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LA MORTE DI EMILIO LUSSU NELLE PAGINE DELL’UNIONE SARDA

Raccolta di articoli apparsi sul quotidiano L'Unione Sarda il giorno dopo la morte di Emilio Lussu

SI È SPENTO A ROMA IL PRESTIGIOSO UOMO POLITICO

Cordoglio in tutta Italia e commozione in Sardegna per la scomparsa di Lussu

Ha scelto, per l’ultimo atto, il silenzio e la discrezione di un umile gregario, lui che era stato protagonista sempre fedele a uno stile antiretorico, al rifiuto di ogni atto che non fosse essen­ziale. Emilio Lussu ha voluto uscire di scena come è vissuto negli ultimi anni, quando aveva deciso per un distacco defi­nitivo dalla politica e dalla vita pubblica. Si è spento a 85 anni, alle 14 di mercoledì nella sua casa romana di piazza Adriana ma solo ieri si è saputo della sua morte. Ha voluto così lui stesso, chiedendo anche d’essere cremato alla sola presenza della moglie Joyce e del figlio Giovanni, che lo avevano assistito fino all’ulti­mo. La mesta cerimonia è avvenuta ieri pomeriggio all’Istituto di medicina legale di Roma. Le ceneri del prestigioso uomo poli­tico e scrittore, eroe della prima guerra mondiale e combat­tente della libertà sotto il fascismo, rimarranno nella capitale. Anche questa è una sua volontà.
La sua scomparsa ha suscitato un vasto moto di cordoglio non solo in tutta la Sardegna ma in tutto il mondo politico italiano, del quale Emilio Lussu è stato un esponente di grande prestigio per quasi mezzo secolo: aveva iniziato la sua atti­vità di parlamentare nel 1921 e la concluse nel 1968.
In questi ultimi anni, nonostante soffrisse per una malattia ai polmoni, debilitati per la permanenza in carcere sotto il fascismo, intensificò la sua attività di studioso: documentò in particolare gli aspetti tragici dell’esperienza fascista in Italia e del nazismo in Europa. Riceveva spesso giovani, studiosi che volevano discutere sulla storia italiana e di quella sarda in particolare. La morte lo ha sorpreso mentre stava lavorando a un volume sul «Crollo della classe dirigente fascista e della monar­chia italiana». Nei giorni scorsi si mostrò amareggiato appren­dendo le recenti azioni delle squadracce neofasciste a Roma. Alla moglie Joyce, poco prima di morire, disse: «È triste rive­dere, dopo trent’anni di egemonia democristiana, i picchiatori fascisti nuovamente in strada».
Emilio Lussu nacque ad Armungia il 4 dicembre del 1890 da una famiglia di contadini. Laureatosi a Cagliari in leggi partecipò alla prima guerra mondiale nella «Brigata Sassari» di­stinguendosi per il valore e l’ardimento. In trincea nacquero le prime idee autonomistiche, sulla scia dei pensatori meridionalisti. Nel 1919 fu uno degli animatori del congresso dei com­battenti di Macomer, scrisse sul giornale sardista «Il Solco». Un anno dopo nacque ufficialmente il Partito Sardo d’Azione che Lussu definì «un movimento di contadini, pastori, intellettuali, operai formati dalla guerra ma ben ancorati sul terreno di classe; senza però una coscienza precisa della lotta di classe e senza una matura dottrina politica». Eletto deputato nel 1921 assieme ad altri cinque sardisti, rieletto nel 1924 Lussu si schierò contro il regime inneggiando alle idee socialiste. Convinto asser­tore della autonomia individuale, fu un accanito oppositore del fascismo. Gli squadristi perciò gli resero la vita impossibile. Nella sua casa di piazza Martiri a Cagliari il 31 ottobre del 1926 fu aggredito. Lussu si difese e sparò uccidendo uno degli aggres­sori, Battista Porrà. Processato nel 1926 fu assolto per legittima difesa. Ma una speciale commissione fascista, nella quale face­vano spicco notabili cagliaritani dell’epoca, lo condannò a cinque anni di deportazione. Fu inviato a Lipari perché «avversario incorreggibile del regime». Qui rimase per venti mesi. Riuscì ad evadere assieme a Carlo Rosselli e Fausto Nitti. Sbarcarono in Francia e si unirono agli altri antifascisti fra i quali Gaetano Salvemini. Qui venne fondato il movimento «Giustizia e libertà» da dove poi nacquero le formazioni della Resistenza. Disse Emilio Lussu: «Il nostro movimento è nato a sinistra ed è rimasto a sinistra. C’è un filo rosso che va da quel movimento, alla Resistenza, al Partito d’Azione».
