di Lorna Martin
Fatima Osmanovic ha solo una foto di sua madre, ma non ha la forza di guardarla. Nove anni fa, quando lei ne aveva dieci, l’ha intravista per un attimo. Da allora, ogni volta che chiude gli occhi e pensa a sua madre, quella foto continua a tornarle in mente. Fatima non riesce più a ricordare il suo volto o i suoi tratti. Le resta solo quell’immagine: sua madre con un abito bianco e un cardigan rosso, impiccata a un albero con un cappio ricavato dalla cintura e dallo scialle. Fatima e suo fratello Damir sono rimasti sconvolti dalla loro reazione di fronte alla foto. Ha cambiato il modo in cui vedevano la madre e ha distrutto tutti i loro ricordi più cari. “Ancora oggi non riesco a ricordarmela così com’era”, sussurra Fatima.
La fotografia di Ferida Osmanovic è stata pubblicata sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo subito dopo la caduta di Srebrenica, l’11 luglio 1995. E ha sollevato una serie di domande nel senato statunitense: qual era il suo nome, da dove veniva, quali umiliazioni e torture aveva subito? Era stata violentata, aveva assistito all’uccisione dei suoi familiari?
Al tempo, in occasione di un incontro con il presidente Bill Clinton, il vicepresidente Al Gore parlò dell’articolo comparso quel giorno sulla prima pagina del Washington Post. “Mia figlia, che ha 21 anni, mi ha fatto delle domande su questa fotografia”, disse al presidente, mostrandogli il giornale. “Cosa dovrei dirle? Perché tutto questo accade e noi non facciamo niente? Mia figlia è sorpresa di come il mondo possa permettere che ciò succeda. E lo sono anch’io”.
La fotografia è il simbolo del tradimento di Srebrenica. La città in teoria era un’area protetta dalle Nazioni Unite, ma è diventata il teatro dell’unico caso legalmente provato di genocidio che si è verificato sul suolo europeo dopo la seconda guerra mondiale.
I peggiori musulmani
Si avvicina il decimo anniversario del massacro di più di settemila uomini e ragazzi musulmani, e Fatima e Damir sono tornati per la prima volta in quella che un tempo era la loro casa a Srebrenica per raccontare la storia che sta dietro a quella foto.
Damir, 23 anni, e Fatima, 20 anni, sono bosniaci musulmani. In termini di razza sono identici ai serbi e ai croati con i quali condividono il loro paese: sono tutti slavi del sud di pelle bianca. Parlano la stessa lingua. L’unica differenza tra di loro è la religione. I musulmani bosniaci erano scherzosamente definiti i peggiori musulmani del pianeta: molti di loro non sono particolarmente osservanti, mangiano carne di maiale, bevono alcolici e vanno raramente alla moschea. Le donne, come gli uomini, indossano Levi’s e Nike.
Fatima è minuta e sottile, alta circa un metro e cinquanta, i suoi occhi sono castani e ha un largo sorriso. A prima vista sembra più forte e diretta di suo fratello ma all’inizio era riluttante ad andare a Srebrenica. C’era tornata solo un’altra volta, l’anno scorso, per firmare alcuni documenti, e non era sicura che avrebbe trovato la forza e il coraggio per tornarci ancora. Damir è un ragazzo mite e va a Srebrenica almeno una volta all’anno con suo zio paterno, che si è salvato scappando nella foresta. Secondo lui queste visite hanno un effetto catartico.
Seduta nel memoriale davanti all’ex base Onu di Potocari, Fatima non riesce più a controllare le emozioni che ha cercato di dominare per l’intera giornata. Dietro di lei ci sono 1.300 tombe. Altri cinquecento uomini e ragazzi che hanno perso la vita qui saranno sepolti in luglio. Fatima e Damir sperano che i resti del loro padre siano trovati, in modo che i genitori (i due ragazzi hanno chiesto la riesumazione della salma della madre sepolta a Tuzla) possano essere sepolti insieme in questo luogo.
