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Il Crepuscolo del Neorealismo: “Umberto D.” di Vittorio De Sica

"Umberto D." di Vittorio De Sica chiude idealmente la stagione del neorealismo italiano, raccontando la disperata solitudine di un pensionato e del suo cane in un'Italia post-bellica sempre più indifferente.
Umberto D.

“Umberto D.” di Vittorio De Sica rappresenta il punto più alto e insieme l’addio al neorealismo italiano. La storia del pensionato Umberto Ferrari e del suo cane Flike è un’amara riflessione sull’isolamento sociale e la solitudine umana, in un’Italia del dopoguerra sempre più chiusa e indifferente. La città, opprimente e ostile, fa da sfondo a una vicenda di miseria e disperazione, dove il protagonista, abbandonato da tutti, cerca un disperato riscatto che mai arriva. La narrazione, frammentata e dettagliata, riflette l’inadeguatezza della borghesia italiana nel conciliare umanesimo e interessi personali.

* * *

di Franco Vigni

Sorta di Götterdämmerung della tetralogia neorealistica desichiana, Umberto D. segna anche, idealmente e simbolicamente, il «crepuscolo» e l’eclissamento di quella «etica dell’estetica» in cui si si è identificato il «movimento» del neorealismo, il canto del cigno di quella «posizione morale» che il cinema italiano dell’immediato dopoguerra aveva espresso, e ne viene in pari tempo a costituire uno dei risultati più alti e una delle opere più espressive. A ben vedere, i quattro film postbellici desichiani rappresentano non soltanto una fondamentale articolazione del neorealismo, ma consentono anche di verificare in concreto alcuni fondamentali caratteri strutturali: stratificazione di livelli e di significati, varietà degli elementi ispirativi e tematici, mancanza di estetica unitarietà, atteggiamento che investe più la sfera dell’etica, e dell’umanitarismo, che quella dell’ideologia.

Dopo il «moralismo fortemente sentimentale e caratterizzato dalla fiducia nei grandi valori incrinati dalla tragedia della guerra» di Sciuscià; dopo il «solidarismo di natura vagamente umanitaristica e comunque certamente lontano da ogni connotazione di classe» di Ladri di biciclette; dopo «l’accettazione della fantasia come momento della liberazione e della trasgressione verso l’esistente» di Miracolo a Milano, De Sica perviene, con Umberto D., a un «risentimento morale acre e pessimisticamente chiuso a qualsiasi consolazione storica o esistenziale» (1), dove, come in simbolico limbo grigio e immoto, sembra dissolversi la «grande speranza» che aveva contrassegnato le prime stagioni post-belliche — e, con essa, l’«unità etica» dei neorealisti — il cui processo di vanificazione era favorito dall’involuzione politica della società italiana e dalla restaurazione moderata del centrismo. È così che la «quarta giornata» della tetralogia desichiana/zavattiana (che in tale clima incontra l’offensiva «commerciale» del governo — con l’esiguo contributo ministeriale di 16 milioni di lire contro i 216 di Don Camillo — e quella politica — con la nota lettera aperta di Andreotti a De Sica — a cui si aggiungerà poi il «boicottaggio» del pubblico) segna uno dei vertici del fenomeno neorealista simboleggiandone, allo stesso tempo, l’estremo epicedio, rilevando una «fermezza pessimistica che è però già il segno di una sconfitta storica, il sintomo cioè dell’incapacità della borghesia di modificare se stessa quando debba scegliere tra il proprio «umanesimo» ed i propri «interessi» (2).

Pur mancando di un forte nucleo costitutivo originario di natura «ideologica», presentandosi anzi variamente articolata e diramata in più direzioni, la tetrologia di De Sica/Zavattini appare tuttavia percorsa da temi, motivi, situazioni, momenti privilegiati (la solitudine, l’impossibilità dell’individuo di comunicare con il proprio prossimo, la paura del vuoto sociale, il contrasto insanabile tra la condizione dell’individuo, bisognoso di solidarietà, e l’ordinamento sociale in cui prevale una generale indifferenza, sullo sfondo di un agglomerato umano e sociale di miseria e disperazione, chiuso e circoscritto, qual è quello in cui si svolgono le vicende di Pasquale e Giuseppe, Antonio e Bruno, Totò e Umberto D.), riconducibili alla pratica zavattiniana del «pedinamento» del personaggio, alla sua poetica di «coinquilino» o alla sua estetica del «buco della serratura», che in Umberto D. trovano la loro radicalizzazione e il più alto livello espressivo.

