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Bellocchio: Il cinema come rivolta | Intervista

Marco Bellocchio ripercorre il suo mezzo secolo di attività attraverso un racconto al tempo stesso intimo e 'politico', privatissimo e profondamente intrecciato ai passaggi d'epoca che hanno segnato la storia più recente del nostro paese.

Da I pugni in tasca a Il diavolo in corpo, dall’infatuazione maoista al teatro shakespeariano, dalle interviste agli ex pazienti dei manicomi alla psicoterapia collettiva di Massimo Fagioli. Uno dei più dissacranti registi del cinema italiano ripercorre il suo mezzo secolo di attività attraverso un racconto al tempo stesso intimo e ‘politico’, privatissimo e profondamente intrecciato ai passaggi d’epoca che hanno segnato la storia più recente del nostro paese.

MARCO BELLOCCHIO in conversazione con MALCOM PAGANI

Nell’ufficio romano di Marco Bellocchio anonima gabbia al piano terra di un palazzone romano appoggiato alla Nomentana, in cui sostenere il peso delle idee tra pile di sceneggiature, fotografie in bianco e nero, cartoline autografe del Ventennio e tomi di Hegel, siede il regista che porta il suo nome. L’intera opera di Bellocchio poggia sulla rivolta. Al sistema e alle sue ipocrisie. Vaticano, famiglia, esercito. Ventiquattro film in mezzo secolo di attività. Premi, polemiche, divieti, riflessioni. Bellocchio non ha fretta. Ha tempi da artigiano, pause, ripensamenti continui. Negli occhi stretti, la febbre dell’ex allievo dei barnabiti che all’alba degli anni Sessanta, con I pugni in tasca destrutturò un secolo e mezzo di consuetudini borghesi. Quando prolunga un ragionamento, si fa aiutare dal le mani. Allora disegna progetti nell’aria, per poi riposare in attesa di una nuova partenza. È timidezza, tormento, curiosità. Si accende, ribatte, sottolinea, precisa. Con gli sciocchi, questo problematico disturbatore delle certezze altrui battaglia da sempre, armando una dialettica che ha il solo vizio di non conoscere superficialità. Nel suo recinto, la sinistra potenza dell’immagine non corrisponde mai allo sforzo economico. È un giardino di visioni e incubi, estremamente riconoscibili, che descrivono da una prospettiva ravvicinata la vigliaccheria del sopruso, senza promettere epifanie di salvezza. Alle figure cui tocca la sua metaforica carezza capita di rimanere nella memoria. E sono ricordi inadatti a far pace. Allarmi che Bellocchio suona in solitudine. È già estate. Tra poco finirà. Lino, cotone, appunti. Lui parla per due ore, senza percepibili sbandamenti. La Chiesa di una vita, non l’ha ancora trovata. Così bussa, interroga, si appassiona, abbraccia e rifiuta. Ad ottobre, le stagioni saranno settantuno. Bellocchio migliora con il tempo, spostando la frontiera della sperimentazione sempre un passo più in là. Quando a intervista conclusa, gli prospetti il futuro, accelera il congedo: «Qualcosa faremo, proveremo a non annoiarci». Accompagna, saluta, chiude la porta. Solo. Finalmente.

La coscienza di Marco Bellocchio evolve nell’Italia del secondo dopoguerra. Anni segnati da un clericalismo greve e aggressivo.

Ero bambino e nei silenzi della Val Trebbia, i timori della comunistizzazione dell’Italia, per me erano le voci di mia nonna e di mia zia. I loro commenti, i pranzi affollati in cui pregare riuniti intorno al tavolo e prima di mangiare, il denigrare i rossi e lo scongiurare la loro presa del potere non li ho mai dimenticati. Mio padre Francesco era avvocato. Un conservatore pragmatico, che più che alle rose, si dedicava al pane. In famiglia il suo understatement era nettamente minoritario e il contesto generale giocava a sfavore di posizioni tenui. Schierarsi. Quello contava.

Esempi?

Non sono mai riuscito a cancellare i racconti scolastici che i nostri insegnanti declamavano come feuilletton sulle famiglie che avevano fatto i bagagli ed erano emigrate d’urgenza in America alla vigilia delle elezioni del 1948. I timori di vittoria del Fronte popolare e il lavaggio del cervello delle gerarchie e delle retrovie ecclesiastiche nei confronti dei fedeli erano elementi di un paesaggio quotidiano.

Elementi caricati, quasi futuristi.

Ii gusto per la drammatizzazione e per l’eccesso era assoluto. Il parroco di Bobbio, in sacrestia, ci rassicurava a suo modo. Puntava sui bambini, sulla suggestione delle loro menti. «State tranquilli, se vincono le elezioni i comunisti, ci sarà la guerra civile». Diceva proprio così: «State tranquilli».

Immagini e voci: trasferite in tante sue opere.

