Heidi in the Mountains (it.Heidi in città)
Regia: Isao Takahata – Origine: Giappone, 1974
di Enrique M. Butti
Seguendo fedelmente gli avvenimenti descritti in «Heidi viaggia e impara» (Zurigo, 1888), la novella di Johanna Spyri, e nei fumetti da essa tratti — soprattutto i capitoli “Verso Francoforte” e “Arriva la nonna” (Edirre editrice, Roma 1978) —, in cui si racconta della partenza di Heidi dalle sue montagne svizzere (popolate dall’imponente nonno, dall’amato cugino Peter e sua famiglia, dal cane Nebbia, dalla capretta Fiocco di Neve) verso la prospera Francoforte (con il labirinto dove abitano Clara — costretta in una sedia a rotelle, a cui Heidi dovrebbe fare, e le fa, compagnia —, la terribilmente odiosa signorina Rottemeyer, e dove arrivano inaspettatamente il papà e la nonna di Clara; ma soprattutto Francoforte città con le sue strade e le sue vedute infinite senza montagne), questo film presenta una singolare caratteristica; quella di abbandonare la concezione classica del film “d’animazione” (concezione dettata più che dalla sua tecnica o dalla sua marginale storia nella storia del cinema, da un affrettato assunto suggerito dal “senso comune”), la concezione classica, dicevamo, che collega indissolubilmente “disegno animato” e “fantasia sfrenata, scatenata, sbafata”, per ascriversi ad altre che subito scopriamo: in Heidi in città non c’è la minima caduta (o elevazione, secondo come si veda) nei giochi, svolazzi o astrazioni comuni alle convenzioni instaurate nella narrativa dell’animazione”, e invece c’è profusione di quelle ormai “naturalmente acquistate” in un film “dal vero”. (Quelle convenzioni atipiche, fuori dal contesto dei generi o scuole, che ancor oggi servono per significare il passare del tempo, mutamenti di luogo, realtà e sogno, e principalmente quelle regole che dirigono una determinata azione: in una conversazione, un piano totale, e successivamente campo e controcampo dei dialoganti; o in una qualsiasi situazione: campo lungo, campo medio, primo piano, campo medio).
Vediamo alcuni esempi. C’è un momento nel quale la nonna di Clara per intrattenere le bambine nella vuota attesa della cena, ordina al cameriere di portare dei bicchieri e dell’acqua; dopo, misteriosamente, prende un oggettino che tiene nascosto nella mano, lo avvicina a un bicchiere e lo butta nell’acqua, dove repentinamente si delineano uno stelo, delle foglie e si apre un fiore. Davanti ad una scena come questa c’era d’immaginarsi che gli animatori avrebbero preso al volo la possibilità di sollazzarsi con questo fiore che poteva crescere splendido, radiante, in costante trasformazione, tutte evenienze possibili perché giustificate dall’incantesimo che il racconto proponeva; anzi, la situazione in sé (l’attesa della cena, le bambine annoiate, la nonna che deve mostrarsi sempre svelta, simpatica, imprevedibile, e che dice che farà un gioco di prestigio) sarebbe stata un pretesto per consentire quella serie d’immagini ambigue, colorite ed esaltanti, avvicinandosi così ad una possibile lettura mentale del gioco magico realizzato dalla nonna, una soggettiva mentale delle bambine spettatrici. In Heidi in città, invece, lo spettatore deve (come in un film “dal vero”) contentarsi di assistere al trucco ordinario (che qualsiasi nonna normale può riprodurre comprando, in qualsiasi negozio di cianfrusaglie, questa ikebana ridotta che si apre a contatto con un liquido) e, se il pubblico vuole penetrare nella sorpresa e godimento delle due bambine che guardano il fiore spuntare, deve farlo studiando i loro gesti, le loro reazioni psicologiche. Si possono anche citare quelle scene nelle quali Clara e Heidi scherzano, e se il pubblico si divertirà sarà non per la barzelletta o il gioco che le due bambine elaborano, ma per l’indugiarsi delle riprese sulle due protagoniste che ridono una (contagiosa?) risata.