Il nucleo originario di Umberto D., la cellula germinale da cui prenderà sviluppo la storia del pensionato Ferrari, è individuabile, come non ha mancato di osservare Baldelli, in un soggetto che Zavattini deposita nel 1947, imperniato sul personaggio di un vecchio, la cui figlia, alla quale egli è legato da un profondo sentimento di amore paterno, è in procinto di sposarsi. Insieme ai due vive un cane. L’uomo con cui la figlia sta per unirsi in matrimonio si innamora, però, di un’altra; ciò induce il padre, ferito interiormente, a pensare di uccidere 1’«intrusa», affinché la figlia possa sposarsi. Mentre sta per compiere l’impresa, la ragazza trova il padre (c’è una lunga camminata per la città). Lei parte; il padre resta col cane. Da questa storia di partenza, opportunamente scissa [padre e figlia, «caso di amore paterno e di dolore sino al delitto» (3), da una parte; un vecchio con un cane, dall’altra] troverà elaborazione e trattazione il plot di Umberto , con il progressivo delineamento di certe situazioni, l’introduzione, accanto alla figura perno del vecchio con il cane, di altri personaggi (la padrona di casa, la domestica), l’abbozzo dell’orizzonte ambientale.

La tessitura della story, che nelle sue linee fondamentali appare già in gran parte ordita nel successivo soggetto che Zavattini elabora nel maggio 1949, conoscerà — nei tortuosi passaggi da quest’ultimo al trattamento, dal trattamento alla sceneggiatura (con alcune parentesi intermedie), dalla sceneggiatura al film — diverse e significative variazioni. Confrontando le varie versioni del soggetto (4), infatti, si può constatare come il motivo conduttore incentrato sull’angoscia e sulla solitudine del vecchio protagonista, e sulla progressiva chiusura che si determina tra il personaggio e il mondo esterno, sia stato sottoposto a un progressivo processo di decantazione, teso a far emergere la dimensione sociale e a precisare l’ambiente, e come esso sia andato gradualmente spogliandosi di fraseggi dispersivi, di spunti frammentari e motivi caricaturali, attraverso una serie di correzioni e tagli. Nel primo soggetto, nonostante la stringatezza, ci sono già gli elementi fondamentali della storia: la protesta dei pensionati contro la politica governativa, il vecchio Umberto in difficoltà per pagare la pigione e il vitto, il cane a cui egli «vuole bene come a un figlio», la padrona di casa che «vorrebbe cacciare via Umberto, cui rivolge la parola soltanto per offenderlo», la domestica «venuta dalla campagna, che si sta corrompendo», il ricovero di Umberto in ospedale, la minaccia incombente dello sfratto, il pudico accenno di accattonaggio, la disperazione e l’insorgere del pensiero del suicidio. Insieme ad essi, però, troviamo anche un ventaglio di forzature macchiettistiche e tipizzazioni caricaturali: il riferimento a una passata attività di Umberto che «insegnava per qualche ora alla settimana in una scuola di analfabeti», adesso chiusa in seguito a discussioni e liti politiche tra gli scolari «con barba e baffi»; il tentativo di ribellione dei malati in ospedale per il cibo insufficiente; la decisa reazione del vecchio che, diventando «forte come un leone», fa scappare un ragazzo, liberando il cane che questi aveva chiuso dentro un sacco; la sosta in trattoria — che nel film diventerà una mensa economica — e il successivo episodio nel quale Umberto viene equivocamente coinvolto in una scena che un gruppo di attori, in una strada, sta recitando agli ordini di un regista; i tentativi di suicidio dapprima al Pincio — prima dell’incontro con «una prostituta piuttosto malandata che gli sorride» e con la quale va poi in carrozzella — e, poi, con il gas, nella cucina della casa in cui egli abita; la visita al canile dove Umberto si reca per collocarvi il cane (e non, come sarà poi previsto nella sceneggiatura, per cercarvi il cane minacciato di morte).

Dal soggetto al trattamento l’opera viene lentamente affinandosi; scompaiono alcune situazioni secondarie, ma, al contempo, appaiono nuove scene gravitanti attorno al nucleo centrale in orbite più o meno periferiche, che segnalano quasi un curioso passo indietro (l’iniziale corteo dei pensionati, che rivendicano migliori trattamenti economici, si trasforma in una manifestazione di protesta dei padroni di cani contro una nuova tassa sugli animali; l’episodio della rivolta dei pazienti in ospedale si dilata, fino ad assumere spessore di vero e proprio «blocco narrativo»; Umberto — al quale viene attribuito qui il cognome Ceruti — acquista connotazioni bonariamente clownesche, che lo accomunano quasi al personaggio di Totò il buono di Miracolo a Milano, nella scena in cui egli, uscito dall’ospedale, si reca in un bar e, per sdrammatizzare la situazione venutasi a creare in seguito alla disattenzione del barista, «prende il selz e ridendo se ne schizza addosso un po’ per far vedere che uno schizzo di selz in fondo è soltanto uno schizzo di selz»). Nella sceneggiatura, l’epicentro narrativo si delinea in maniera più evidente: Zavattini taglia, oppure sposta radicalmente l’ordine delle scene; opera delle trasposizioni (anche se rimane ampiamente sviluppato l’episodio della rivolta ospedaliera); definisce le rifiniture di spessore psicologico (l’invenzione della mano allungata di Umberto, nel suo tentativo di accattonaggio, e subito girata «come chi vuol sentire se piove»); riduce il peso degli episodi corali, fornendo rilievo al tema della solitudine e al clima di angoscia in cui si sbriciola lentamente l’esistenza del vecchio protagonista; dà anima e vita interiore al personaggio della domestica Maria (Giovanna nel precedente trattamento), introducendo, tra le altre, la celeberrima scena del «risveglio».