Nel Nome dei padre ho messo il missionario che con la lingua tagliata dai comunisti cinesi gira per i collegi come un fenomeno da baraccone. Un monito eterno. La guerra civile tra italiani era più di un’ipnosi collettiva. Ancora mi ricordo il grido di gioia disumano di mia nonna, era il ’51, quando la Dc conquistò per la prima volta il sindaco a Roma ai danni del Pci. La propaganda dell’Azione cattolica sulle coscienze dei cittadini si esprimeva attraverso modalità molto pesanti. Sfogliava un vocabolario asfittico ma di sicura presa. Minaccioso. Millenarista. Peccato mortale, eternità e punizione erano concetti ricorrenti, che le varie istituzioni, scuola, parrocchia, si incaricavano di inculcarci nella mente. Un controllo ossessivo che fino ai tredici anni mi oppresse. Ricordo qualche verso di Bianco Padre: «Siamo arditi della fede/ siamo araldi della croce/ a un tuo cenno/ alla tua voce/ un esercito all’altar», liturgie da somatizzare, precetti da inglobare. Poi mi snebbiai. Furono le letture affrontate nella prima adolescenza ad allontanarmi definitivamente dal solco. A tredici anni ero già ateo. Per esorcizzare senza compromessi quel terrore lontano e liberarmene ho dovuto ridicolizzarlo in moltissimi film.

Dopo aver abbandonato la facoltà di Filosofia alla Cattolica nel 1959, si iscrisse al Centro sperimentale di cinematografia. Cinque anni dopo planò sul cinema italiano con una molotov come I pugni in tasca. L’incendio (all’epoca non la conosceva nessuno), fu immediato.

Avevo soltanto ventisei anni. Ero immaturo entusiasta, inconsapevole. Quella di I Pugni in tasca è una piccola storia, paradigmatica di quanto intenzioni e risultato non siano mai in stretta parentela tra loro. Il film fu preparato nell’estate del ’64. Le riprese iniziarono qualche mese dopo, a gennaio del ’65. Presentammo l’opera a Locarno nell’agosto dello stesso anno dopo esserci visti rifiutare l’approdo al Festival di Venezia e aver mancato l’occasione di essere a Pesaro. Aprà, Micciché e Torri, i curatori della mostra marchigiana, videro un premontato senza audio, assolutamente impossibile da proiettare.

Quando parole e immagini camminarono assieme, l’esito fu inaudito. Rinascita, per voce di Italo Calvino, gridò al prodigio. I ragazzi facevano la fila ai cineforum, gli attori iniziarono a essere contesi dalle grandi produzioni.

Paola Pitagora, Lou Castel e I pugni in tasca ebbero un’eco del tutto imprevedibile. Il voce a voce si alimentò con i premi e il film prese a correre da solo. Non si è ancora fermato, nonostante siano passati quasi cinquant’anni.

Venezia sí pentì, aggiudicandosi in sospetto anticipo ii suo secondo film.

Luigi Chiarini, direttore di un contestato Festival di Venezia dal 1963 al 1968, optò per un riconoscimento tardivo. Il mio secondo lavoro La Cina è vicina fu invitato in concorso al Lido nel ’67 e vinse il Leone d’Argento. Un parziale risarcimento per l’abbaglio di due anni prima.

Nel bianco e nero di I pugni in tasca, brillava un interno familiare malato, incastonato nella nebbia della campagna padana. Nella finzione pulsava un apologo crudo, rivoluzionario e disturbante, terribilmente reale, sulla famiglia e sulle sue infinite contraddizioni.

Perché è da lì, dall’infanzia in famiglia, che ogni infelicità ha inizio. Ciò che siamo è ancora, almeno in parte, segnato da quei primi anni. Cambiare è possibile, ma quant’è lungo il cammino…

Calcolò l’impatto di un esordio così anticonvenzionale?

Con il mio primo lavoro accumulai esperienze assolutamente nuove. Platee affollate, reazioni favorevoli del pubblico, risate inattese. Moltissime nella prima proiezione. Non esprimevano isteria, ma stupore. Lì, nel buio della sala, non riuscivo a capire quella strana ilarità. Avevo provocato turbamenti, senza prevedere minimamente la portata eversiva del film né in fase di scrittura, né di regia.

Per il protagonista del fllm, omicida e blasfemo, scelse lei in prima persona?

Per quel ruolo io e la produzione contattammo anche Franco Nero e Gianni Morandi. Se si fosse realizzata l’ipotesi di affidarlo a Gianni, forse avremmo modificato il copione. Morandi era un ragazzo semplice e aveva un volto interessante, un bel sorriso, ma quando Franco Migliacci, il suo paroliere seppe di cosa si trattava insorse: «Un figlio che ammazza la madre? Semplicemente folle. Non è possibile che Gianni corra questo rischio». A dissuaderlo definitivamente pensò il padre. Quasi una circolarità perfetta, che paradossalmente, molto aveva a che fare con il film. Così chiudemmo quella finestra e a un tratto ci trovammo di fronte a un hbinario obbligato. O ci si accontentava di una soluzione autarchica, fatta in casa, distante dall’ingaggio del nome noto oppure il film non si sarebbe mai fatto.