Queste ultime osservazioni sono importanti in quanto inerenti al discorso e alle vicende del fenomeno Heidi, perché spiegano in gran parte l’interesse che può destare questa storia apparentemente anacronistica — non può esserne la sola causa il bombardamento pubblicitario, televisivo, discografico, editoriale, cinematografico (mentre Heidi in città esce a Roma in prima in cinque cinema, Heidi, film “dal vero” sullo stesso soggetto, esce contemporaneamente in tre, e per Natale si prevede l’uscita di un altro capitolo in movimento)1, un interesse che fa ricordare a bambini di tre, quattro anni, il difficile nome straniero della signorina Rottemeyer2, o giocare a essere la selvaggia e graziosa Heidi o malata, dolce e nobile Clara. Heidi in città (e ancora di più la novella e i fumetti) manipola con minuziosità la identificazione (per questo ridiamo non della barzelletta ma di Heidi che ride), la contraddizione psicologica dei personaggi (umanizzandoli cosi: il nonno imponente che non può tuttavia far rimanere con sé Heidi; la dura signorina Rottemeyer che ha paura folle dei gatti; il padre e la nonna di Clara, cosi buoni, ma che lasciano per lunghi periodi sola la bambina; il bimbo dell’organetto che aiuta Heidi a tornare a casa, ma che si interessa soltanto dei soldi che riceverà in premio), le conversazioni, le situazioni psicologicamente complesse, i tropismi sarrautiani (Clara che parla della solitudine; la signorina Rottemeyer che guarda istericamente la nonna e le bambine che vanno a passeggiare; il padre di Clara che spia Heidi per decidere se è o no pazza)…
Subito dopo la scena che abbiamo descritto, la nonna, servendosi di vari bicchieri più o meno pieni d’acqua, costruisce degli strumenti musicali. Nell’allegra magia di quel clima assordante, vediamo Clara e Heidi che suonano i loro bicchieri e, intercalate (sempre come in un film “dal vero”, dove uno “svolazzo” è possibile se integrato negli elementi presenti nelle inquadrature contigue), scene nelle quali si vedono i bicchieri di cristallo e in ognuno il riflesso ripetuto delle faccine entusiaste delle protagoniste. E ancora: Heidi racconta alla sua amica delle vicende quotidiane che si svolgevano nel suo paese in montagna, e iniziano una specie di psicodramma, dove prendono la parte dei personaggi della memoria. Il film approfitta di questo momento per far “reale” questo gioco-trance di Heidi, e passa a mostrare le due amiche nelle adorate montagne svizzere. Il trasferimento dalla stanza di Clara alle Alpi è realizzato un’altra volta tramite l’effetto classico con il quale l’avrebbe fatto un film “dal vero”: con una dissolvenza incrociata, dove l’unico trait d’union che permane nelle due inquadrature è Heidi che balla, eccitata.
Questi esempi (scelti perché dei più spinti, quelli nei quali c’è un momento di trucco, di trasformazione, o dove si presenta un punto di vista “stravagante”) possono servire per esporre l’abbandono, in Heidi in città, delle consuetudini del disegno animato per quelle del film “dal vero”. Questa peculiarità non può certamente essere casuale, soprattutto se compariamo le linee narrative di questo film con quelle presenti nel corrispettivo fumetto, e avvertiamo che, delle pochissime scene che il film non include, quasi tutte presentano, dichiaratamente o in potenza, una difficoltà a essere comprese in questa struttura di film “dal vero”: scene come quella in cui Heidi, che si affanna studiando l’alfabeto sul suo quaderno, osserva una lettera macchiata che le ricorda una capra; la capra salta tra le lettere, Heidi la insegue dentro il quaderno e le monta sopra, arrivando cosi alle sue rimpiante montagne svizzere.
Ce ora da chiedersi la ragione di questa scelta. La nostra opinione è che, cosi facendo, gli autori hanno pensato di ottenere verosimiglianza nel racconto e nei personaggi. Se è cosi, ci troviamo di fronte a una variante di quella confusione nel concetto di “realismo” che Jakobson ha cosi ben studiato. Che un film di animazione possa raggiungere tanto (o più) il “senso della realtà” quanto un film “dal vero”, dovrebbe essere una nozione scontata. Partire, invece, dal presupposto che “senso della realtà” e convenzioni del cinema “dal vero” coincidono, è, se non sbagliato (finché qualcuno non dimostri il contrario la realtà è — o almeno include — tutti i principi e le dottrine che le vengono attribuiti) almeno stravagante, e, certamente, facile. E ingenuo, quando si tratta di animare un fumetto in cui la economia dei disegni svela subito una tecnica inavvicinabile alla verosimiglianza base del cinema “dal vero”. Si vorrà nel futuro raggiungere con il P.P. di un pupazzo ciò che raggiunge Bergman con il P.P. di un suo attore?
Note:
1. Già nel passato il cinema si era servito del personaggio di Heidi: Heidi (Zoccoletti olandesi, USA, 1937) di Allan Dawn, con Shirley Tempie, e Heidi (Son tornata per te, Svizzera, 1953) di Luigi Comenoini, con Elisabeth Sigmund.
2. Rottenmeier nel romanzo e nei fumetti.