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SHINING: INCERTEZZA MORALE – di Giorgio Cremonini

Il presente contributo di Giorgio Cremonini è inserito nel numero monografico intitolato "Quel che resta nella cornice", dedicato alla descrizione di alcune tra le più suggestive inquadrature della storia del cinema.

Il presente contributo di Giorgio Cremonini è inserito nel numero monografico intitolato “Quel che resta nella cornice”, dedicato alla descrizione di alcune tra le più suggestive inquadrature della storia del cinema.

di Giorgio Cremonini

Inquadratura dall’alto: un labirinto. Un attimo fa abbiamo visto Jack Torrance-Nicholson che guardava dall’alto il plastico del labirinto e quello che vediamo adesso sembra proprio quel plastico. Una soggettiva, dunque (queste sono le regole). Tuttavia subito dopo, mentre la macchina da presa carrella avanti/in basso, scopriamo che quello che stiamo guardando non è un plastico, ma il labirinto vero: vi si aggirano Wendy e il piccolo Danny (abbiamo visto anche loro, prima, entrare nel labirinto). Per un attimo siamo stati ingannati: abbiamo creduto di avere lo sguardo del protagonista, ma la stessa immagine ci ha svelato l’inganno. Paradossalmente ha un doppio statuto: parte come una soggettiva e diventa una oggettiva.
Una soggettiva di norma è univoca, legata al punto di vista di un personaggio e solo quello: che sia dichiarata a priori o a posteriori, costringe lo spettatore – testimone esterno per eccellenza – ad adottare quel punto di vista e ad entrare nel mondo del racconto che gli è precluso: come se a uno di noi dicessero di assumere per gioco una identità non nostra e noi lo facessimo, pronti a recuperare la nostra appena il gioco è finito. Lo costringe insomma a sovrapporre una identificazione, primaria, visuale, esterna, e una secondaria, narrativa, interna. E tuttavia non nasconde il fatto che questo transfert narrativo è un artificio drammatico, un trucco, un gioco a rimpiattino rovesciato, un effimero scambio d’identità: i ruoli sottoposti allo scambio (spettatore e personaggio-narratore) rimangono istituzionalmente inconciliabili, legati a due mondi paralleli, fuori del racconto e dentro il racconto – e la loro incomunicabilità è paradossalmente sottolineata proprio dal carattere finto e scopertamente funzionale dello scambio-sovrapposizione.
La soggettiva/non soggettiva di Shining sfugge a questo trascinamento emozionale-partecipazionale: proprio mentre sembra subirlo (l’impressione della soggettiva nasce dallo sguardo di Torran­ce), lo rifiuta, senza stacchi, cesure, soluzioni di continuità. Se la soggettiva classica si presenta come consegna, effimera ma seducente, di un testimone all’interno della staffetta narrativa, e tutt’al più duplica o moltiplica la potenziale soggettività dello sguardo, qui lo scarto avviene all’interno della stessa inquadratura, che si rivela duplice in sé, ambigua, sospesa. Nel momento stesso in cui accettiamo di entrare nel mondo parallelo del racconto, scopriamo di essere fuori. L’illusione narrativa si smaschera da sé, si dichiara inganno. Raggiungiamo insomma il cuore della fiction cinematografica, giocata prima sullo sguardo che non sulle azioni.
Kubrick è probabilmente l’autore che negli ultimi trent’anni (a partire da 2001 Odissea nello spazio) si e ci interroga con maggiore insistenza sul nostro ruolo di spettatori e sulla funzione identificatrice dello sguardo, analizzando in modo sistematico tutte le possibili variazioni di prospettive e distanze: la complicità del camera look e la teatralità distaccata di Arancia meccanica, lo zoom indietro e l’estasi figurativa di Barry Lyndon; il campo-controcampo di Full Metal Jacket, dove uno dei punti di vista che siamo costretti ad adottare è quello dei morti. Il labirinto di Shining è uno dei punti d’arrivo di questa ricognizione: è a suo modo il trionfo del fantastico, perché ci conduce in un luogo in cui non sappiamo più chi guarda che cosa, una vera e propria no man’s land in cui si perde la separazione rigidamente convenzionata del cinema classico fra spettacolo e spettatore, fra immagine e sguardo. Quel labirinto non è il teatro-mondo di Torrance, come in parte speriamo per salvarci, è il nostro. Non abbiamo bisogno di altre soggettive – vere, marcate – per riconoscerci in lui: è stato sufficiente averlo creduto per una frazione di secondo. Accanto allo spaesamento fantastico e a quello metalinguistico, ne troviamo un altro che è morale o, se si vuole, politico.

Cineforum n. 366, Luglio/Agosto 1997; pp. 73-74

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