“Quando sono qui provo una grande rabbia”, esclama Fatima. “Non posso davvero credere che tutto questo sia successo a noi e alle altre famiglie. Quando sono tornata nella casa in cui vivevamo a Srebrenica ho avuto la sensazione che mio padre e mia madre fossero lì, dietro di me. È la prima volta in dieci anni che sono riuscita a vederli e a sentire le loro voci. Ho avuto un flashback: chiamavo i miei genitori ma loro si nascondevano. E poi all’improvviso sono comparsi e ci siamo messi tutti a ridere. La verità è che io non ho mai cercato di dimenticare mia madre e mio padre, sono sempre nel mio cuore. Ma mi rendo conto che la mia vita deve andare avanti”. Fatima racconta che per anni, dopo aver visto la fotografia, ha odiato sua madre. “Cercavo di pensare che era stata costretta a farlo, a finire così, ma non riuscivo a convincermene. Crescendo non le ho più dato la colpa. So che era attaccatissima a mio padre, lo amava molto. Forse non poteva sopportare di essere separata da lui. Forse rimpiangeva di non averlo lasciato fuggire nella foresta e si sentiva in colpa per averlo portato alla base Onu, di avere avuto fiducia nella comunità internazionale e di averlo così di fatto portato alla morte. Lei è l’unica a conoscere le ragioni di quel gesto”.
Come sua sorella, Damir si è sentito inizialmente travolto dalla rabbia per il suicidio di sua madre: “In un certo senso l’ho odiata, ma penso che sia stata la pressione dell’intera situazione, la follia. Il fatto che la foto abbia fatto il giro del mondo ci ha reso le cose ancora più difficili. Ma penso che ci sia stato anche un lato positivo, perché la gente ha potuto vedere gli orrori che accadevano qui”.
Un paesaggio idilliaco
Fatima e Damir hanno passato la prima parte della loro infanzia in un piccolo villaggio chiamato Jezero, trenta chilometri a sudest di Srebrenica e a soli cinque chilometri dal confine con la Serbia. Il paesino è appollaiato sul fianco di una montagna, in un paesaggio idilliaco. Sotto un cielo primaverile le spighe di grano ondeggiano nei campi. Un uomo anziano sale lungo la collina con una falce. Sotto scorrono veloci le acque verdi della Drina e poco oltre svettano le montagne della Serbia.
Damir si ricorda bene dei suoi anni di vita qui, quando giocava a calcio con il padre Selman – “un uomo gentile, divertente e mite” che lavorava in una fabbrica di mobili – e con gli zii e i cugini davanti a quelli che ora sono i resti della sua casa. Si ricorda che andava a scuola e che facevano tutti insieme lunghe gite con l’auto di famiglia. Fatima, che ha vissuto qui fino a quando aveva sette anni, non ha quasi più memoria di quella parte della sua vita: “Gli anni orribili e difficili che sono seguiti sembrano aver cancellato i tempi felici che sicuramente ho vissuto qui. Non riesco a ricordarmi nulla”. Jezero, a causa della sua vicinanza al confine con la Serbia, fu il primo luogo a subire la pulizia etnica dopo lo scoppio dei combattimenti nell’aprile del 1992.1 soldati e i gruppi paramilitari provenienti dalla Serbia entrarono in Bosnia per espellere tutti i musulmani. Il loro scopo era di aiutare il presidente Slobodan Milosevic a realizzare il sogno di una “Grande Serbia”. Il primo parente ucciso fu uno
zio di 28 anni. Gli spararono mentre stava raccogliendo il grano. La famiglia Osmanovic e tutti i suoi parenti che vivevano a Jezero raccolsero le loro cose e fuggirono verso nordovest. “Mi ricordo di una casa in fiamme e di due uomini che venivano uccisi, mi ricordo anche di come scappammo da qui, terrorizzati perché le nostre vite erano in pericolo”, racconta Damir, mentre esplora le macerie di quella che un tempo era la sua casa.