I soldi non erano molti.

Non avevamo una lira. Per girare chiesi un prestito personale all’istituto di credito della mia famiglia. Mio padre era morto da poco e i beni dei Bellocchio erano gestiti da mio fratello. Fu lui a farmi coraggio: «È vero che io ho la procura e il potere di firma ma in fondo Marco, tu sei un coerede». Ci trovammo a Piacenza, sotto l’insegna della Banca commerciale e a braccetto entrammo. Un’operazione breve. Semplice. Formale. Ricordo perfettamente la cifra erogata: venti milioni di lire. Il primo e l’unico investimento riuscito della mia vita.

Tutta l’avventura produttiva di I Pugni in tasca fu picaresca.

Il produttore, Enzo Doria, era stato uno dei paparazzi della Dolce vita di Fellini. Da ragazzo, come molti dei miei amici, aveva frequentato il Centro sperimentale di cinematografia a Roma. Per confidenza con il luogo, tornavamo lì per trovare collaboratori, attori disposti a condividere la scommessa. Il direttore della fotografia (Alberto Marrama), l’operatore (Beppe Lanci), il fonico (Vittorio De Sisti) erano tutti ex allievi del Csc.

E l’inquietante piuriomicida, Ulv Quarzell, figlio di un’intellettuale svedese e di un diplomatico colombiano. Lou Castel.

Un giorno, nella mensa del Centro, passò questo ragazzo. Bello, un po’ cupo, silenzioso. Rimasi colpito. Chiesi informazioni e mi dissero che era un uditore dei corsi di regia. Mi avvicinai e gli proposi di fare un provino. Interpretò il personaggio con discrezione ma soprattutto a un tratto rise. Fu quell’esplosione incontrollata a farmi decidere. Se mi riconosco un merito, nelle tante incertezze di allora, è quello di aver scelto lui. Per quel ruolo Castel era perfetto.

Fu anche un’opzione dettata dall’ansia di girare?

Non potevo aspettare tanto. I soggetti non sono racconti o romanzi. La sceneggiatura ha sempre qualcosa di precario e se rimane in bilico troppo a lungo, fatalmente, muore. Venivamo da un faticoso rodeo senza successi, costellato da dolorosi rifiuti e dinieghi decisi. Finanziatori, tecnici, attori. Proponemmo una partecipazione economica anche a Ermanno Olmi e a Tullio Kezich. A metà degli anni Sessanta erano soci di un’illuminata società di Milano che aveva già prodotto importanti esordi. Il matricidio era troppo, si tirarono indietro. Ma dovevo iniziare a qualunque costo e lo feci col poco che avevamo. Anni dopo, in occasione del quarantennale di I pugni in tasca, con un’onesta autocritica che è raro trovare nei giornalisti, Kezich ammise di non aver capito il potenziale valore del film.

Perché decise di trasportare l’inferno tra le mura domestiche?

Conosco i miei limiti. Da ragazzo ero molto introverso e capii subito che dopo il diploma al centro di regia, avrei avuto enormi difficoltà a inserirmi nel mondo del lavoro partendo dalle retrovie. Molti registi avevano iniziato servendo il caffè sul set e quel pezzo di carta che avevo conquistato, in fondo, non significava nulla. Però io dipingevo e scrivevo poesie, e pur essendo la persona meno pratica dell’universo ‑ lo dimostra il percorso affrontato nel successivo mezzo secolo ‑ ebbi la capacità, molto pratica, di raccontare quella storia.. Mettere la mia famiglia, pur se trasfigurata, al centro del film non mi aiutò a liberarmene. E in fondo non mi interessava liberarmene. Mi diede una grande identità artistica.

C’è chi in I Pugni in tasca. ha letto in controluce, ritrovandoli, tutti i fermenti sociali che di il a poco confluiranno nel Sessantotto. Dopo l’anteprima svizzera, le firme di quarantuno parlamentari democristiani si ritrovarono sii una durissima lettera di protesta inviata ai Festival di Locarno.

L’idea di fare riferimento a un discorso politico non c’era, ma in una prima versione della sceneggiatura esisteva una scena in cui il protagonista entra in una sezione periferica del Pci per ottenere risposte alla sua infelicità privata e poi ne esce rapidamente, perché capisce che lì non può trovarne. La tagliammo. Tutto il cuore della prigione familiare che descrivevo, la sua chiusura autistica, le grida strozzate, escludeva la politica. Che poi I pugni in tasca abbia prefigurato con lungimiranza alcuni aspetti del Sessantotto non è escluso.

Ma, pare di capire, non è certo.

Io penso alla fugace fiamma del Sessantotto come a un atto gioioso di contestazione dell’esistente acceso da alcuni slogan affascinanti ma superficiali. L’autorità irrisa, la rivoluzione sessuale, la gente che scopava per la prima volta, quella che lasciava il tetto natìo e che mandava a quel paese i genitori. Un’apparente allegria senza una violenza esplicita. Personalmente, nomi ho mai torto un capello a nessuno.

