorate del kitsch anni ’60 e guidate dal movimento fluido della nuova, compatta steadycam che si insinua nei labirinti del casinò (pezzo di bravura: l’esattore che va a riscuotere nella stanza dei pagamenti), sono un’invenzione visiva continua. Come un preludio che duri 2 ore e sia seguito, subito, dall’esplosione tragica dell’ultimo atto. Tra 15 anni, si riscopriranno il coraggio, il senso del rischio, l’astrazione pura di “casinò”.
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la Repubblica
Irene Bignardi
“Mandare avanti un casinò è come svaligiare una banca senza poliziotti in giro” Così parlò Sam “Ace ” Rothstein, o meglio, il suo modello nella realtà, Frank “Lefty” Rosenthal, ras di Las Vegas, dove il suo impero durò un decennio, dalla metà degli anni ’70 alla metà degli anni ’80: un piccolo gangster approdato alla capitale del gioco nel ’68 e diventato a poco a poco il ricchissimo e potentissimo direttore di quattro casinò, il marito di una bellissima ragazza con un passato di call girl, il proprietario di una casa da un milione di dollari (di allora), e l’uomo celebre in tutto il Nevada per le innovazioni che aveva portato nel mondo del gioco. Ma purtroppo anche l’amico di amici non del tutto irreprensibili, afflitto da una pericolosa sete di potere. Morale: una caduta rovinosa, manovrata dai boss mafiosi che erano i padroni occulti di Las Vegas. Martin Scorsese, che in tutta la sua carriera di regista – compreso l’episodio apparentemente anomalo di L’età dell’innocenza – è sempre stato affascinato dall’antropologia delle tribù irregolari, dai meccanismi dell’ambizione, dal gusto del potere, dall’arte della sopraffazione organizzata, ha trovato in Lefty un personaggio che sembra aver vissuto per lui, e in Las Vegas il perfetto laboratorio per le dinamiche della cupidigia. Senza alcuna timidezza per il fatto che Lefty è sempre vivo e vegeto (vive in Florida, A Boca Raton). Anche perché il personaggio, prima di diventare il protagonista del suo film Casinò, si è già ritrovato (consenziente) al centro di un bel romanzo-inchiesta di Nicholas Pileggi, l’autore di Quei bravi ragazzi (Casinò, edito da Rizzoli) a cui il film è ispirato. “Las Vegas era una città senza memoria. Il posto dove si andava per riprovarci. Era la città americana dove la gente andava dopo un divorzio, dopo una bancarotta, dopo un soggiorno anche breve in galera. Era la destinazione finale per quelli che guidano attraverso mezzo continente in cerca dell’unico lavaggio macchine della morale della nazione”. Vale la pena di sgomberare il campo dalla sensazione di déjà-vu. La Las Vegas di Scorsese non ha nulla a che spartire con quella kitsch di Showgirls né con quella tutta pathos di Mike Figgis. I casinò, di cui Scorsese racconta l’etologia con la precisione di un grande reporter, sono il territorio di una nuova tribù di bravi ragazzi, più tirati a lucido e sofisticati ma non meno feroci, e tuttavia diversissimi da quei pasticcioni che cucinavano spaghetti tra una strage e un’esecuzione. Il “morality play” di Casinò ha per protagonista il dio denaro e per tema l’inevitabile caduta che comporta la corsa senza regole al potere. Tanto più che a gareggiare sono due amici, Ace, “cervello” del