La pur sommaria analisi delle varie fasi di elaborazione della storia, insomma, dall’iniziale intuizione narrativa alla stesura della sceneggiatura fino alla realizzazione del film (dove regista e sceneggiatore praticano un ’ altra serie di tagli e modifiche, anche a livello verbale), appare di non secondaria importanza: in quanto permette di osservare l’evoluzione della riflessione teorico-pratica zavattiniana, implicante l’esplorazione del reale quotidiano, lo sforzo di riduzione del frammentario, il tentativo di asciugare il caricaturale e l’eccezionale, la volontà non «di inventare una storia che somigli alla realtà ma di raccontare la realtà come fosse una storia» (5), la tensione di arrivare al «fatto analitico», di «rendere il racconto più elementare, il più semplice, il più banale possibile». E, appunto, questa tensione che, in Umberto D., raggiunge la sua massima intensità, generando una materia narrativa centrata sul personaggio, dove l’«intreccio» (la «sintetizzazione» della realtà) scompare, l’evento si rarefa a contatto con i parametri valorizzati ed esaltati della durata, dell’estensione e della pregnanza, nonché sul metro della significatività, appunto, del banale, ovvero della «vita nella sua maggiore quotidianità». Risulta altresì evidente ed ovvio come tale tensione sia il risultato, oltre che della poetica elaborata da Zavattini, del suo felice connubio artistico con De Sica, e del rigore linguistico e morale del regista: «La verità — ha avuto modo di affermare lo sceneggiatore — è che io invento storie commoventi ma poi ho un pudore che non mi consente di darci dentro, che arriva all’eccesso, e tutto mi si accartoccia. Così De Sica a poco a poco è diventato più guardingo, più asciutto». «La lavorazione di Umberto D. — ha rievocato una volta il regista — fu preceduta da mesi di turbamento e di ansietà. Miracolo a Milano era stato accolto dal pubblico italiano meglio che le opere precedenti (più tardi avrebbe avuto la consacrazione a Cannes), ma aveva rinfocolato gli attacchi a Zavattini e a me su una certa parte della stampa, la quale ci rivolgeva le vecchie accuse di sovversivismo, augurandosi al tempo stesso che qualche cosa, una sciagura o un provvedimento di polizia, troncasse la nostra funesta collaborazione. Ero dunque ben consapevole che lo stesso malvagio travisamento politico avrebbe colpito Umberto D.» (6). Con la padronanza di un linguaggio «asciutto», essenziale, che scava tagliando come un bisturi in quella sostanza ulcerata che è l’interiorità dei personaggi, e in particolar modo del protagonista, De Sica realizza visivamente lo studio del «particolare» perseguito da Zavattini e la sua tendenza all’osservazione analitica, in immagini di accorata atmosfera che scompongono i fatti in «unità di osservazione», in cellulari entità visive che si ricompongono poi secondo un procedimento di estensione e di sospensione temporale (un «cinema della durata», per riprendere la definizione data da Bazin dell’opera desichiana) (7).

In un universo chiuso e circoscritto si cala dunque la spoglia rappresentazione di una vicenda di profonda mestizia e di umana miseria e sofferenza. Se in Ladri di biciclette, pur su un simile drammatico e grigio sfondo di desolazione, baluginava tenue, al termine del film, il tiepido raggio della solidarietà (tra padre e figlio, che vediamo allontanarsi lungo la strada tenendosi per mano, solidali in una stessa pena) e dell’unità familiare, in Umberto D. tutto appare spento e algido, nello svolgimento di una vicenda dove la disperazione del protagonista si chiude inesorabilmente su se stessa, e dove neppure vi è il calore dell’unità familiare e degli affetti parentali ad aprire un qualche spiraglio. La solitudine gelida e senza via di uscita di Umberto lascia trapelare anche il motivo dell’inattuabilità del nucleo familiare, o della sua negazione o assenza. Anche la semplice illusione, o la complice finzione, dell’unione parentale è al protagonista preclusa: «No… no!», si affretta a rispondere Maria, la domestica, alla suora che ha chiesto ad Umberto, nell’episodio del ricovero in ospedale (seq. XI, inq. 308), se la ragazza sia sua figlia, dopo un autocompiaciuto «Eh…» del vecchio che vuol dire più sì che no.

Specularmente, anche per Maria il filo del legame familiare non può trovare possibilità di svolgimento: irrealizzabile si rivela l’unione con il presunto padre del figlio che ella porta in grembo, inattuabile il proponimento di un ritorno in famiglia, nel suo paese natale, nella casa della propria infanzia. E falso e ipocrita, a ben vedere, si profila anche il legame della padrona di casa con il proprietario del cinema, improntato a interessi e opportunismi refrattari ai più veri e autentici sentimenti («Ha detto che devi andare via — riferisce Maria a Umberto già minacciato di sfratto — seq. XI, inq. 319) perché la camera serve a lei. Si sposa per questo, ha detto».