I suoi rapporti con il Pci erano conflittuali.

Venivo dai Quaderni Piacentini nati proprio in casa mia. Cases, Cherchi, Fortini, Fofi. Avevo respirato un radicalismo anarchico, fortemente antipartitico, con cui l’immobilità del Pci, neanche con il più acrobatico dei compromessi, poteva coincidere. Arrivai ai bordi del 1968 a trent’anni. Né giovane, né vecchio. In un’età di mezzo che non mi impedì di osservare con i miei occhi la sfera ludica dell’assalto al cielo. Nel 1967, a fine novembre, alcuni amici mi consigliarono di andare a Torino. «All’Università tirano i libretti sulla cattedra, sbeffeggiano i professori, non è mai successo nulla di simile fino ad ora».

Lei andò?

Di corsa. Arrivai a palazzo Campana. Fummo dolcemente sgomberati dagli agenti. Noi e i poliziotti, gli uni davanti agli altri, senza astio. Gli agenti furono cortesi, noi li lasciammo fare. Misi parte di quel ricordo in Discutiamo, discutiamo con gli studenti chiamati a interpretare i professori contestati. Un episodio di Amore e rabbia, in cui divisi lo sguardo con Godard, Lizzani, Pasolini e Bertolucci. Allora e per una breve fase, il gesto fu più importante della struttura militare. Canti collettivi, cortei, desiderio di partecipazione, anche disordinato. Qualche mese dopo, e poi tragicamente negli anni successivi, prevalse l’idea dell’indispensabilità dell’organizzazione compartimentata per conquistare il potere. Era la negazione dell’immaginazione al potere.

Che poi degenerò.

In questo senso, l’eliminazione fisica della madre cieca e del fratello disabile da parte di Lou Castel in I pugni in tasca, aveva in sé, come mi suggerì mio fratello Piergiorgio, «un’idea dei propri simili quasi criptonazista». Una logica perversa che sarà la linea guida del terrorismo italiano. Uccidere in nome dell’ideologia. Non considerare più la persona, ma soltanto il bersaglio.

A quest’ottica manichea, il Sessantotto era alieno?

Per quel che ricordo, il movimento del Sessantotto fu molto meno violento della lezione di I pugni in tasca. I’assassino che fa le parallele sui corpo della madre è uno sfregio anarchico estremamente violento. Perciò, ripeto, I pugni in tasca prefigurò più che il «gioioso» Sessantotto il peggio che venne dopo.

Come è possibile che il regista più rivoluzionario degli anni Sessanta finisca poi per confluire in una formazione come Servire il popolo?

A distanza di anni quei due passaggi, il Sessantotto e il mio approdo nel maoismo italiano mi appaiono chiari. Quasi consequenziali. Lo spontaneismo sessantottino ebbe vita molto breve e, soprattutto, non trovò al proprio interno un pensiero nuovo per rivitalizzarsi. Ma il vero problema, forse, era soprattutto dentro di me. La mia identità borghese mi era insopportabile. Ero insoddisfatto, disgustato, smarrito. I successi non mi sollevavano il morale, mi pareva tutto senza interesse. La mia vita era entrata in un vicolo cieco, quando l’angoscia diventa fisica, e si affaccia la paura di perdere il controllo…

Ma perché scegliere proprio i maoisti, che dei culto della personalità facevano un pilastro delle loro apparizioni pubbliche, dei dogmatismo una bandiera e nella miriade di sigle e scissioni dell’epoca, erano appellati dai rivali con il perfido nomignolo di «Servire il pollo»? Con La Cina è vicina, già nel 1967, lei aveva corroso quel mondo disegnando un’enclave di un velleitarismo quasi commovente.

La Cina è vicina era una feroce presa in giro dei primi improbabili gruppi maoisti sparsi sul territorio nazionale. Una fotografia impressa molto prima del Vietnam e dell’indurirsi delle posizioni politiche, indigene e non. In seguito mi affascinarono la prospettiva di scoprire attraverso la cultura la storia di altre classi sociali e quelle frasi semplici, in bilico tra demagogia e schematismo: «Gli operai fanno tutto, ma non hanno nulla». L’imperativo morale prevaleva sul ragionamento politico.

Servire il popolo.

Poiché è il popolo che fa la storia, dovevo accettare di rinascere in un’organizzazione politica e rivoluzionaria che avesse come riferimento il libretto rosso di Mao quanto la lezione su Tebe e sulla sua costruzione di Brecht. Allora ragionavo così, In ballo, mentre gli anni Sessanta tramontavano, non c’era soltanto la rivoluzione culturale.

Proclamarsi maoisti somigliava a un equilibrismo, non soltanto dialettico.