gruppo e facciata rispettabile del mondo del gioco, e Nicky Santoro, braccio (e pistola), rispettivamente Bob De Niro e Joe Pesci, impegnati in un duetto magistrale di nevrosi ed elettricità. Tra i due, Sharon Stone nel ruolo dell’ex call girl Ginger McKenna, moglie dell’uno pur non amandolo (perché travolta da una pioggia di amore e oro) e amante dell’altro per sfizio (e così imprevedibilmente brava da essere giustamente candidata a un Oscar, che si sarebbero meritati in verità anche il regista, il film, gli interpreti di sesso maschile e parecchi altri contributi. Dice giustamente Pileggi che i casinò, nel mondo moderno, sono l’unico luogo in cui si possano vedere fisicamente grandi quantità di denaro nelle sue forme di carta, metallo, fiches. E Scorsese racconta con tutto il ritmo della sua montatrice Thelma Schoomacher la complessa gestione di queste montagne di dollari (che finiscono dalle luci dei casinò nelle cucine e nelle botteghe piccolo borghesi dei vecchi del clan mafioso). Ma Ace ha qualcosa di Gatsby: il denaro, che insegue forsennatamente, è lo strumento per conquistare qualcosa di più importante, come il potere e l’amore di Ginger, che lo tradirà invece con il suo amico. Su questo antieroe malato di malinconia Scorsese fa u film “epico”, commentato da una pluralità di voci e di punti di vista, che invitano lo spettatore a guardare senza farsi prendere emotivamente. È coloratissimo, inaspettatamente divertente, qualcuno dirà un po’ lungo (tre ore): un grande ritorno al mondo scorsesiano delle “mean streets”, promosse qui ai corridoi foderati di moquette del Riviera. Tra i momenti indimenticabili, la soggettiva della cocaina aspirata attraverso una cannuccia: sintesi di un senso dell’umorismo che spezia un film travolgente.
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Sette
Paolo Mereghetti
Non un viaggio nell’inferno del gioco ma nell’inferno ‘tout court’, fiamme comprese. Un’odissea penitenziale che ci apre le porte dell’unico tempio che conti veramente in America, quello del Dio Denaro, nell’unico luogo dove lo si adora senza infingimenti, i casinò di Las Vegas. Con una macchina da presa mobilissima, che non sembra mai stanca di cercare, Scorsese scava nei comportamenti di chi cerca di conquistare rispettabilità o potere nel Nevada degli anni Ottanta – il biscazziere “Asso” Rothstein, il gangster Nicky Santoro, la prostituta Ginger – ma contemporaneamente in quanto c’è di più astratto e antinarrativo – il Denaro, il Riciclaggio, lo Spirito di Accumulazione – offrendoci il ritratto, ora partecipe e melodrammatico ora freddo e pedagogico, di un mondo che cerca di costruire le ragioni del proprio successo fingendo di ignorare che dovrà precipitare nelle fiamme della propria inevitabile distruzione. E non per sperare nella nascita di qualcosa di meglio (ché l’immagine dei pensionati-giocatori anni Novanta è forse più agghiacciante dei gangster anni Ottanta), ma piuttosto per raccontare un periodo in cui il cinema poteva ancora avere una ragione d’esistere, come dimostra Scorsese che lo “reinventa” per tre bellissime ore, attraverso il taglio dell’inquadratura, un montaggio che rompe ogni regola, il mix di suoni e dialoghi. Magnifico.