Per alcuni mesi restarono con altre famiglie musulmane in un piccolo villaggio, ma temevano di finire il cibo, intrappolati nella parte del paese che si stava rapidamente riempiendo di soldati serbi. Avevano sentito dire che molti profughi andavano a Srebrenica e decisero di unirsi a loro. Non appena arrivarono nella città, un tempo nota per le sue miniere di argento, si resero conto che era stata invasa da decine di migliaia di profughi fuggiti dalle bande paramilitari e dai soldati serbo-bosniaci. Tutte le scorte erano finite. Nell’ospedale sovraffollato non c’erano più medicine per i feriti.
Gli abitanti di Srebrenica avevano accumulato riserve di cibo, ma i nuovi arrivati – decine di migliaia di persone -erano affamati e i negozi erano vuoti. La città, un tempo relativamente ricca, aveva novemila abitanti prima della guerra. Nel marzo del 1993, circa un anno dopo l’inizio dei combattimenti, oltre sessantamila civili musulmani si erano ammassati al suo interno. I profughi guardavano le montagne che circondavano Srebrenica e si rendevano conto di ciò che era diventata: una prigione a cielo aperto.
All’inizio gli Osmanovic furono relativamente fortunati. Un cugino aveva abbandonato la sua casa quando erano scoppiati i combattimenti e così la famiglia e venti dei suoi parenti ebbero il lusso di un tetto sulle loro teste.
Oggi la casa, abbandonata e in rovina, mostra ancora i segni delle bombe di mortaio e delle cannonate. Mentre Fati-ma si trova in quello che un tempo era il soggiorno e riesce a stento a trattenere le lacrime, Damir si ricorda dei lunghi giorni passati qui durante l’assedio. “Mio padre era molto intelligente”, dice pieno di orgoglio. “Costruiva delle piccole chitarre e delle scatole per sigari usando pezzi di legno. Poi le vendeva per fare un po’ di soldi e comprarci del cibo”.
Altri non furono così fortunati. All’inizio del 1993 un rapporto dei volontari dell’Ufficio dell’Alto commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati descrisse l’inferno di Srebrenica. I profughi erano accampati nelle strade bloccate dalla neve. Intere famiglie soffrivano la fame e sopravvivevano masticando radici e mangiando foghe. La scabbia e i pidocchi imperversavano.
I serbo-bosniaci – appoggiati dai soldati, dall’artiglieria e dai carri armati provenienti dalla Serbia – continuavano ad attaccare l’enclave. Avvisato della situazione, il capo della Forza di protezione Onu, il generale francese Philippe Morillon, decise di andare a vedere con i propri occhi come stavano le cose. Quando arrivò sul posto fu circondato da donne e bambini sconvolti, alcuni dei quali si sdraiarono di fronte al suo blindato. Il generale rispose alle loro richieste con una promessa che in seguito lo avrebbe perseguitato: “Voi ora siete sotto la protezione delle forze Onu”, disse urlando attraverso un megafono. “Non vi abbandonerò mai”.
Un mese dopo, il 16 aprile 1993, il Consiglio di sicurezza dell’Onu approvò una risoluzione con la quale Srebrenica veniva dichiarata “area protetta”. La risoluzione chiedeva anche il ritiro dei serbo-bosniaci e la consegna delle armi da parte di Naser Oric, il comandante dell’enclave, e dei suoi combattenti. In altre parole, Srebrenica doveva essere smilitarizzata e in cambio le Nazioni Unite avrebbero mandato le loro truppe per controllare la situazione.
Salti di gioia
Gli Osmanovic reagirono alla notizia con grande felicità. “Tutti ridevano e piangevano”, ricorda Damir. “Facevamo salti di gioia e ci abbracciavamo”. Le forze di pace dell’Onu avevano un mandato limitato, ma i bosniaci affamati guardavano a quelle truppe, con i loro giubbotti antiproiettile, i caschi blu e i blindati, come a un protettore. Ma come avrebbe poi scoperto la famiglia, vivere in un’area protetta non comportava alcuna garanzia di protezione.