Il senso di solitudine, che prende le mosse da uno stato di esclusione sociale per estendersi anche a quello esistenziale, si stringe implacabilmente attorno a Umberto come un nodo scorsoio.

Tutti i suoi itinerari si concludono nella sconfitta, intrecciati di «rinunce, di delusioni, di dolori, di piccole vecchie cose che tramontano senza possibilità di ritorno» (8), in incontri attraverso i quali prende forma l’ordito di sospetti, falsità, odi, rancori, finzioni, doppiezze, attriti, iniquità, sul quale è conformato il tessuto sociale. Con malcelata diffidenza, all’inizio del film, l’occasionale compagno di Umberto, al quale egli cerca di vendere il proprio orologio per far fronte ai debiti contratti, si allontana fingendo di essere arrivato a casa, entrando in un portone per poi uscirne subito dopo. Con non nascosto disinteresse, l’uomo che Umberto incontra alla fermata dell’autobus (seq. XIX) e finge di non capire l’implicita richiesta di aiuto che Umberto gli rivolge parlandogli della propria situazione, e si congeda da lui, gridandogli dall’autobus già in movimento di salutare un comune amico («È morto», gli risponde «con accento puramente informativo» Umberto).

Per non essere indotto ad ascoltare le vicende del vecchio pensionato, e con preciso intendimento di sottrarsi ad intuibili richieste di aiuto, il «commendatore» (al quale Umberto va incontro dopo il suo tentativo di chiedere l’elimosina) sale, in ostentata fretta, sulla corriera (seq. XX).

Le tre situazioni accennate si pongono, nella scansione narrativa, come momenti rilevatori della condizione di solitudine e di isolamento in cui il protagonista si trova vieppiù a sprofondare, senza alcuna possibilità di risalita. Nessuno presta attenzione al suo dramma, neppure coloro che pure appartengono, o sono appartenuti, al suo stesso ceto sociale: non i pensionati con i quali Umberto partecipa alla manifestazione pubblica, non gli anziani con cui si ritrova a mangiare alla mensa economica, non gli ex colleghi rappresentanti di quella piccola borghesia impiegatizia della quale Umberto, in fondo, fa (o ha fatto) parte.

La tragedia intima del protagonista viene continuamente evidenziata dalle sue peregrinazioni, in uno spazio urbano che sembra dilatare e amplificare il mortificante senso di segregazione interiore e il crescente distacco del personaggio dall’ambiente sociale.

La città, d’altronde, si profila come luogo principale e privilegiato del cinema desichiano, e in particolare modo della sua tetralogia neorealistica, giocando un ruolo preponderante nell’ambito di quella dimensione sdaziale assunta dal regista come precisa e peculiare categoria espressiva. È nello scenario urbano che si compiono i difficili tragitti e si svolgono le drammatiche vicende degli sciuscià, dei ladri di biciclette, dei barboni «miracolati», dei vecchi che «puzzano», costretti alla sopravvivenza con le diciottomila lire al mese di pensione. D’altronde, la città, o meglio la polarità città-campagna, appare parte integrante dell’intera esperienza neorealistica, la cui caratteristica è pur stata da Lizzani individuata nel «rispecchiamento di un mondo ancora legato all’ideologia della terra»: in tale struttura «in cui l’elemento fondamentale rimane la campagna», la città (scenario prevalente, anche se tutt’altro che unico, del neorealismo) assume valenza di «sradicamento, o congegno distruttivo, agglomerato confuso di essere umani allontani dalla natura« (9). Emblematico, sotto questo aspetto, risulta allora Umberto D., dove la città, entità umana e geografica sulla quale la barbarie bellica ha prodotto gli sconquassamenti più evidenti e atroci, fisici quanto psichici («Quando c’era la guerra mi chiamava “nonno”! Dopo la guerra, s’è impazzita…», si sfoga Umberto con il suo vicino di corsia ospedaliera — seq. XII, inq. 326 — riferendosi alla propria padrona di casa), si palesa quale spazio geometrico di solitudine, indifferenza e ostilità, annientatore dei valori più autentici, foriero di ingiustizia e sopraffazione, portatore di senso d’estraneità e di alienazione, luogo deputato di una classe borghese incapace di rinnovarsi, emblema di «una società stanca, che mostra la corda, e proprio per questo, più crudele e disperata, travagliata dalla ricerca di nuove forme di solidarietà e convivenza civile» (10).