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l’Unità
Alberto Crespi
Robert De Niro esce dal casinò all’alba, con una giacchetta color salmone (forse di salmone…). Sale sulla Limousine e salta per aria. Il suo corpo vola tra le fiamme, iniziano i titoli di testa (di Saul Bass, magnifici) e contemporaneamente inizia la voce fuori campo di De Niro medesimo (ovvero di Gigi Proietti) che racconta la storia. Quindi Casinò, come Viale del tramonto, è narrato da un morto? Poveri ingenui: troppe ne debbono ancora succedere, in 185 minuti di proiezione… Casinò è il film più potente, più stracolmo, più esagerato di Martin Scorsese. Ma non è il suo film più bello, anzi. Cose che capitano. Ci sembra che Sorsese, uno dei cineasti più talentuosi e generosi del cinema americano, sia stato colto da un’ansia da eccesso all’italiana. Prima, con L’età dell’innocenza, ha voluto dimostrare di essere come Visconti. Ora, con Casinò, dichiara di aver fatto un film “felliniano”. Mah, né Visconti né Fellini sono qui a smentirlo, quindi parliamo d’altro. Diciamo che Casinò è un film profondamente “scorsesiano”, in cui pregi e difetti (soprattutto i difetti) del cineasta vengono ingigantiti. Perché Casinò è Goodfellas in trasferta e moltiplicato per mille. Inutile dire che Goodfellas era mille volte più riuscito. Ecco dunque gli “eroi” di Goodfellas, ovvero Bob De Niro e Joe Pesci: anche qui sono malavitosi da due soldi, che nell’anno di grazia 1973 vengono spediti a Las Vegas a far bella vita. Sam “Ace” Rothstein (De Niro) dovrà divenire direttore del casinò Tangier ed essere il “rispettabile” della coppia; Nicky Santoro (Pesci) farà invece il lavoro sporco, picchiare ed ammazzare per assicurare alla “famiglia” (la mafia italoamericana) il controllo sul business del gioco d’azzardo. Questa è la storia: all’inizio degli anni ’70 i nostri “paisà” investirono Las Vegas con tutta la loro potenza criminale, per poi esserne spazzati via dalle multinazionali, verso la fine degli anni ’80. Questa è storia, dicevamo, ma nel film ambisce a diventare epopea. Dove c’è epopea, dev’esserci una donna, possibilmente Elena di Troia, o giù di lì. L’Elena di turno, qui, è Ginger McKenna (Sharon Stone), squillo dedita ad alcool e droghe varie per la quale Sam perde la testa, fino a sposarla. L’amore non è di casa nel mondo macho e lievemente misogino di Scorsese, e l’impaccio è evidente nella scena in cui dovrebbe scoppiare il colpo di fulmine: De Niro vede la Stone al tavolo da gioco, la voce fuori campo ci avverte “mi innamorai di lei al primo sguardo”, e nell’inquadratura successiva i due stanno già “facendo roba”, come si dice a Roma. Le nuances, le mezze misure? non è roba da “goodfellas”, da uomini veri. Sta di fatto che Ginger distruggerà Sam, prima come uomo poi come mafioso, e finirà per concedersi a quel rospo di Nicky chiedendogli di ammazzare l’amico: come risposta si beccherà un cazzotto in faccia. Ma intanto Nicky sarà andato talmente in là, a furia di omicidi, che la “famiglia” dovrà liberarsi di lui. E anche di Sam, ma non nel modo che avete pensato vedendo la prima sequenza… I difetti di Casinò stanno nel manico: una sceneggiatura che basterebbe per uno sceneggiato in venti puntate, e che Scorsese deve girare a 200 all’ora, usando ininterrottamente la voce fuori campo, ora di Sam ora di Nicky. Un tour de force per i due doppiatori (Proietti e Manlio de Angelis, bravissimi) ma anche per il pubblico, che tanto per restare in tema Las Vegas rischia di uscire dalla sala ridotto come Frank Bruno dopo il match con Tyson. Inoltre, se De Niro è misuratissimo, Joe Pesci è ormai la caricatura di se stesso e appare totalmente incredibile nei panni di un gangster possente, invincibile e tombeur de femmes. Per quanto concerne Sharon Stone, lasciamo perdere l’Oscar: è brava, ma se ci pensate è il primo film decente che le capita di interpretare. Certo, Casinò contiene sequenze folgoranti e colpi di grande cinema, ma non funziona al 100 per 100 né come documentario sull’industria del gioco (anche se il denaro è “protagonista” delle scene più belle) né come tragedia greca nel deserto del Nevada. I capolavori di Scorsese timangon Toro scatenato, Ultimo valzer, Cape Fear e, certo, Goodfellas; altri ne verranno, migliori di Casinò.