Aderire ai maoisti fu un riflesso della mia primissima adolescenza. Il mio cortocircuito verso Servire il popolo era tenuto in piedi da un’infatuazione per qualcosa che pretendeva immedesimazione assoluta, nel quadro di una liturgia di integrazione quasi religiosa. Per i maoisti, cambiare abito, significava necessariamente stravolgere vita e costumi precedenti. Il partito lo chiedeva e per alcuni iscritti questa dedizione alla causa fu veramente totale. Non per me.

Il partito teorizzava e intanto batteva cassa. Ai militanti quadro veniva erogato uno stipendio mensile uguale in tutto e per tutto a quello base di un operaio, settantamila lire. Offrire sostanziosi contributi economici da parte vostra, ai contrario, era la regola.

Alcuni, tra cui Lou Castel, smantellarono completamente i propri patrimoni. Io rimasi nel mezzo. Contribuii. ma oculatamente.

Era avaro, Bellocchio ?

Pagavo devolvendo parte dei miei guadagni, senza però intaccare il patrimonio familiare peraltro molto medio. Frazionarlo avrebbe significato addentrarmi in una procedura burocratica di incertissima soluzione. Il compagno deputato alla riscossione era calabrese, molto discreto. Dal partito chiedevano costantemente un contributo, ma non giungevano all’impudenza di controllare i conti. Non era un sistema mafioso, anche se parlare di spontaneità della donazione, ingannerebbe l’intelligenza.

Alcuni documentari dell’Unione comunisti italiani marxista‑leninista, portano la sua firma.

Finanziai in prima persona e girai Ii Popolo calabrese ha rialzato la testa, il film sulla rivolta dei braccianti di Paola e partecipai a Viva il primo maggio rosso e proletario, per la festa dei lavoro 1969. A Paola vidi gente che viveva ancora in una povertà spaventosa. Nei tuguri con il braciere al centro.

Senza l’ideologia e la voce fuori campo, il documento antropologico sulla realtà calabrese avrebbe oggi tutta la forza di una notevole fotografia neorealista.

Ma si trattava di un’istantanea filtrata dalla propaganda. Il materiale, qualunque realtà rappresentasse (e la Calabria di allora, in cui l’assenza dello Stato era evidente e scuola, sanità e situazione abitativa erano emergenze non così distanti da quella ormai superata del brigantaggio), andava piegato al messaggio del partito. Qualche mese più tardi, Paolo Grassi mi offerse la regia di Timone d’Atene di Shakespeare. La proposta, metterlo in scena a Milano, mi parve l’occasione di «tagliare la corda» (nel doppio senso di chiudere e di scappare). Firmai, presi l’anticipo, lo girai al partito e feci le valigie.

Lei era all’ufficio stampa e propaganda di Roma. Quattro pareti in cui il grottesco era in costante agguato. Si discuteva di collettivizzazioni forzate e si tenevano Soviet allargati per decidere se era sensato che una donna abortisse o se non fosse stato meglio mettere comunque al inondo un futuro rivoluzionario.

La sede si trovava nel quartiere di Montesacro. Una villetta a tre piani, circondata da alberi, non distante dall’appartamento dove vissi cori alcuni compagni dell’epoca, nei primi mesi del 1969. Ii responsabile era Claudio Meldolesi, fratello di Luca.

Quale era esattamente il suo ruolo?

Non ho mai fatto volantinaggio davanti alle fabbriche o lavorato nei campi. Mediai per quanto mi fu possibile tra le mie abitudini borghesi e lo stile proletario della militanza. La mia adesione derivò anche da una catastrofe familiare. Alla fine del ’68, mio fratello gemello si suicidò. Una tragedia che mi convinse ancor di più a buttarmi nella politica rivoluzionaria. Pensavo: «È stato il fallimento della nostra formazione borghese a trascinare nella disperazione mio fratello». Per questo mi impegnai a sradicarla. Servendo il popolo. L’ottimismo marxista‑leninista contro la disperazione della mia classe.

Per ii partito marxista‑leninista scrisse anche soggetti a sfondo cinese?

Durante la militanza le immagini che istintivamente mi venivano in mente le giudicavo vecchie, superate, ripetitive. Volevo ingenuamente che con l’esperienza maoista cambiasse ogni cosa, d’incanto, anche la mia arte. Non volevo più parlare del mio mondo. Niente più drammi borghesi. Tentai anche di fare una sceneggiatura ispirata a modelli marxisti, ma fu un lampo che si spense subito.

Secondo Aldo Brandirali, il leader di Servire il popolo, all’Unione si avvicinarono per un brevissimo periodo Umberto Eco, Bertolucci, Scola, Monicelli, Antonioni e persino Tinto Brass.

Mi prestai senza troppa convinzione a una blanda opera di proselitismo. Non ho convinto nessuno. I miei capi lo sapevano bene che ero un compagno inaffidabile, ma ero un regista abbastanza famoso, un nome da spendere e non dimentichiamo che, seppur per una brevissima stagione, Servire il popolo ebbe riscontri insospettabili. Numericamente strepitosi. Gli intellettuali domandavano, telefonavano, erano curiosi (Alberto Moravia per esempio) e l’interesse degli artisti fu reale, penso a Mario Schifano e Franco Angeli.