Rientrato in Italia dopo l’8 settembre 1943 Lussu divenne qualche anno dopo leader della sinistra del P.S.d’A. Abbandonato il Partito Sardo d’Azione che non riteneva in grado di portare avanti, da solo, i problemi più gravi della Sardegna, aderì al P.S.I. Fu ministro per l’assistenza postbellica nel governo Farri, nel pri­mo gabinetto De Gasperi fu ministro senza portafogli per i rap­porti con la consulta nazionale. Rieletto deputato nel 1946 fece parte della «commissione dei 75» che formulò lo statuto della Repubblica. La sua carriera politica fu sempre più bril­lante. Proclamato senatore di diritto nella prima legislatura repubblicana, fu eletto senatore anche nella seconda, terza e quarta legislatura; Nel 1964, dopo la scissione all’interno del P.S.I., aderì al P.S.I.U.P. del quale fu uno dei maggiori esponenti. Restò nel partito fino al 1968 quando si ritirò dalla vita poli­tica per dedicarsi all’attività letteraria. Ogni tanto, quando le condizioni di salute glielo permettevano, rientrava al suo paese natale in Sardegna.
La scomparsa di Emilio Lussu ha destato una profonda eco di cordoglio in tutto il Paese. Il presidente della Repubblica Leone ha inviato un telegramma alla famiglia esaltando la «splen­dida figura di un combattente per la libertà».
Il presidente della Camera Sandro Pertini ha detto: «Con Lussu scompare un uomo retto sempre coerente con la sua fede politica, un fiero e tenace combattente per la libertà». Espressioni di stima e di cordoglio hanno espresso anche il segretario del P.S.I. De Martino, l’ex presidente della Repubblica Saragat e l’on. Riccardo Lombardi.
La figura del prestigioso uomo politico sardo è stata commemorata anche al Consiglio regionale. Ieri mattina, appena appresa la notizia, la seduta era stata sospesa in segno di lutto. In pomeriggio hanno parlato l’on. Giovanni Battista Melis (sar­dista) e i presidenti del Consiglio Contu e della giunta Del Rio.
L’on. Melis, parlando per primo, ha detto che Emilio Lussu domina la scena politica isolana, italiana ed internazionale come rappresentante della Sardegna. «Trascinatore di combattenti, grande soldato, superdecorato, ha rievocato le epiche gesta della nostra gente in libri entrati nelle antologie letterarie ed ha esal­tato il significato della lotta per l’autonomia. Mentre nel cuore e nella mente si addensano i ricordi della sua figura e della comune matrice autonomistica, noi — ha detto Melis — lo esaltiamo in questa assemblea, sentendoci tutti figli suoi, per­ché ha combattuto e sofferto per quelle idee di cui ci dobbiamo sentire portatori. Con lui abbiamo difeso l’Isola dagli assalti dei nemici della libertà e poi Lo abbiamo visto combattente in Spagna, esule a Parigi dove ricordava la Mamma con affetto in­finito ed il Partito Sardo d’Azione che rappresentò in tante legi­slature da deputato e da senatore.
Nel novembre del 1974 mi ha scritto un’indimenticabile lettera con la quale mi salutava con l’affetto di una volta e mi ricordava con commozione le lotte comuni, in onestà e senza macchia e senza paura, con una coscienza che ha dominato tutta la sua vita, fino al travaglio della morte».
Il Presidente del Consiglio Contu ha poi detto: «Consentite anche a me un ricordo personale di ciò che rappresentò per me e per i giovani sardi di allora il ritorno in Sardegna di Emilio Lussu di cui circolava una vecchia fotografia con le parole «Non per la conquista di un palmo di territorio abbiamo gettato al vento la nostra giovinezza, ma per un inesausto amore di libertà e di giustizia». Quando Lussu arrivò le strade erano coperte di fiori e la gente sentiva il bisogno fisico di toccare con mano il mito personalizzato.
Oggi, dopo tante vicende e tanti contrasti, qualunque sia il giudizio che si può dare sulle sue prese di posizione, sui suoi atteggiamenti di intransigenza e di dura polemica e sulle sue scelte, si deve ammirare la virtù etico-politica di non aver mai piegato la schiena di fronte a nessuno.
Il presidente della Giunta on. Del Rio ha dichiarato che Emilio Lussu era una delle figure politiche più rappresentative e significative dell’Italia contemporanea. «Mi piace collocarlo fra i grandi uomini politici democratici di questo secolo assieme cioè agli illustri del secondo Risorgimento italiano, a coloro che, con l’azione e con l’esempio hanno caratterizzato le vicende della storia italiana difficile e tormentata». Ieri sera Emilio Lussu è stato commemorato anche al Rotary Club dal presidente Nino Fara Puggioni che ne ha ricordato la figura di combattente, di politico e di letterato.