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il Manifesto
Roberto Duiz
C’è l’assalto mafioso a Las Vegas negli anni ’70, il fiume di denaro si ingrossa grazie anche all’ottimo lavoro di Sam Rothstein (Robert De Niro), genio del gioco d’azzardo, ebreo adottato dagli italoamericani di Brooklyn, lucido “ingegnere” della scommessa. Chiede la garanzia di poter fare a modo suo, Sam, prima di accettare l’incarico. E ottenutala, comincia a costruire argini in cui le banconote scorrano rapide e sotto controllo e dighe sicure per un efficace approdo da cui scaturisca la giusta distribuzione. Un’organizzazione del business curata nei minimi dettagli, che Martin Scorsese illustra con meticolosità documentaristica e alto virtuosismo stilistico. La macchina da presa in impenna e vola alta, per poi planare e correre veloce. Si blocca rimbalza come una pallina da ping pong da un tavolo da gioco all’altro, ingrandisce particolari invisibili a occhio nudo, scivola dietro le quinte e poi torna al proscenio ignaro, portandosi dietro la memoria dell’indagine svolta. E così trascina (letteralmente) il pubblico nel Casinò gestito da Sam, occhio vigile sull’intero teatro del gioco d’azzardo, occhi chiusi su tutto ciò che avviene al di fuori, comprese quelle buche che prendono a disseminare il deserto circostante, scavate da mani furtive e prezzolate per contenere i corpi degli oppositori e degli infami. Las Vegas si apre come nuova frontiera per “quei bravi ragazzi” di Scorsese e si propone come il Bengodi in cui si realizza il sogno della moltiplicazione illimitata del denaro. Un’illusione paradisiaca che crea ebbrezza dannata, come in quei giocatori per i quali un “colpo” estremamente fortunato coincide con l’inizio della rovina. E nel delirio che ne consegue si sfoca ogni sentimento e valore. Fine della complicità, delle lealtà, della fedeltà. Tutti contro tutti in una spasmodica lotta per la sopravvivenza che è allo stesso tempo corsa a rotta di collo verso l’autodistruzione. L’imperturbabilità di Sam vacilla inevitabilmente alla visione dell’avventuriera Ginger (Sharon Stone), intenta a fregare un occasionale accompagnatore al tavolo verde. Al primo incontro ravvicinato con lei ci sono i Rolling Stones a fornire la colonna sonora. A heart of stone, un cuore di pietra, ripete didascalicamente Mick Jagger nel ritornello. Ma Sam non coglie l'”avvertimento”. Abituato a vincere ogni scommessa si illude di poter puntare con profitto anche sul cuore di Ginger. La quale a sua volta si illude di potersi concedere come posta in gioco e, contemporaneamente, passare alla cassa. Mentre Nicky (Joe Pesci) impazza coi suoi metodi anacronistici da gangster di strada e lo stecchino tra i denti, illuso che Las Vegas sia davvero una slot machine da poter truccare a piacere. Quei bravi ragazzi di Scorsese hanno definitivamente lasciato il cuore nei vicoli della Mean streets. Approdati a scenari sfavillanti, tutti luci e lustrini, si sono fatti travolgere dal delirio di denaro e di potere. Sono sempre figure tragiche destinate alla sconfitta, perché non basta mettersi le pinne per diventare squali. E Scorsese è ancora lì a raccontarli, con un linguaggio sempre più evoluto, che lima ogni sterile “trovata” eppure “trova” qualcosa di cinematograficamente prezioso in ogni inquadratura. Ma non è più dalla loro parte. Una sorta di compatimento è subentrato alla complicità. Ex ribelli senza causa, quei ragazzi hanno abbracciato una causa sbagliata da un punto di vista “morale” e si sono messi a giocare su un tavolo che non è il loro. Tragici e patetici comprimari in un gioco di cui si credono protagonisti. E il documentarismo virtuoso che introduce all’inferno camuffato da Bengodi vira in melodramma trucido, isterico, cattivo. I falsi squali si divorano tra loro. Quelli veri si godono lo spettacolo, e continuano ad incassare jack pot. Casinò come metafora del mondo in cui viviamo, dell’illusione capitalistica di sviluppo illimitato, del sogno individualista della “svolta” facile, del delirio consumistico che non ha obiettivi se non la continua accumulazione. Il gioco d’azzardo in sé rimane in secondo piano. Un pretesto-contenitore per un apologo morale che offre spazi di riflessione, oltre che di godimento cinematografico. Combinazione non da poco, di questi tempi. Troppo, dunque, per gli Oscar, che di Casinò si sono accorti solo per la presenza di Sharon Stone, che certo è sempre una presenza notevole, ma, in questo caso, meno totalizzante che in altri.