Invitò Moravia a osservare con i propri occhi?

Facemmo un grande raduno, uno di quei convegni oceanici che si concludevano sempre con una liturgia consolidata: «Lunga vita al compagno Aldo Brandirali, ai compagno Todeschini, a Marx, Stalin, Lenin e naturalmente, al compagno Mao Zedong». Questi cori fanatici ovviamente non entusiasmarono Moravia. Da parte mia, che ci fossero o meno ospiti celebri in platea, mi tenevo sempre un passo indietro. A raduno concluso, nelle puntuali riunioni di autocritica, Meldolesi me lo rimproverava. «Compagno Bellocchio, perché sei sempre così pessimista?». Una volta venne in avanscoperta Citto Maselli. Inorridì: «Il Pci è la sola ortodossia comunista, voi siete dei pericolosi estremisti».

Provò a irretire anche qualche industriale?

Sia pure con estrema discrezione incontrai Giovanni Pirelli. L’uomo, che aveva rifiutato di guidare la dinastia della gomma, aveva finanziato l’Einaudi e tante cause progressiste. Ero imbarazzato. Non osai proporre nulla di esplicito, ma accennai timidamente alla cosa. Pirelli reagì sorridendo, prima che potessi finire la frase: «Marco no, lascia perdere…». Mi liberò da un peso.

Come uscì da Servire il popolo?

Senza traumi. A Milano forse aiutato dalla distanza, dal lavoro, mi dimenticai letteralmente del partito.

Dal partito non la cercarono?

Sì, ma debolmente. Senza fastidi o persecuzioni. Incontrai il tesoriere a Milano. Saldammo con un assegno. Mi ricordo in quell’autunno, distintamente, quando in un ufficio del Piccolo Teatro, ii 12 dicembre 1969, sentimmo lo scoppio della bomba di piazza Fontana. La violenza ci circondava e, all’improvviso, mi resi conto che anche gli slogan della cultura maoista, quelli che ripetevamo come un mantra alle riunioni di Servire il popolo non avevano nessun rapporto con la realtà italiana di morte che si stava diffondendo dappertutto.

Cosa accadde agli altri?

Si dispersero in pochi anni. Qualcuno si ritirò o cambiò formazione, qualcun altro entrò nella lotta armata. Io ricominciai a fare il regista. Mi aveva affascinato l’idea di poter essere «rieducato». Pensai che il popolo, detentore della vera sapienza, potesse rieducarmi. Perciò dovevo andare alla scuola delle masse. Un ragionamento astratto, superficiale, allora mi sembrò vero. Per circa nove mesi. Certo, quando leggevo del rogo pubblico delle opere di Shakespeare, pensavo: «Ma cos’è questa cazzata?», però l’idea di partire dal basso, dagli sfruttati, per riscrivere la storia riconsegnando a loro ciò che era stato tolto dagli sfruttatori capitalisti aveva qualcosa di affascinante per me piccolo borghese dilaniato dai sensi di colpa. Di coerente.

Di fatto durante tutta l’esperienza filocinese, lei smise di lavorare nei cinema tradizionale.

Dal 1968 al 1970, ho smesso di fare il regista. Fu un suicidio. Sul piano della carriera questa scelta indubbiamente mi danneggiò. Se fossi stato un calcolatore, dopo due successi come I pugni in tasca e La Cina è vicina avrei dovuto programmare un film che consolidasse ancor più la mia fama. Invece dispersi tutto, ma non ho rimpianti. E neanche accuse, ho fatto tutto da solo.

Autoespellendosi da Servire il popolo, lasciò anche la politica?

Per quanto mi sforzassi di rifiutare la politica, per molti anni rimasero dentro di me scorie, stanze aperte, senza porta o luce, piene di suggestioni che ritornavano o sensi di colpa verso quei puri che in quell’esaltazione, veri crociati, avevano perso tutto, alcuni anche la vita.

Sofferenze e contraddizioni che entrarono prepotenti in un film come Sbatti il mostro in prima pagina. La Milano dei primi anni Settanta, gli scontri di piazza, un giovane Ignazio La Russa oratore inguainato in una mimetica verde militare che arringa la folla in mezzo alle bandiere monarchiche e missine dispiegate intorno al palco, ai piedi del Palazzo Sforzesco. La voce, la stessa di oggi: «Gli italiani che non hanno rinunciato all’appellativo di uomini, si uniscano al di sopra delle fazioni. […] Questa manifestazione vuole dimostrare che è possibile battere il comunismo, che è possibile battere i nemici dell’Italia».