Fin dall’inizio del film, lo sguardo della macchina da presa si immerge in quel tessuto reticolare urbano esplorato in tutti i suoi sviluppi direzionali, nella sua organizzazione orizzontale e verticale, nella sua struttura «aperta» eppure, al tempo stesso, «reclusiva» e «segregativa», limitativa comunque della libertà dell’individuo. Colto in campo lungo, il piccolo corteo di pensionati avanza frontalmente verso la macchina da presa, nell’inquadratura iniziale su cui scorrono i titoli di testa, tra l’indifferenza della gente, schiacciato dalla forte angolazione dall’alto, imprigionato dal laterale gioco prospettico delle facciate dei palazzi, scompaginato dal passaggio di un autobus che taglia in due tronconi quella sorta di formicaio umano. Un’analoga immagine è riproposta poco dopo (inq. 17), allorché l’obiettivo inquadra — ancora dall’alto, in campo lungo — il gruppo di pensionati raccoltosi in una soleggiata piazza e scompigliato dall’arrivo delle jeep della Celere: in preda al panico, i dimostranti si disperdono (inqq. 18-23), costretti a rifugiarsi nei portoni dei palazzi (inq. 25) o a imboccare stretti vicoli simili a meandri carcerari (inq. 24), in un progressivo allontanamento dalla piazza che della città è il polmone, venendo a sancire l’impossibilità di inclusione dell’individuo nell’organismo urbano, la sua nonappartenenza e il suo sradicamento dal territorio. La città dei protagonisti desichiani, lo spazio urbano dove si attuano le loro peregrinazioni, è una realtà più patita e subita che agita e partecipata (eloquente risulta, in tale senso, la sequenza di Ladri di biciclette dove al girovagare disperato di Antonio e Bruno fa da stridente contrasto l’atmosfera festosa dello stadio). L’errare per la strada, per questi personaggi, è un’angosciante e dolorosa esperienza sociale di privazione di luogo.

Soltanto in un’occasione, in Umberto D., sembra crearsi un legame di armonia e di integrazione tra il protagonista e la città, nella sequenza — la XIII — in cui Umberto esce dall’ospedale, inoltrandosi nel verde di un giardino pubblico; sensazione però subito vanificata e dissolta dal ritorno a casa — dove i muratori, alle dipendenze della padrona, stanno rinnovando i locali — e dal nuovo senso di estraneità ed esclusione che ne scaturisce, e al quale tutto finisce con l’essere ricondotto.

Le strade, gli edifici, le opere architettoniche monumentali e prestigiose (il Pantheon — seq. XX — la cui poderosa e «minacciosa» verticalità comprime e svilisce ancor più la figura di Umberto nel suo reticente, e subito desistito, tentativo di chiedere l’elemosina), le bancarelle (quella dei libri alla quale Umberto si reca per vendere a sottoprezzo il dizionario — seq. VII —; quelle del mercatino rionale presso cui egli andando alla ricerca del cane scomparso, incontra Maria, afflitta dopo essere stata abbandonata dal «fidanzato» — seq. XV —; quelle antistanti al canile municipale dove Umberto si ferma per cambiare la banconota da mille lire e pagare così il conducente del taxi, e dove è indotto all’acquisto di un inutile bicchiere che subito dopo getta via — seq. XVII, inqq. 408-416 —), il canile (metafora angosciante, e di straordinaria profondità psicologica, dell’aspetto «carcerario» e «reelusivo» della realtà urbana), i giardini (quello in cui si consuma l’ultimo atto del dramma di Umberto, ancora una volta «umiliato e offeso» dal sorriso sprezzante dell’istitutrice della bambina cui egli vorrebbe affidare il cane prima del suicidio), il cinema (quello sul quale dà la finestra della camera del vecchio, il cinema Iride, dalla cui cupola, simile a una gigantesca e mostruosa morsa dalle ganasce che si avvicinano fino a serrarsi — inq. 190 — provengono i suoni e le musiche della «Settimana Incom» nonché le voci del film (11)): in tutti i suoi elementi e in tutte le sue strutture, l’ambiente urbano — coinvolto in un doppio processo significante, definendosi infatti non solo come semplice sfondo scenografico ma anche come riflesso del mondo interiore dei personaggi — si configura sempre, in Umberto D., come spazio dell’estranierà, dell’alienazione, dell’inautenticità , dell’indifferenza, della sopraffazione, «termine di opposizione nei confronti dell’individuo».