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Sole 24 Ore
Roberto Escobar
C’è tutto il Martin Scorsese di questi anni, il migliore e il peggiore, in Casinò, C’è lo sgomento per il trionfo di volgarità che ha confutato il sogno americano (L’età dell’innocenza, 1993). C’è la memoria delle radici italiane, insieme rivendicate e sofferte) Goodfellas – Quei bravi ragazzi, 1990). C’è l’eccesso isterico che diventa cattivo gusto (Cape Fear – Il promontorio della paura, 1991). E tutto è portato all’iperbole, svuotato di significato, condotto a un’esplosione nichilistica. Un’esplosione, del resto, apre Casinò: Sam “Asso” Rothstein è scaraventato fuori dalla sua auto, in un delirio di fuoco contrappuntato ironicamente almeno quanto tragicamente, dalle note della Passione secondo Matteo. La sua sarà poi la voce narrante del film, insieme con quella di Nicky Santoro: la prima viene direttamente dall’inferno che riempie lo schermo, la seconda è (per paradosso consapevole, voluto) la voce d’un morto. C’è bisogno d’altro, per comprendere che Scorsese sta affidando per intero il suo cinema alla rabbia risentita, furiosa, beffarda, ipperrealista di Travis Bickle, il protagonista di Taxi Driver (1976)? All’esplosione, in flash back, segue il racconto d’un decennio: Las Vegas dal ’73 all’83, i “bravi ragazzi”, la collusione sistematica tra mafia e potere. Sembrano esserci tutti gli elementi di quello che si può chiamare il lavoro della memoria, grande mistificatrice e mitizzatrice. E tuttavia non c’è traccia di mito, in Casinò. C’è n’è addirittura meno in Goodfellas, che qua e là tradiva pur sempre residui di rimpianto e di nostalgia, fors’anche di simpatia, nonostante lo sgomento allucinato della narrazione. Come può resistere, il mito, di fronte alla meticolosa ricostruzione della verità di Las Vegas, tutta centrata sul denaro? Scorsese ha cura di mostrarlo a mucchi, quel denaro, quasi per inflazionarne l’immagine, il “colore”: lo si gioca, lo si vince e (soprattutto) lo si perde, lo si conta, lo si ruba a chi lo ruba. È un’avidità prosaica, occhiuta, concreta, senza ideologia all’infuori di se stessa, senza passioni all’infuori di se stessa, quella che emerge dalle immagini di Casinò (e che Scorsese già descrisse nell’86, con Il colore dei soldi). Non c’è nessuno nel film, né fra i protagonisti né fra i personaggi di sfondo, che non ne sia dominato. Il denaro regola i comportamenti dei mafiosi e dei politici, governa la follia di Nicky, guida la vita di Ginger (una Sharon Stone cui Scorsese riesce a togliere banalità, ma solo in parte). E soprattutto, prima di ogni altra cosa, il denaro sorregge il “funzionamento” di Las Vegas. L’avidità, dunque, è il niente che accende e tiene accese le luci della città. In questo niente capace di eguagliare tutto, di ridurre a se stesso morte e vita, Scorsese getta consapevolmente tutto il suo cinema, i suoi fantasmi e i suoi ricordi, i suoi valori e i suoi rimorsi. In esso sprofondano le sue radici, ormai degradate fino al grottesco di mangiaspaghetti assassini e mammoni, e insieme sprofonda quel che ancora gli resta del sogno americano. Le radici e il sogno ne sono appunto eguagliati, prosaicamente omologati: le prime si rivelano niente altro che il “luogo” in