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LEZIONE DI LIBERTÀ

La leggenda di Lussu

La battaglia di Lussu per la Sardegna

di Manlio Brigaglia

L’immagine di Emilio Lussu che resta ai sardi della mia generazione è quella della cartolina che gli amici di Sardegna fecero stampare nel 1944 per celebrare il suo ritorno nell’isola. Era una xilografia di Stanis Dessi col profilo risentito e severo di Lussu, gli occhiali a pince-nez che aveva portato anche in trincea, un accenno di pizzo nerissimo; e sotto, la frase del di­scorso alla Camera del 24 maggio 1922: «Non per un palmo di più lontana frontiera abbiamo gettato al vento la nostra giovi­nezza, ma per un più alto ideale di libertà e di giustizia».
Lussu tornava dopo diciott’anni di esilio. Dalla selvaggia sera cagliaritana del 31 ottobre del 1926, la sera dell’assalto alla sua casa e la sua disperata difesa, c’erano stati di mezzo il car­cere, il processo, il confino a Lipari: e poi la fuga straordinaria con Carlo Rosselli e Fausto Nitti, alla fine di luglio del 1929, l’arrivo in Francia, la fondazione di «Giustizia e Libertà», e ancora gli anni passati fra Parigi e i sanatori dell’Alta Savoia dove si era dovuto ricoverare per curare la tubercolosi contratta in carcere (e curata con i diritti d’autore dei suoi primi straor­dinari libri) ; e poi i problemi della organizzazione in Italia, dove la polizia politica fascista non dava requie («mi sorge il dubbio che quella del poliziotto sia una delle poche attività che noi italiani esercitiamo in modo insuperabile », doveva scri­vere più tardi), della redazione di «Giustizia e Libertà» sulle cui pubblicazioni sosteneva, con lo pseudonimo di « Tirreno », la sua interpretazione socialista del movimento. E poi la guerra, con la fuga da Parigi, la sosta sulle montagne vicino a Tolosa («All’alba — ha ricordato la signora Joyce — Lussu scendeva nell’orto per zappare, innaffiare, strappare erbacce, piantare i semi di ravanelli e di lattuga, preparare i sostegni per i piselli e i pomodori»), i viaggi a Lisbona, Londra, New York, sino a quel benedetto giorno dell’agosto 1943 in cui era potuto scendere dal treno a Ventimiglia: «Tutti parlavano italiano! Mi sembrava una meraviglia, un sogno! Ne ebbi tanta emozione che stentai a tenermi in piedi, e dovetti appoggiarmi ad una colonna per non cadere».
Ma non era finita: c’era ancora la lunga notte del ’43, la Resistenza romana, l’organizzazione clandestina del Partito d’Azione che continuava G. L. Finalmente l’Unione Sarda del 2 luglio poteva pubblicare il suo «saluto ai sardi».
Lussu sbarcava in una Sardegna diversa da quella che aveva lasciato: con Cagliari semidistrutta, l’economia strangolata dall’isolamento e dalla inflazione, i partiti che, rinati all’indomani del 25 luglio, già conoscevano le prime crisi. Parlò a Cagliari, Iglesias, Oristano, Sassari e Nuoro: sbigottì i suoi vecchi com­pagni parlando, come ha scritto, di una trasformazione dell’eco­nomia su basi socialiste, di una radicale riforma agraria, del federalismo, dell’autonomia, della Repubblica. Trovò i vecchi dirigenti del suo partito imborghesiti e più invecchiati di quanto dicesse l’età: non risparmiò qualche battuta sferzante, né si cu­rava neppure di nasconderla.
Il dissenso, che lo avrebbe portato nel luglio del ’48 a fondare il Partito Sardo d’Azione Socialista (uscendo dal P.S.d’A. «con in pugno la bandiera della sezione di Monserrato», come aveva detto nel congresso che aveva registrato la scissione), era già cominciato.
La distanza stava tutta nell’ulteriore elaborazione delle tesi sardiste che Lussu aveva compiuto per suo conto nell’esilio, soprattutto nelle pagine di «Giustizia e Libertà»: quelle idee che poi aveva condensato nell’opuscoletto su «La ricostruzione del­lo Stato» in cui riforma dello Stato in senso federalistico e rivoluzione sociale facevano un tutt’uno.