Riprendemmo per caso quel comizio di La Russa, il funerale di Giangiacomo Feltrinelli e una serie di tumulti durissimi che in quei giorni videro fronteggiarsi militanti di sinistra e polizia. Caroselli violentissimi e cortei che dalla realtà passarono direttamente in sala di montaggio. Se penso a Sbatti il mostro in prima pagina, rivedo la difficoltà di ricominciare a filmare un cinema non di partito, con testa e pensiero non ancora del tutto liberi. Per anni il film mi parve, a torto, di uno schematismo insopportabile, di una meccanicità che risentiva chiaramente di una lampante esigenza morale: non tradire il passato. Non cancellare la politica. Non chiudersi soltanto in una ricerca personale.

Sbatti il mostro in prima pagina fu anche l’unico progetto della sua vita affrontato su commissione. Il regista avrebbe dovuto essere Sergio Donati. Rinunciò. Scelsero lei.

Donati aveva scritto soggetto e sceneggiatura, per cambiarne l’impostazione chiesi aiuto a Goffredo Fofi. Con lui, pur mantenendo la struttura classica, introducemmo una serie di temi politici che ci sembrarono obbligati. Accadde anche per Nel nome del padre. Sentivo la necessità di introdurre in quella storia così rivolta al passato, una serie di personaggi che in qualche modo si contrapponevano al vecchio mondo in dissoluzione del collegio cattolico.

Lei proseguì nella demolizione delle istituzioni. Il collegio del Nome del padre. La riflessione senza indulgenze sui meccanismi repressivi della vita militare di Marcia trionfale e Matti da slegare, apologo sulla coercizione del disagio psichico, che anticiperà il suo controverso rapporto con lo psichiatra Massimo Fagioli.

A metà degli anni Settanta, girai Matti da slegare sulla chiusura dei manicomi Perciò intervistammo ex pazienti, liberi, ma non guariti. Matti affascinanti, giovani disturbati che la società cercava nobilmente di recuperare. Naturalmente parlo a titolo personale, il film ha altri tre autori, Agosti, Petraglia e Rulli. Oggi mi è chiaro che era un modo per non vedere la mia follia. Allontanarla. Perché in fondo le mie scelte estreme, sbagliate sempre, rispondevano a un’esigenza sincera, di cui non ero consapevole: Chi sono? O anche: così non mi sopporto più. La mia pazzia non mi piace più, anzi mi fa paura… Nel 1973 il contesto era devastante. Eroina, Lsd, un pezzo di generazione completamente distrutto dalla droga. E il terrorismo. Uccidersi o uccidere. Un deserto senza risposte spinse tanti giovani verso la psicoterapia. Ne fiorivano a quei tempi di tutti i tipi.

Anche lei?

Anch’io. Andai in analisi da uno psichiatra. I risultati non furono straordinari, ma per la prima volta le domande più che le risposte trovarono delle parole. E delle pretese maggiori. Freud era cultura, letteratura, ma restavo sempre lo stesso mentre invece c’era una parte di me che ancora una volta voleva cambiare… Anche per l’insistenza di un grande amico andai da Fagioli.

Che faceva i seminari di analisi collettiva, definiva Freud «un imbecille» e si era fatto espellere dalla Società psicoanalitica italiana.

Il grande amico che mi convinse a provare era Piero Natoli, regista, attore e sceneggiatore di grande intelligenza e sensibilità che purtroppo non c’è più. Piero iniziò a parlarmi degli incontri con Fagioli come di un’esperienza storica. In quell’entusiasmo da neofita, scorsi un pericolo. Ero stato deluso dall’esperienza maoista e non volevo avere un’altra delusione. Diffidavo anche dell’idea di poter guarire «radicalmente» per quell’antico pregiudizio che un artista dovesse essere per forza un matto, un malato eccetera. Sì, volevo cambiare, rinnovarmi, ma forse più per ritrovare la forza di immaginazione delle origini che per essere sano di mente. Normalità, mediocrità? Questo mai… in fondo, in principio, mi sarei accontentato di migliorare un po’ il comportamento. Nell’aprile del 1977 decisi di andare all’analisi collettiva (era ancora un solo seminario, poi diventeranno quattro). Si svolgeva a Villa Massimo, c’era sempre il tutto esaurito.

Ricorda qualche volto?

Tanti giovani e poi psichiatri, artisti, una volta andarono anche Roberto Benigni, Nicola Piovani, Cesare Zavattini e tanti altri.

Cosa la spinse a trasformare questa curiosità in una fideistica aderenza alla proposta di Fagioli?

Nessuna «fideistica aderenza», no. In fondo la persona che va da uno psichiatra si comporta dapprincipio in modo un po’ schizofrenico, nel senso che una parte di lui va con la sincera volontà di curarsi (ha paura di impazzire) e un’altra parte per l’esatto opposto, per non curarsi e dimostrare così l’inutilità di ogni cura perché in fondo siamo tutti malati. Io andai con questa doppiezza, ma restai nell’analisi collettiva semplicemente perché le interpretazioni di Fagioli dei miei sogni mi colpirono, intuii che aveva colto qualcosa di molto profondo, per cui, come tutti i pazienti, cercai subito di attaccarlo, di svalutarlo, ma Fagioli, e questo fu il mio secondo stupore, seppe resistere senza mai consolarmi. E questa capacità di resistenza e di rifiuto della consolazione valeva per tutti. Così aprì un varco alla mia incurabilità. È chiaro che per molti anni questa psicoterapia collettiva (all’individualista, al narciso) mi creò molti problemi (di rapporto con i compagni e le compagne, ci chiamavamo ancora così, ora non più), ma se restai così a lungo perché «sentivo» dei risultati e nello stesso tempo, pur partecipando all’analisi collettiva, continuavo a fare delle cose belle (la terapia evidentemente rigenerava la mia immaginazione), riconosciute in tutto il inondo, penso a Salto nel vuoto, per esempio.