cui il secondo mostra la propria verità. Attorno a Las Vegas, e paradossalmente nascosto dalle sue luci – suggerisce la voce fuori campo di Sam all’inizio del flash back -, c’è il deserto. Nei suoi orizzonti piatti e indifferenziati la macchina da presa non trova riferimenti, non riconosce memorie (sono, queste, le immagini più belle di Casinò, immerse in una luce che abbaglia, e che tuttavia non ha nulla da mostrare). Nella sua assenza di significati, l’unico senso è quello delle buche che nascondono cadaveri, non si sa dove e non si sa di chi. Paradossalmente viva, in questa visione apocalittica, cupa e fredda, resta solo la violenza: non la violenza dei sentimenti, ma proprio quella muta e cieca dei corpi, delle immagini che la fissano, la mostrano, la amplificano fino all’eccesso e al cattivo gusto. In questo vuoto rovente finisce per esplodere, anzi per implodere e sprofondare l’inferno di Casinò. Fin qui, quello di Asso e di Nicky – e per loro tramite di Scorsese – è il resoconto, ora drammatico e ora grottesco, dell’aprirsi d’una voragine, dello spalancarsi d’un abisso al di sotto dell’illusione. All’esplosione di “niente”, d’altra parte, segue ancora “qualcosa”: non il silenzio che, forse, acquisterebbe il risentito, furioso, beffardo, ipperrealista Martin Scorsese/Travis Bickle, ma un inferno nuovo, più banale e più totale. A metà degli anni 80, i casinò della città sono invasi non da gangster, miliardari e politici corrotti, ma da uomini e donne quotidiani. La volgarità, l’avidità, il vuoto sono ormai di massa, pare dica Scorsese. E in quest’angoscia rabbiosa, assoluta, c’è davvero tutto il suo cinema.
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Ciak
Valerio Guslandi
Potente, virtuosistico, grandioso. Il cinema di Martin Scorsese, soprattutto quello di Casinò, è racchiuso in questi tre aggettivi, a cui va aggiunto – ed è determinante – scespiriano, per la capacità del regista italo-americano di raccontare grandi tragedie moderne. E poco importa che la storia sia una sorta di seguito amplificato dello splendido Quei bravi ragazzi o che Scorsese sia “costretto” dal corposo soggetto (sempre tratto da un romanzo di Nicholas Pileggi) a sviluppare la storia in quasi tre ore. L’intreccio di Casinò è già straordinario nei titoli di testa, firmati dal maestro Saul Bass, con la voce di De Niro che commenta fuori campo la sua eliminazione da parte dei suoi ex capi mafiosi. Sembra un inizio alla Viale del tramonto, con un morto che rievoca la sua storia in flash back, ma Scorsese celebra la fine di una generazione di gangster, non quella di un divismo superato e patetico. Con uno stile sempre più ammirevole e tecnicamente superlativo (e il ricorso a passaggi quasi documentaristici) costruisce piuttosto un suo personale C’era una volta in America, dove, al contrario che in Leone, ogni aspetto romantico è assente. I protagonisti di Casinò sono perdenti proprio perché dichiarano la loro impotenza a vivere i sentimenti. Il loro comune denominatore è il denaro, la loro esistenza un gioco al tavolo verde. Sono orgogliosi, arroganti, testardi. In una parola, sono una specie in via di estinzione: Las Veags si va trasformando in una fredda Disneyland sorretta da banche e società finanziarie.