Nei primi giorni del luglio del 1995 i combattimenti si intensificarono di nuovo. La comunità internazionale e i suoi leader cercarono di avviare negoziati con il generale Ratko Mladic, comandante dell’esercito serbo-bosniaco, e con il suo leader politico, Radovan Karadzic.
Come migliaia di altri musulmani rimasti intrappolati nella città, Selman Osmanovic era convinto di avere solo una possibilità per sopravvivere: unirsi ai I5mila uomini che stava cercando di sfuggire ai serbi arrampicandosi di notte sulle montagne della Bosnia orientale e attraversando le sue valli boscose e piene di nebbia. Questo tragitto è diventato poi noto come il “sentiero delle lacrime” o la “maratona della morte”.
Sua moglie Fendalo pregò di non andarsene. Le colline ripide brulicavano di mine. I soldati serbi sapevano quali erano i sentieri che avrebbe preso la colonna di uomini lunga 16 chilometri. Conoscevano ogni strada che avrebbero incrociato nel loro tentativo di raggiungere il territorio sotto il controllo del governo bosniaco, a oltre sessanta chilometri di distanza.
Ferida, in lacrime, disse al marito che la cosa migliore era che la famiglia restasse unita. Dovevano trasferirsi tutti insieme nel quartiere generale del battaglione olandese in una vecchia fabbrica di accumulatori nella frazione di Potocari, tre chilometri a nord di Srebrenica. Ferida convinse il marito che lì sarebbero stati al sicuro, anche se le forze di pace erano poche e avevano solo armi leggere. “Quando saremo a Potocari, gli occhi del mondo saranno puntati su di noi”, gli disse. “L’Onu e la Nato verranno a salvarci, come avevano promesso”.
Alle prime ore dell’alba dell’11 luglio 1995, quando Srebrenica stava per cadere, la famiglia Osmanovic si unì ai profughi che scappavano a nord verso l’ultimo rifugio. Gli uomini anziani andavano avanti a fatica appoggiandosi a bastoni. Le donne anziane piangevano e si lamentavano. Le giovani madri portavano valigie e bambini. Arrivati alla base Onu trovarono i cancelli chiusi. Circa cinquemila persone erano entrate all’interno del campo da un buco nella recinzione, mentre altre ventimila stavano invece all’esterno in preda al panico. Selman tentò due volte la fuga attraverso la foresta, male cannonate lo costrinsero a tornare indietro. Genitori e figli si strinsero l’uno all’altro, cercando di dormire tutti su una sola coperta. I soldati serbi entrarono trionfanti a Srebrenica e si presero gioco dell’Onu e della sua “area protetta”: con l’aiuto dei caschi blu cominciarono a isolare tutti gli uomini di età compresa tra i 17 e i 70 anni per effettuare “interrogatori su presunti crimini di guerra”. Il giorno dopo arrivarono gli autobus per portare le donne e i bambini a Tuzla.
Damir fissa un punto a mezz’aria mentre ricorda quanto è successo: “Cominciammo tutti e quattro a incamminarci verso gli autobus. Le donne gridavano. Io mi ero aggrappato a mio padre perché ero sicuro che, qualunque cosa fosse accaduta, mi avrebbe protetto. I cetnici (i nazionalisti serbi) se ne stavano da entrambi i lati della strada. Proprio quando stavamo per salire sull’autobus, afferrarono mio padre. Gli puntarono contro i fucili e gli dissero di unirsi agli altri uomini. Non volevo lasciarlo e quindi mi incamminai con lui. Ma mia madre saltò giù dall’autobus. Urlava e piangeva e in qualche modo riuscì a strapparmi da mio padre. Lo abbracciavo e lo baciavo, piangevamo tutti, ma non pensai nemmeno per un attimo che non lo avrei mai più rivisto”.