Nei 1985, per Il diavolo in corpo con Maruschka Detmers e Federico Pitzalis, la sua collaborazione con Fagioli sfiorò l’osmosi.

Non capisco la parola «osmosi». Io chiesi semplicemente a Fagioli di aiutarmi. Un po’ come l’apprendista stregone avevo deciso di raccontare una grande storia d’amore. Evidentemente ero tentato da questo azzardo e avrei potuto cavarmela benissimo, ma le mie esigenze più profonde, come le mie pretese più coscienti, mi fecero capire, già in corso d’opera, che non ero in grado di realizzare da solo certe immagini, semplicemente perché non le avevo, non ne avevo l’esperienza, ne avevo alcune, me ne mancavano altre e fondamentali, perciò chiesi aiuto a Fagioli, alla sua esperienza e alla sua immaginazione. E Maruschka era d’accordo perché anche lei sentiva questa insufficienza e, come per me, le era insopportabile subirla. E così, come ho sempre detto, si lavorò in tre e ne è uscito un film originale di cui rivendico di essere l’autore, ma non il solo autore, e anche quel coraggio di aver sfidato il conformismo, l’assurda regola che un autore quasi per una sua dignità professionale non possa essere «illuminato» da nessuno che non faccia parte della famiglia dei cineasti.

Leo Pescarolo, il produttore del film, la denunciò. Provarono a interdirla, a sottrarle la pellicola. La polemica sovrastò l’opera, che pure partecipò alla trentanovesima edizione del Festival di Cannes, nell’ipercineflla Quinzaine des réalisateurs.

Pescarolo cercò di trascinarmi in giudizio, mentre il coro polifonico della cultura dominante, sui media cercò inutilmente di massacrarmi. Contumelie, pettegolezzi, insulti, cattiverie. «Bellocchio è stato plagiato», «Bellocchio si è rimbambito». Il diavolo in corpo si concluse magnificamente, girò il mondo ottenendo dappertutto un grande successo. È un film che ha saputo resistere al tempo e alle calunnie che ci furono solo in Italia. Nel mondo fu giudicato e apprezzato per quello che era.

Del fenomeno quasi esclusivamente romano di Fagioli e della sua teoria, in molti hanno delineato un giudizio feroce. Per lo psichiatra, l’aggettivo più benevolo è «settario». Poi giù, da «megalomane» a «cialtrone» lungo una scala dispregiativa che non di rado accarezza l’insulto. In questi anni, utilizzando anche la piattaforma web, i detrattori non gli hanno risparmiato nulla.

Non mi stupisce. Le teorie fagioliane, che molti detrattori credo non abbiano mai letto, si contrappongono radicalmente a tutta una cultura genericamente freudiana ancora largamente dominante. Attaccano per difendere un loro potere. Potrebbe essere uno scontro mortale, per loro.

Segue ancora le sue sedute?

E un anno che non vado, e non sono andato per alcuni anni in passato, come spesso sono mancato per ragioni di lavoro. Potrei ritornare o non tornare più. E un fatto mio, privato. Ma non rinnego nulla. Quello che sono oggi è anche grazie a quella ricerca, a quella formazione, a quella cura.

Con Vincere ha raccontato la storia quasi sconosciuta del rapporto tra Benito Mussolini e la sua prima moglie, Ida Dalser. In Italia l’hanno ricoperta di riconoscimenti, dal David di Donatello al Nastro d’argento, è stato distribuito in tutto il mondo. Oggi Bellocchio come si trova con Bellocchio?

La paura di smarrire fantasia e ispirazione è passata. Vivo e lavoro da tanti anni cercando di difendere la mia libertà. Nessun incontro l’ha limitata se non per mia scelta. Faccio un mestiere complicato, fatto di limiti e condizionamenti, ricerca e aggiornamento. Essere registi è una serie infinita di passaggi, anche kafkiani, per arrivare (a differenza di Kafka) a una meta. Oggi, se sento obblighi o condizionamenti, scappo. Magari con i miei tempi, ma scappo. Poi come è capitato a tutti, a volte ho sbagliato anch’io. Mi sono ingannato, accadrà ancora. Però lasciatemi sbagliare, l’importante è continuare a divertirsi. «Ti diverti, ti piace e in più ti pagano», diceva Mastroianni. Effettivamente sono fortunato.

MicroMega 6/2010 pp.115-128

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