Eppure, nonostante il respiro internazionale che il suo pensiero aveva preso a contatto con le esperienze fondamentali del­l’esilio, la Sardegna gli era rimasta nel cuore come una immagine materna. Quando nel 1930 era caduto il centro romano di G.L. di cui era capo Francesco Fancello, in Sardegna erano stati arrestati come aderenti al movimento, due repubblicani e cin­que sardisti: Cesare Pintus, che sarebbe stato sindaco di Cagliari dopo la caduta del fascismo, fu condannato a sette anni di car­cere dal Tribunale speciale; in Francia Lussu era sempre in contatto con i gruppi dell’emigrazione sarda, a Parigi, a St. Fons sopra Lione, nelle miniere della Mosella e del sud, a Marsiglia: nel novembre del 1931, parlando a Parigi in una riunione di sardisti sulla «Rivoluzione antifascista», aveva chiuso con i sonanti versi logudoresi dell’inno de «Su Patriotu Sardu a sos Feudatarios»; uno dei suoi fedelissimi era quel Giuseppe Zuddas che, volontario nella colonna Rosselli, sarebbe caduto fra i primi in Spagna all’assalto di Monte Pelato; dalla Sardegna sarebbe ve­nuto a raggiungerlo a Parigi, con un espatrio clandestino, il nuorese Dino Giacobbe, che avrebbe poi comandato l’artiglieria della Brigata Garibaldi nella guerra spagnola. I documenti di archivio di quegli anni mostrano una polizia sempre atterrita dal­l’idea che Lussu potesse sbarcare in Sardegna da un giorno all’al­tro: nel 1932 si temeva che potesse tentare degli attentati a una base di idrovolanti dell’isola; dopo la guerra di Spagna, il pre­fetto di Nuoro veniva avvisato di intensificare la sorveglianza per prevenire una sua riapparizione.
In realtà, dal giugno 1940 al settembre 1943, Lussu non abbandonò per un attimo l’idea di colpire il fascismo attraverso la Sardegna: «Ero certo — ha scritto — che una organizzazione partigiana in Sardegna avrebbe trovato rispondenza popolare e creato la possibilità di una vasta azione — insurrezione contro il fascismo e contro i tedeschi». Ne aveva parlato agli amici di New York, si era provato a proporre l’impresa agli inglesi.
Nella primavera del ’43 la voce di Lussu si era sparsa anche fra i sardi. Un gruppo di ufficiali antifascisti s’erano visti presen­tare un giorno, a Sassari, una camicia insanguinata: «È la cami­cia del capitano Lussu, ucciso in Tunisia», gli era stato detto. S’erano rifiutati di credere: per loro Lussu era come un’idea, non poteva morire. Perfino nei giorni incandescenti e disanimati dell’armistizio Lussu aveva pensato alla Sardegna: l’aereo che era riuscito a procurarsi, un vecchio M.S. 81, era atterrato a Foligno il 6 settembre e sarebbe dovuto ripartire l’otto: poi gli avvenimenti presero il sopravvento. Voleva tornare in Sarde­gna per guidare contro i tedeschi gli stessi sardi che aveva co­mandato sul Carso, quand’era uno degli ufficiali più temuti e più idolatrati della Brigata: uno che «giuchiat pilu in su coro» non meno della gente di Barbagia che portava all’assalto: «il primo giorno della guerra lo ha trovato alle frontiere, l’ultimo in prima linea dopo sessanta fatti d’arme sanguinosi, più vecchio di spirito ma con la stessa virile risolutezza del primo giorno», avrebbe scritto la Voce dei Combattenti. Era il giornale dei sardi reduci dalle trincee: quei sardi che negli anni fra il 1920 e il 1924 avrebbero dato vita al Partito Sardo d’Azione e alla prima grande azione di massa per la rivendicazione dell’autono­mia isolana: «un movimento religioso universale», come lo ha chiamato Lussu.
Quella stessa battaglia Lussu avrebbe ripreso dopo il 1944 accelerando con le sue iniziative, con i suoi interventi, con le sue polemiche prese di posizione la conquista dello Statuto Spe­ciale: «noi sentiamo che la Sardegna, con questa sua esperienza autonoma — avrebbe detto alla Costituente nel luglio del 1947 — si avvicina alla vita dello Stato e vi partecipa per la prima volta, poiché per la prima volta ha coscienza che questo nostro Stato è anche finalmente il suo Stato». A questa insegna sono state combattute anche le sue ultime battaglie politiche: ma tutta la sua vita resta una lunga inesausta lezione di amore alla libertà e alla Sardegna.