Centrale, in Umberto D., ma più in generale nell’intera tetralogia dell’autore e in gran parte del suo cinema, appare, come ha osservato La Polla, l’opposizione «spazio aperto/spazio chiuso (o, se si vuole, “reclusione” / “libertà”). … Se la città, e ciò che le si oppone, è … lo sfondo generale del cinema di De Sica, l’ossessione della reclusione ne è un’immagine rappresentativa e significante» (12). L’antitesi, tuttavia, non si organizza in una direzione univoca, ma appare nel complesso «articolata secondo una piccola grammatica dei valori», in un processo segnato dal rovesciamento o dalla fluttuanza dei termini. Se, infatti, talvolta (come in , dove è contrapposto all’istituzionale chiusura del carcere), lo spazio aperto conquista valenze positive assurgendo a simbolo di libertà, naturalezza e umanità, talaltra (come in Ladri di biciclette e Umberto D., appunto), esso — già lo si è accennato — diviene territorio della sconfitta e dell’incomprensione. «A sua volta — rileva ancora La Polla — lo spazio chiuso si articola secondo un’opposizione chiara e sofferta: lo spazio-salvezza della casa, del riscatto, il rifugio della propria vita (la camera di Umberto, la casa di Il tetto e quella di certi personaggi di L’oro di Napoli, ecc.), e lo spazio chiuso inteso come la dimensione della segregazione, che non è solo la prigione di Sciuscià o il cellulare dello stesso film, di Miracolo a Milano, di Umberto D., ma anche la dimensione claustrofobica di certe strade, di certi portoni, delle istituzioni stesse delle città-società» (13). Non diffìcile è accorgersi come in Umberto D. gli spazi chiusi siano sostanzialmente una miniaturizzazione di quelli aperti, microcosmi all’interno dei quali si riflettono la stessa frantumazione e divisione gerarchica che contrassegnano il macrouniverso socialmente identificato e stabilito dello spazio aperto urbano, e le stesse coordinate di privazione-esclusione (emblematicamente la molla narrativa è innescata dalla minaccia di sfratto e dalle difficoltà che Umberto incontra nel far fronte ai debiti contratti e al pagamento dell’affitto della camera).

Due sono essenzialmente i luoghi chiusi che fanno teatro al calvario morale del protagonista: la casa e l’ospedale, entrambi partecipanti ad una medesima condizione di ostilità (ma ad essi si potrebbe aggiungere anche la mensa economica, dove Umberto viene redarguito e minacciato dall’inserviente — seq. IV, inq. 64 — che lo ha scorto mettere il piatto sotto il tavolo, davanti al cane: «Ho visto. Domani sbatto fuori lei e il cane»). Sia la casa che l’ospedale, infatti, si evidenziano come spazi della salvezza (Umberto si fa ricoverare non solo a causa della precaria salute, ma anche, e soprattutto, per cercare di risolvere i propri problemi di natura economica risparmiando i soldi della mensa), come rifugio, tana, protezione, come «angolo sicuro di tepore» (per dirla con i versi del poeta Arsenij Tarkovskij); ma, allo stesso tempo, come zona in cui non si dà possibilità di annullamento del senso di emarginazione o cancellazione delle differenze sociali radicate nella realtà urbana, come «orfano spazio … dormiente e senza sogni» (A. Tarkovskij). La stanza di Umberto diviene il paradigma di una casa più ambita che realmente posseduta, spazio che può assicurare una qualche elementare possibilità di sopravvivenza, ma sottoposto — negando al protagonista ogni sicurezza d’intimità — a continue invasioni: la coppia di adulteri alla quale la padrona ha subaffittato la stanza; la domestica che dalla finestra saluta e «conversa» a gesti con i due militari; le formiche che si introducono nel letto; i suoni i rumori le voci che giungono dalla strada o dagli altri ambienti dello stesso appartamento; il proprietario del cinema che penetra per sbaglio nella camera di Umberto anziché dirigersi verso il salotto; i muratori che eseguono i lavori di ristrutturazione della stanza fino ad aprire lo squarcio nella parete, segno tangibile di una ferita interiore ormai insanabile e non più cicatrizzabile.

Alla camera del vecchio si contrappone il salotto borghesemente arredato, simbolo di un mondo «altro» e «diverso», e comunque inaccessibile — che incute quasi timore e un senso di incombente minaccia, materializzato dalla gigantesca ombra della donna che, al ritorno di Umberto dall’ospedale, si proietta sulla vetrata d’ingresso (inq. 399) — dove la sprezzante e temibile padrona si intrattiene con i suoi ipocriti amici cantanti. Tra i due luoghi opposti e non comunicanti è disposto lo spazio del corridoio, tramite con la cucina, il correlativo «regno» del personaggio della domestica (è lì che Maria lavora e dorme), e al tempo stesso zona di comunicazione tra la padrona e il pensionato. «Il corridoio … nel quale la camera di Umberto e la cucina della servetta si fronteggiano, corre verso il suo spunto di fuga, il luogo della padrona. Il linguaggio dello spazio non potrebbe essere più esplicito, la dipendenza delle due “vittime” ne viene magnificamente espressa: il corridoio è nella sua dimensione prospettica il testimone della loro inferiorità, della loro sconfitta» (14).