In silenzio
Quella notte, e per i cinque giorni successivi, l’aria intorno a Srebrenica risuonò delle urla degli uomini e dei ragazzi che venivano mutilati, massacrati, sepolti vivi, oppure uccisi e gettati nelle fosse comuni. Si sentivano anche le grida delle donne e delle ragazze che venivano violentate. La madre di Damir e Fatima era sconvolta: “A un certo punto cominciò a ripetere: ‘Mio marito sta arrivando, mio marito sta arrivando’, ma forse si rendeva conto che non sarebbe mai tornato”, racconta il ragazzo.
“Poi ci disse: ‘Restate qui’. Ci addormentammo e quando il mattino dopo svegliammo non c’era più”, continua Damir. “Mia sorella e io la cercammo. Per due giorni girammo nel campo, chiamandola per nome, ma non riuscimmo a trovarla da nessuna parte”.
Non lontano da lì, alcuni bambini avevano trovato una donna con un abito bianco e un cardigan rosso impiccata nel bosco intorno al campo d’aviazione. Chiamarono un fotografo, Darko Bandic, che scattò solo due foto perché non era sicuro che il suo giornale le avrebbe volute. Nessuno sapeva chi fosse quella donna. Come scrisse il giorno successivo il quotidiano britannico The Guardian: “Nessuno ha pianto per lei quando la polizia ha tirato giù il corpo. Solo un poliziotto annoiato ha vegliato sul cadavere abbandonato vicino al cancello del campo”.
Alla fine la polizia la seppellì in una tomba anonima ai margini del campo profughi. Sulla sepoltura misero un’asse di legno con la scritta: “Ignota, Tuzla”. Solo sei mesi dopo, quando un giornalista statunitense mostrò loro quella fotografia, Fatima e Damir scoprirono cos’era successo alla madre. La prima volta che visitarono la sua tomba scrissero il suo nome sulla lapide con un pennarello. Quando tornarono un mese dopo non riuscirono più a trovarla.
Sono passati quasi dieci anni dalla caduta di Srebrenica, ma la Bosnia Erzegovina resta un paese profondamente traumatizzato. È passato quasi un decennio anche da quando sono stati emessi i mandati di cattura per crimini di guerra contro Mladic e Karadzic. Nonostante la gravità dell’imputazione, la comunità internazionale ha fatto ben poco per catturarli.
Fatima e Damir studiano all’università di Sarajevo. Lei è iscritta a scienze politiche e sogna di diventare giornalista; lui si sta laureando in fisica e spera di diventare insegnante. Ma il fatto che i responsabili di quello che è successo siano ancora in libertà impedisce che le ferite si rimarginino e allontana il momento della riconciliazione.
“Non credo assolutamente alla violenza e all’odio”, afferma Damir. “Ma sono infuriato. So che ad alcune persone normali a volte viene ordinato di fare cose che altrimenti non farebbero, quindi non do la colpa a tutti i serbi. Ma sicuramente do la colpa al generale Mladic e a Karadzic: devono essere portati di fronte alla giustizia. E sotto molti aspetti do la colpa anche al resto del mondo, perché penso che sarebbe stato possibile impedire tutto questo se la comunità internazionale avesse agito prima per fermare il genocidio. Sarebbe stato possibile, ma si è scelto di non farlo”.
Il sole scompare dietro a una montagna nera. Prima di cominciare il viaggio di tre ore fino a casa, Fatima e Damir tornano ancora una volta alle tombe nell’ex base Onu in cui si erano rifugiati. Chinano la testa e recitano in silenzio una preghiera per le persone massacrate a Srebrenica.