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LA LEZIONE DI LUSSU LETTERATO

Scrittore in trincea

di Antonio Romagnino

Pochi dei suoi compagni d’arme, contadini, pastori, piccoli borghesi di città, hanno mai saputo che il Capitano Lussu era anche uno scrittore, un grande scrittore.
Neppure quelli che, varcati i settant’anni, sono diventati per generosità della Repubblica Italiana Cavalieri di Vittorio Veneto.
Non lo sapeva, e non ha vissuto tanto per saperlo, mio padre, che lettighiere a Gorizia, nel 1916, vi perse il mulo, nella notte di tempesta, che precedette la presa della città contesa.
Per tutti o quasi, che lo seguirono durante e dopo la guerra, Lussu rientrò nel modello privilegiato dalla borghesia sarda: quello dell’avvocato e quindi dell’uomo politico che sapeva parlare. Contò meno presso i suoi seguaci che sapesse scrivere, e che anzi proprio nella scrittura bruciasse la più vera mistura della sua sardità: il dolore e il riso.
D’altronde questa sua dimensione cominciò a definirsi in Italia solo nel dopoguerra, quando le sue opere apparse durante l’esilio parigino furono pubblicate anche dai nostri editori (Einau­di e Mondadori), con un ritardo di dieci-vent’anni.
E anche per questo dette e non scritte erano le parole che si leggevano sotto il suo ritratto, che negli anni bui fu posto, fra i santini, nel comò buono, in tante case di quei reduci. C’era una oscura eloquenza per tutti noi, figli dei combattenti che lo ave­vano idolatrato, in quelle parole che parlavano di una giovinezza buttata al vento per la libertà e la giustizia, e non per una zolla di terra, si fosse chiamata anche, santamente, Trento e Trieste.
Un’eloquenza che falsò a lungo l’immagine di lui, quasi accreditando la stortura che egli fosse stato la vittima dello scontro di due retoriche. Marcia su Roma e dintorni (Parigi 1933, Roma 1945) fu per questo lo scoppio di una rivelazione. Aveva compiuto esperienze uniche e poteva attingere a materiali di prima mano per scrivere un saggio storico, dottamente documen­tato. Aveva affinato una concezione della vita pubblica e co­nosciuto profondamente le grandi democrazie occidentali, per es­sere in condizioni di scrivere un trafiggente saggio politico e in­chiodare al nullismo il fascismo. Non fece né l’una né l’altra cosa. Ma fissò, più perenne che qualsiasi fredda analisi del crollo dello stato liberale, lo scempio delle coscienze, la grottesca farsa delle viltà piccole e grandi e della smobilitazione generale. Tin­gendo tutto nella imperturbabilità di un narratore di eccezionale taglio, a cui tutto riesce felicemente perché è fuori di discussione la superiorità morale del narratore sul mondo che ancora gli brucia dentro. Era sicuramente un libro che batteva il re­gime, mettendo a nudo, per contrasto, le sue note più bolse. Ma quell’asciuttezza era anche una insospettata lezione letteraria.
C’erano, però, sviluppi nella coscienza di Lussu, anche più remoti, che aspettavano di essere sciolti nella confessione libe­ratrice, Un anno sull’Altipiano (Parigi 1938, Roma 1945), il libro sulla guerra che non era stato ancora scritto, li scioglie in ter­mini che trascendono la propria esperienza e si fanno ascolto della vicenda corale. Chi era stato educato, e anche Lussu lo era stato nell’Italia dannunziana, ai miti della bella morte, dell’ebbrezza dell’assalto, della bontà paterna dei superiori, per­corre tutta intera e spietatamente la via della demistificazione. E vi scrive già il disdegnoso gusto della sua partenza di ieri.
Ma la denuncia promuove anche questa volta una lezione. Del suo interventismo mai rinnegato è cercato ancora un significato più profondo nelle sciagure della storia. Lo trova nel rinnovamento morale che quella tremenda esperienza collettiva rappresentò per tanti oscuri uomini. È per questo che in quel libro c’è già la sua parola di senatore della Repubblica: «Per noi la Sardegna era già risorta perché la nostra coscienza si era trasformata e per la prima volta nella storia dell’isola al ripie­gamento scorato e distruttivo, individualistico su se stessi e al­l’isolamento subentrava la volontà collettiva nell’azione comune di tutto un popolo».
Semmai, da quello e da tutti i suoi libri, si leva ancora alto il rimprovero della dissipazione che, negli anni che sono seguiti, si è fatta di tante coscienze rinnovate dalla grande bufera. Anche di quelle degli uomini umili lettighieri della tormentata notte goriziana del 9 agosto del 1916.