Analogamente, anche l’ambiente ospedaliero sembra strutturarsi secondo più componenti spaziali, che suggellano la «verticalità» dell’ordinamento sociale e la contrapposizione tra inferiorità e superiorità che lo sottende. Al vertice di tale simbolica scala gerarchica si colloca, allora, la figura del primario — gerente e simbolo di uno spazio «esterno» irraggiungibile e inaccessibile — che passa da letto a letto con molta rapidità e con fare altezzoso, giudice della sorte dei pazienti — relegati ai lati dell’ampio salone, e quindi in una zona «marginale» e «periferica» — ai quali può intimare lo «sfratto»: «Domani te ne puoi andare — dice a Umberto — Non vedi che non hai più febbre? Si tratta di una volgare tonsillite. Se tu fossi più giovane ti direi di toglierti le tonsille. Ma che cosa vuoi toglierti, alla tua età!» (seq. XI, inqq. 253-255). Fra i due poli (il primario e i malati) della relazione gerarchica e di «potere», fa da trait d’union il personaggio della suora — situato, in termini spaziali, nella lunga corsia centrale che attraversa longitudinalmente il salone, allungandosi verso la finestra — la quale distribuisce bigottamente rosari allo stesso modo con cui si regalano giocattoli ai bambini, a chi li richiede non certo per fede ma al fine di ottenere l’intercessione a prolungare il soggiorno ospedaliero. Sotto il superficiale strato di apparente serenità e conciliazione, si cela anche in questo caso l’intrigo di ipocrisia, tracotanza, inganno, umiliazione, menzogna, indifferenza: il subdolo gioco in cui pure Umberto finisce con l’essere coinvolto (sorridendo, non senza un po’ di vergogna, alla suora che gli tiene sospeso dinanzi il rosario — inqq. 275-276); gli insegnamenti, da esperto nell’arte della sopravvivenza, del suo vicino di letto (inqq. 256-272); la conversazione, imperniata su interessi economici, che i due visitatori intavolano accanto al letto del loro padre morente (inq. 315), ostentando un accorato e sofferto sentimento soltanto nel momento in cui si approssima la suora.

La dimensione spaziale, insomma, nella sua stratificata strutturazione, si pone in Umberto D. come costante figurativa, suggestione simbolica e supporto tematico, tesi a mettere in risalto l’impressione di «compressione», isolamento, soffocamento, impossibilità di movimento, illibertà esistenziale, correlati in ogni caso con la condizione interiore del protagonista. Appare d’altronde ovvio come tale dimensione si concreti attraverso una particolare «densità», determinata dalle soluzioni di angolazione, fecalizzazione e costruzione dell’inquadratura. Evidente e rilevante risulta, ad esempio, nell’elaborata dinamica visiva di cui il film è assai ricco, il ruolo giocato dal procedimento della profondità di campo, associato all’obliquità dell’angolo di ripresa; esso dà luogo ad un’accentuazione della componente prospettica degli spazi, i quali subiscono, nelle loro zone «centrali», un’estensione e una dilatazione che provocano un ulteriore divaricamento della distanza tra le zone estreme. Esplorato dalla mdp nel suo sistema prospettico, nella fuga dei suoi elementi architettonici cui l’inclinazione dal basso imprime un più marcato dinamismo visivo, il corridoio della casa di via S. Martino della Battaglia si configura come una sorta di oltretombale cunicolo (in un denso e suggestivo gioco chiaroscurale di ombre e riverberi luminosi provocati dalla successione dell’arco al centro del corridoio, del lucernario e della lucente vetrata della porta del salotto) che scorre verso la tana della terribile padrona: rappresentazione quanto mai esplicita ed efficace della situazione del protagonista nella casa e dell’identificabilità tra assetto spaziale e gerarchia sociale.

Personaggi e ambienti trovano sempre, in Umberto D., una stretta correlazione, messa in evidenza anche dalla stessa costruzione interna delle inquadrature attuata mediante un gioco variato di campiture e relazioni spaziali tra personaggi, e tra essi e lo sfondo. Significativo, a questo proposito, appare l’inizio della sequenza — la VI — in cui Umberto, nel fare ritorno a casa (e quanto mai ironica e beffarda appare l’oraziana scritta — «Parva domus sed apta mihi» — apposta sulla porta d’ingresso), sorprende i due amanti clandestini sul letto della propria camera: alla ripartizione «ternaria» dello spazio, delineata dallo scorcio prospettico del corridoio, fa riscontro la disposizione «triangolare» dei personaggi, con Umberto collocato al margine sinistro dell’inquadratura innanzi alla porta della sua camera, la domestica sulla destra, in prossimità della cucina, e la padrona al centro, davanti alla vetrata d’ingresso del salotto, nel punto di fuga verso il quale converge il corridoio (inq. 73).