The Observer, Sunday 17 April 2005 (leggi qui l’articolo originale)
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L’IMMAGINE
Il racconto del fotografo
Darko Bandic è un fotografo freelance croato. Quando scattò la foto di Ferida Osmanovic seguiva la guerra nei Balcani per l’agenzia di stampa Associated Press. “Era il 14 luglio 1995. Ero arrivato vicino a un enorme campo profughi improvvisato a Tuzla alle prime ore del mattino, intorno alle 5.30. Il giorno prima decine di migliaia di donne e bambini terrorizzati si erano raccolti al suo interno. Proprio nel momento in cui stavo per entrare due o tre ragazzini mi hanno detto di avere visto una donna impiccata a un albero nel bosco. Mi hanno portato sul posto. Ero un po’ confuso, non sapevo esattamente che fare. Dalla direzione da cui provenivo potevo vedere la sua faccia, ma non volevo riprenderla da quel lato. Ho fatto solo un paio di scatti e poi sono tornato indietro fino alla sentinella dell’Onu. Mi ricordo che era un soldato svedese e gli ho spiegato quello che avevo visto. La sua risposta è stata: ‘Per ora occupiamoci dei vivi’. Avevo visto così tante cose orrende durante la guerra in Bosnia, che questa era solo una delle tante. Mi sono chiesto quali cose terribili le erano successe per spingerla a uccidersi. Ma non sono mai riuscito a scoprirlo. Fino all’anno dopo non sono riuscito nemmeno a sapere il suo nome”. – The Observer
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LA STORIA
Il fallimento dell’Onu
Era una zona protetta dalle Nazioni Unite. Ma le forze serbo-bosniache l’hanno conquistata e hanno ucciso più di settemila civili
IL CONTESTO. Nel 1993, per proteggere la popolazione civile, Srebrenica era stata designata come “area protetta” dal Consiglio di sicurezza dell’Onu, che aveva anche chiesto la proclamazione del cessate il fuoco e il disarmo delle unità bosniaco-musulmane. Il piano non fu mai applicato, ma molti civili che avrebbero potuto fuggire rimasero.
LA PROTEZIONE. Al momento del massacro la protezione era garantita da un battaglione olandese assegnato alla missione Onu. Dotato di armamenti inadeguati e privo di un supporto sufficiente, il battaglione non fu in grado di agire mentre i serbi conquistavano Srebrenica e questo rese possibile il massacro.
L’ATTACCO. Nei primi mesi del 1995 il generale Ratko Mladic – ancora oggi ricercato per il ruolo avuto nel massacro – cominciò ad accerchiare l’area protetta per “vendicarsi”, come sosteneva, dei raid compiuti dal comandante bosniaco-musulmano Naser Oric. In primavera Oric venne richiamato a Sarajevo per consultazioni e non tornò mai più. Nel frattempo Mladic aveva tagliato le forniture di cibo e di altri prodotti a Srebrenica, compreso il carburante destinato ai soldati olandesi dell’Onu. A quel punto comandanti e funzionari di primo piano delle Nazioni Unite decisero che non era più possibile difendere le aree protette.
LA CADUTA. L’11 luglio 1995 l’area protetta cadde nelle mani delle forze serbo-bosniache. Nei giorni successivi circa quarantamila persone furono deportate, le donne vennero sistematicamente violentate e più di 7.500 uomini e ragazzi furono uccisi. Mentre Mladic entrava a Srebrenica, migliaia di persone fuggirono verso Potocari, dove c’era il quartiere generale olandese: il comandante del contingente aveva assicurato che l’Onu avrebbe autorizzato attacchi aerei per proteggerli.
IL MASSACRO. Mentre le uccisioni erano già in corso, i serbi dissero agli olandesi che avrebbero “evacuato” Potocari, passando al vaglio gli uomini per individuare i “criminali di guerra”. Invece portarono via gli uomini e i ragazzi e poi li uccisero in massa nei boschi.
LE INCRIMINAZIONI. Quando il Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia si è costituito, il pubblico ministero Richard Goldstone ha attribuito la responsabilità del massacro a Mladic e al suo superiore politico, Radovan Karadzic. I due sono ancora latitanti. Si pensa che siano in Serbia Montenegro, nelle aree di confine con la Republika Srpska, la parte serba della Bosnia. – Peter Beaumont, The Observer
IN LIBRERIA
Sul conflitto nell’ex Jugoslavia si può leggere:
• Alessandro Marzo Magno, La guerra dei dieci anni. Jugoslavia 1991-2001, Net 2005
• Autori vari, La comunità internazionale e la questione balcanica, Rubbettino 2002
• Autori vari, La transizione alla democrazia di Serbia e Montenegro, Marsilio 2002