I SUOI LIBRI

Gli scritti di Emilio Lussu sono stati concepiti quasi tutti nell’esilio e pubblicati la prima volta a Parigi, nel decennio immediatamente precedente la seconda guerra mondiale: La Catena (1929), Marcia su Roma e dintorni (1932), Teoria dell’insurre­zione (1936), Un anno sull’Altipiano (1938). Invece sono stati scritti e stampati in Italia, dopo il rientro di Lussu dall’esilio: Diplomazia clandestina (1956), Il Partito d’Azione e gli altri (1968), Il cinghiale del diavolo (1969), I sindacati in Dieci anni dopo (1956).
Alcuni di questi scritti sono oggi introvabili ed è quindi opportuna la pubblicazione che l’Editrice La Torre (Cagliari) si appresta a compiere di La Catena, Diplomazia clandestina e La ricostruzione dello Stato, che appariranno col titolo complessivo di Per l’Italia, dall’esilio nella collana Documenti e memorie del­l’antifascismo in Sardegna, dove sono preannunciati anche scritti rari di Antonio Gramsci e di Velio Spano.
Anche numerosi sono gli articoli pubblicati da Emilio Lussu nei Quaderni di «Giustizia e Libertà», e in tempi più recenti nelle riviste «Il Ponte» e «Belfagor»: meriterebbero anche questi di essere raccolti.

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COSÌ IL PAESE NATALE HA ACCOLTO LA NOTIZIA

Armungia ricorda

di Giacomo Mameli

ARMUNGIA, 6 marzo — Ad Armungia c’è tanta gente che ricorda e qualcuno che piange. Nella casa dove Emilio Lussu nacque 85 anni fa c’è soltanto una donna, Giovanna Serri, 48 anni, nipote del senatore. Stamattina è uscita presto per andare a rac­cogliere fiori di campo: li ha messi sul tavolo di cucina, in due vasetti di terracotta vicino a una stearica accesa e alla foto dello zio. Dice, come per scusarsi: «Lui voleva cose semplici. Era buono, umile». Fra le mani ha una lettera spedita quattro gior­ni fa da Roma. La legge commossa: «Cara Giovanna, rispondo con ritardo perché la mia salute è veramente malandata. Mi scuso». Più avanti un consiglio per l’affitto di un terreno: «Tu conosci i casi particolari meglio di noi. Devi discutere con tutti, senza imposizione di autorità».

LA CAMERA DELLE SELLE

La casa di Emilio Lussu è nel fosso, sotto il nuraghe. Il rione rassomiglia più a un villaggio nuragico che a un paese del Duemila. Si chiama «Cannedu». Si lascia la piazzetta della parrocchia di Santa Maria, si percorrono alcuni tratturi e poi c’è un portone in legno dipinto di un rosso amaranto. Una casa di povera gente come l’aveva costruita quasi due secoli orsono il padre Giovanni, contadino, analfabeta, per qualche anno sin­daco. Un grande cortile col terreno ricoperto di ghiaia, oleandri, rose, buganvillee, una pianta d’arancio. Su un lato la casa.
«Era nato qui», indica la nipote. C’è una scaletta esterna.
Si salgono dieci gradini. Poi subito una stanza, il pavimento in legno, il soffitto di canne. «È la camera delle selle», dice la donna. E si notano tre selle di cavallo: due da uomo, una da donna. Appesi ai chiodi, nelle pareti, le briglie, i freni, c’è anche il frustino descritto nel libro «Un anno sull’Altipiano». Su una cassapanca un barilotto e un paio di binoccoli: «Li portava con sé in campagna. Gli piaceva tornare nelle zone dove andava a caccia grossa».
In un’altra stanza lo studio: un divano barocco ricoperto di cretonne a fiori; due quadri: uno con un cavallo dipinto dalla moglie, l’altro con un paesaggio di Armungia firmato da Rita Thermes. Una scrivania in legno: fiori secchi su un vaso. Su un ripiano diversi libri: Il salto delle pecore matte di Francesco Brundu, Storia civile dei popoli sardi di G. Siotto Pintor, un volume intitolato Principali testimonianze scritte sulle origini dei fatti e sul contegno della truppa, un testo di Carta Raspi, Mariano IV d’Arborea. In questa stanza Lussu scriveva dalle cin­que alle nove di sera. Poi la camera da letto: semplice, umile.
Sul davanzale della finestra spazzolini e bicchieri, il rasoio; in mezzo alla stanza un portacatino col lavamano e il boccale. «Non ha mai voluto ammodernare la casa — ricorda la nipote —: di­ceva che se lì aveva vissuto il padre ci poteva vivere anche lui e i suoi nipoti».
In questa casa Emilio Lussu venne per l’ultima volta nel novembre del 1973. Ci rimase cinque giorni, insieme alla moglie e al figlio Giovanni. La mattina usciva per la strada, si intratteneva a parlare con tutti, chiedeva ai bambini di chi fossero figli. Verso le undici andava nell’orto dove si fermava a leggere i gior­nali all’ombra di alcune piante di rovere. Qui incontrava i com­pagni di scuola, i «combattenti» della Brigata Sassari.
Dice Giuseppe Concas, 86 anni: «Emilio aveva fatto in paese la terza elementare, per la quinta e le scuole medie era stato a Lanusei, dai salesiani. Con lui c’era il fratello Peppino. Parlavamo spesso di politica. Nel 1915, quando rientrava da Cagliari dove era andato all’Università, diceva che bisognava impegnarsi per il fronte. Da Armungia a Senorbì andò a cavallo, da Senorbì a Cagliari in postale. In ottobre ci incontrammo a Campo Lungo, a Villa Lucentina. Eravamo tutti della Brigata Sassari: lui del 151.mo, io del 152.mo. Lo ricordo il tenente Lussu: era un tra­scinatore, un animatore».
Altri ad Armungia ricordano Emilio Lussu avvocato. Nel 1924, in febbraio, difese Sebastiano Pilia Piga accusato dell’assassinio del fratello Priamo. Ma tutto il paese ha in mente l’atti­vità politica di «Emilio». Già in trincea, sul Carso, all’Altipiano di Asiago, si parlava del movimento combattentistico. Poi, rien­trato in Sardegna, fu in prima linea contro il fascismo. Gli squa­dristi di Mussolini piombarono ad Armungia.
Caduto il fascismo Emilio Lussu tornò ad Armungia. Fu una festa popolare: «Lo avevamo portato in trionfo», ricorda un altro vecchietto, Salvatore Maxia, 88 anni. «Aveva fatto un comizio dal balcone del Comune. Qualcuno lo interruppe dicen­do: «Vogliamo vendetta!». Lussu rispose: «In famiglia non si fa la guerra, ora dobbiamo pensare al futuro. C’è da far rinascere la Sardegna! Forza Paris!».