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Duel
Giona A. Nazzaro
Casinò è il film dell’anno. Per quanto la concorrenza (ossia Strange Days, Heat, Monteiro, Wong Kar-Wai, Eastwood) sia aggueritissima, Scorsese, con la sua naturalezza wellesiana che ormai gli è propria, ci consegna il suo film di fine secolo. La sua summa poetica: un intero universo cinematografico che si reinventa ad ogni dissolvenza incrociata, ad ogni stacco di montaggio, con ogni singola carrellata. Scorsese è il cinema. Proprio come lo è Ford (e Casinò sta alla filmografia di Scorsese come Sentieri Selvaggi sta a quella di John Ford). Il gesto-cinema scorsesiano è qualcosa che rapisce lo sguardo e incanta i sensi. Tutto avviene con la sensuale necessità (inevitabilità) del compiersi del fato. Introdotto da un incipit di concisione truffautiana (per non parlare dei titol di testa), Scorsese ci sprofonda nell’inferno del suo cinema (mondo). Questa è la condanna definitiva dei good fellas. Las Vegas è scrutata da una gerarchia del controllo (dello sguardo) di cui il Tangiers è solo l’epicentro. E questa ossessione del controllo si traduce inappellabilmente come immagine della morte della grazia e del perdono. Non solo: i carrelli, ampi, circolari, labirintici, sovente intrecciati a dissolvenze incrociate, e le soggettive della steady, disegnano le traiettorie di gironi infernali dai quali però è assente la logica aristotelica-tomistica di Dante, sostituita blasfemamente da quella della violenza e del profitto (e la dialettica del fluire del denaro è osservata con un rigore bressoniano che dà i brividi). Le anime dei morti, sepolti nelle buche un mezzo al deserto che circonda Las Vegas, si ergono come un coro muto a commentare il racconto della perdizione di Ace. Ma chi ci assicura che si tratta di una cronaca, per quanto inattendibile? Casinò è un viaggio all’inferno, nell’anima di Ace Rothstein, dove nessun Virgilio (la polifonia di voci che attraversa il film) è in grado di condurre i dannati verso la luce della salvazione, e dove la stessa Beatrice (Ginger) non è latro che l’epitome della dannazione: della fallacità del desiderio. Casinò in questo senso è il film più radicale di Scorsese: il suo sofferto criptocattolicesimo, in lacerante contraddizione con la perfezione formale dello stile, scolpisce un terrificante monumento all’inevitabilità della perdizione. I talenti di Ace (quelli che Jake La Motta dissipava nella sua insaziabile brama di vita) sono alla base della sua dannazione. Il peccato d’orgoglio allontana l’uomo da Dio. Casinò è la formulazione più agghiacciante di un universo dal quale lo sguardo salvatico di Dio si è definitivamente allontanato e sostituito da una sterile scopofilia. Il cinema, scandalosa parodia si un progetto tologico impossibile da ricostituire, rivela tutta la sua maestosa inutilità: immagine e forma dell’affannarsi degli uomini che non può restituire altro che una pallida imitazione del mondo (delal creazione). Raramente il plusvalore di disubbidienza etica e morale del cinema ha trovato una rappresentazione più icastica. Eppure mai prima d’ora il cinema scorsesiano è stato più laico. Proprio dalla consapevolezza della disubbidienza nasce il sentimento di solidarietà verso gli uomini e il suo partecipare delle loro tragedie. Quello di Scorsese è un rifiuto di piegarsi al caos che il suo cinema sceglie follemente di abbracciare, opponendo al suo furore la logica imperscrutabile e la bellezza di un lancio di dadi. Casinò va incontro alla fine con un ghigno nel cuore e una coscienza forte e livida del dolore che ci fa acclamare Scorsese come primo tra tutti i nostri compagni di viaggio. Infatti nel tracciare le coordinate dell’inferno, Scorsese non si dimentica di passare in rassegna tutte le mappe di un’affezione cinefila enciclopedica che, miracolo!, diventa, come per incanto di uno stile sontuoso e immaginifico, miraggio di un sogno.