ERA UNO COME NOI

Armungia divenne così una roccaforte sardista prima, socialista quando Lussu lasciò il Partito sardo d’Azione. È rimasto un paese povero, abbandonato, serbatoio di emigrati e di disoccupati. Emilio Lussu si lamentava di ciò. Ma i suoi pae­sani lo scusavano: «Ci hai insegnato ad essere antifascisti e ciò è moltissimo per noi: tu potevi fare ben poco». Perciò oggi al­cuni preferiscono ripercorrere le tappe di una vita politica lim­pida, altri hanno in mano i romanzi di Lussu. I più vecchi, i com­pagni d’arme, gli ex combattenti, invece si sono radunati davanti alla piazzetta del Comune a ricordare, a commentare, a chiedersi se per caso i funerali si fossero svolti ad Armungia. Quando han­no saputo che ciò non avverrà qualcuno si è commosso e ha ripreso in solitudine la strada di casa, commentando sottovoce: «Era umile, semplice, parlava il nostro linguaggio. Era uno come noi».

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«TORNERÒ IN SARDEGNA SE NE AVRÒ LA FORZA»

L’ultimo incontro

di Giorgio Melis

«Il mio sogno sarebbe di morire ad Armungia. Magari nel mio orto, sotto una grande quercia che mi ha sempre affascinato; credo abbia duemila anni e mi dà il senso del tempo vero, non quello a misura d’uomo. Tornerò in Sardegna, se ne avrò la forza». Questa forza Emilio Lussu non l’ha trovata da quando, quattro mesi fa, accettò dopo molte resistenze di ricevermi nella sua casa di piazza Adriana, a Roma, dove ha consumato la sua lucida agonia, nota solo a pochissimi. Aveva posto condizioni perentorie: «Non scriverai niente; nessuna intervista, o negherò di averti visto e di conoscerti». È famosa la sua ritrosia a parlare e a far scrivere di sé; ha respinto quasi con ostilità le molte proposte che scrittori e storici gli hanno fatto perché collaborasse alla stesura della sua biografia. Negli ultimi tempi, poi, era come ossessionato dal timore di non avere abbastanza tempo per completare l’opera in cui aveva condensato mezzo secolo di lotte politiche e che sarà probabilmente la moglie Joyce a far pubbli­care postuma. «Ho rifiutato un’intervista a «Le Monde» per­ché poi sarei incalzato da altre richieste», aveva detto al tele­fono fissando i quindici minuti che era disposto a concedermi. Questa del tempo era una regola cui non accettava deroghe.
Al prof. Lilliu, dopo una serie di articoli comparsi su questo giornale, aveva scritto invitandolo a Roma ma fissando anche a lui una precisa durata per il colloquio: venti minuti. Non era una mania, ma una drammatica esigenza.
Lo capii quando venni accompagnato nel grande studio dove le altissime pareti erano costole di libri; Lussu si alzò con fatica, lo ricordavo alto e mi sembrò altissimo. L’abito di fusta­gno sembrava vuoto, tanto era eccessivo per quel corpo consunto. La barba e i capelli composti e candidi, lo sguardo ancora in­quieto componevano una figura ieratica, emozionante. Era de­bolissimo ma niente in lui sembrava cadente; i gesti lenti e mi­surati erano ancora decisi, pieni di autorità. Poi cominciò a par­lare e a spiegare. «Non posso affaticarmi parlando a lungo; non interrompermi e ascolta». Bisognava tendere l’orecchio per non perdere quel filo di voce che usciva a fatica, eppure ininterrotto, sospinto dal fiato lento dell’unico polmone; l’altro glielo ave­vano asportato nel 1936 in un sanatorio svizzero dove si era fatto curare la malattia contratta a Buoncammino dopo l’arresto ordi­nato dai fascisti, trascurata nel confino a Lipari e dopo l’avven­turosa fuga con Carlo Rosselli e Fausto Nitti ed aggravatasi nel­l’esilio in Francia.
Con quel filo di voce cominciò a rinfacciarmi, cogliendomi alla sprovvista, l’inopportunità di certe interviste con ex consiglieri regionali non rieletti. Non sopportava — disse con quella sua durezza senza indulgenze — che si coinvolgesse un’istitu­zione democratica, sia pure in ribasso, in disavventure personali di scarsa importanza. Non accettava alcuna giustificazione: gli anni non avevano minimamente attenuato l’intransigenza che gli veniva dalla certezza di aver appreso tutte le risposte giuste da una vita trascorsa tra tutte le possibili esperienze.
La sua requisitoria e le mie deboli proteste s’erano comunque mangiato il quarto d’ora concesso e sul rispetto del quale vigilava Joyce, fumando e ascoltando. Forse placato dallo sfogo, Lussu cambiò tono all’improvviso. «Vai pure — disse alla mo­glie — non posso mandarlo via così senza neppure averlo ascol­tato». Rimasti soli, si avviò anche il colloquio. Ma Lussu non era disposto a lasciarsi andare, credo ne fosse incapace. Di sé parlava come riferendosi ad altra persona. «Sto male, peso 43 chili, e non credo di averne per molto». Era una constatazione as­solutamente tranquilla e serena; la morte che presentiva non gli creava alcun problema o angoscia. Era un incontro, l’ultimo, verso il quale marciava con la stessa cosciente, quasi indifferente determinazione di quando andava all’assalto con i fanti della «Sassari» sessant’anni fa.
La sua vita rimaneva regolata da abitudini rigide. Ogni giorno due ore di lettura dei giornali (attraverso quelli sardi manteneva un contatto sospettoso con la Sardegna) e quindi riprendeva a limare il suo imponente «testamento», le memorie cui aveva messo mano da tempo. «Ho finito ma ora devo ridurre il libro. Solo di note sono due volumi: debbo ridurre». Ormai da parecchi anni, Lussu era un pensionato della politica, pur rimanendo un attento osservatore. Si era messo a riposo con lo scioglimento del PSIUP. Ai compagni aveva detto: «Ognuno segue la sua strada. A 83 anni non posso nuovamente cambiare tessera e partito» e così era cominciato il suo silenzio, il di­stacco definitivo.
Di politica quasi rifiutò di parlare, tranne che per un ac­cenno a Nenni, che abitava e abita pochi piani sopra l’apparta­mento di Lussu (i vecchi due compagni-rivali non si vedevano e comunque evitavano di salutarsi). «Voleva andare al governo a tutti i costi; cercai di impedirlo… E perdio se i fatti mi hanno dato ragione», disse alzando la voce, animandosi al calore dell’antica polemica che portò alla scissione del P.S.I.
Non accettò altre «provocazioni». Consentì solo a parlare di libri e di scrittori, per formulare giudizi come sempre precisi, perentori. «Leggi Grazia Deledda: non i romanzi, che non valgono nulla, ma le novelle, dove è stata grande». Dei sardi moderni aveva attenzione soprattutto per Giuseppe Dessì, figlio del suo comandante di reggimento nella Brigata Sassari. «Non gli per­dono di rifarsi a Proust, a un manierismo che non gli giova: ma Paese d’ombre è un grande libro, i giovani dovrebbero leggerlo e rileggerlo». Comparve Nannetta, la sua governante, a ricor­dargli che il colloquio si era prolungato troppo. Lussu si alzò per mettermi, cordialmente deciso, alla porta. Volle accompagnarmi accettando di reggersi, altissimo e quasi senza peso, al mio braccio. «Tornerò in Sardegna, se ne avrò la forza», ripeté congedandomi. Ma sapeva già che non sarebbe tornato ad Armungia né avrebbe rivisto quella sua quercia che gli dava il senso di un tempo non provvisorio, come è stata e rimane la leggenda del capitano Lussu.

Fonte: L’UNIONE SARDA, 7 marzo 1975

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