Tutto il film si costruisce su un impianto compositivo di carattere prospettico , quale traduzione figurativa di un discorso incentrato sull ’ isolamento e il distacco di un uomo non soltanto dagli altri essere umani, ma anche dagli oggetti che in qualche modo contribuiscono a caratterizzarne resistenza e dall’ambiente che lo circonda. L’impiego della prospettiva (nella quale sono osservati, oltre al corridoio della casa, la corsia dell’ospedale, scandita dalla successione dei letti; il giardino pubblico nella sequenza finale, ritmato dall’alternante sequela delle panchine e degli alberi; il cortile del canile municipale, delimitato lateralmente dalla fila delle gabbie; la strada che costeggia l’ospedale, lungo la quale si incammina Umberto dopo aver salutato l’ex compagno di corsia, e le altre vie urbane il cui piano orizzontale, intersecato lateralmente dalle linee verticali dei palazzi, si assottiglia fino a perdersi sullo sfondo) diviene in questo senso un parametro essenziale della vicenda di isolamento del protagonista, anch’essa contemplata in una prospettiva che si sviluppa all’infinito, verso un punto che appare vieppiù indefinito e rarefatto. È d’altronde proprio nella prospettiva del giardino che il film conclusivamente si dissolve: con Umberto che, fallito il suo tentativo di suicidio, in un apparente ritrovamento e ristabilimento del proprio eauilibrio interiore e di una ragione d’essere (e in una illusoria riaccensione di un’estinta energia vitale dalla quale trasudano in realtà un indicibile senso di disperazione e un’aurea di greve tristezza), si allontana verso l’orizzonte, in una poetica ambiguità, un annullamento della vita che è anche un annullamento della morte: «Nessuna caduta dalla finestra sul selciato percorso dalle rotaie del tram, nessun treno che travolga in un vortice di polvere e di fumo un vecchio ed il suo bastardo dagli “occhi intelligenti’’; soltanto un campo lunghissimo nel quale l’immagine lucida della loro triste vita sfuma nelle mille possibilità della morte» (15).

All’impiego della prospettiva si unisce, come già si è osservato, quale elemento finalizzato alla determinazione spaziale dell’inquadratura e al tempo stesso del punto di vista interpretativo, l’adozione del procedimento dell’angolazione, accentuata dalla rilevante inclinazione della macchina da presa nei confronti del profilmico. Nelle non poche inquadrature in cui tale positura dello sguardo assume, oltre che suggestiva qualità formale, esplicita funzione significante, De Sica restituisce tutta la pesantezza e il cupo spessore degli spazi nei quali si attua il dramma del protagonista: lembi di un paesaggio interiore vieppiù scosso da sussulti tumultuosi, lancinanti squassamenti, profonde lacerazioni. Come quello squarcio aperto nella parete della stanza simboleggia: allegoricamente, la mdp inquadra Umberto, per la prima e ultima volta nel film, da un ambiente esterno (seq. XI, inq. 552), attraverso quel foro che suggella la sua definitiva «deiezione» dal proprio spazio vitale e il conclusivo sgretolamento di una dimensione interiore. Si pensi, ad esempio — oltre alle già citate inquadrature iniziali, imperniate sull’alternanza degli sguardi della mdp lungo una linea direttrice verticale, e oltre alle ricordate vedute prospettiche dal basso del corridoio della casa — alle scene in cui la figura di Umberto, inquadrata dalla mdp posta quasi al livello del pavimento, è wellesianamente sovrastata dal soffitto della cucina. O si pensi, ancora, al rapporto visivo alto /basso (o in piedi/seduto, su un mezzo di trasporto/a terra) cui sono improntate molte delle sequenze di carattere dialogico. O si pensi, infine, e soprattutto, alle inquadrature 549-599 (di cui alcune — la 550, la 554, la 556, la 558 — in «soggettiva») attraverso le quali è risolta la scena della corsa in tram del protagonsta verso il proprio progetto suicida: lontanissima, ripresa dal basso, appare la figura della domestica che osserva la partenza di Umberto dalla finestra di quella che è stata la sua camera; minacciosi si impongono i profili dei grandi caseggiati e dei muri grigi di quelle costruzioni geometriche, cui l’accentuata angolazione conferisce una sensazione di incubico spessore; e angosciante si fa la piattezza dei palazzi, refrattaria a qualsiasi bisogno di solidarietà e di calore umano, tra i quali penetra il tram, esso stesso mezzo di accentuazione drammatica e di solidificazione delle angosce del protagonista e delle sue intime dilacerazioni.

Emblema di un’energia e di una dimensione dinamica che accentua la «staticità» dello spazio nel quale si muove Umberto, e con lui il personaggio della domestica, il tram, sorta di minaccioso ragno meccanico dalla cui metallica ragnatela di binari e rotaie lo spazio urbano è attraversato e avvolto, costituisce una «presenza» in Umberto D. che assume anch’essa qualità simbolica: è il tram, con i suoi stridii e i suoi inquietanti bagliori causati dalle scintille elettriche lanciate dal trolley, a disturbare la privacy del protagonista; è il tram a coagulare e dare spessore ai suoi esiziali pensieri, al suo deragliamento interiore verso l’annichilimento di sé. Di una stessa impressione di estrema angoscia e di un simile senso di impotenza, di insicurezza, di inferiorità, sono forieri pure tutti gli altri automezzi che percorrono le strade cittadine, veicoli, anch’essi, di una torbida indifferenza e segno di brucianti sconfitte. L’autobus che disunisce e scompagina il vociante e innocuo corteo di pensionati i quali sfilano per difendere la propria esistenza, e le jeep della polizia intervenute a interrompere la manifestazione non autorizzata; l’autobus su cui si allontana il vecchio collega di Umberto, al quale egli tenta di spiegare la propria difficile situazione, e la corriera su cui frettolosamente sale il «commendatore» lasciando il protagonista solo con i suoi problemi; il taxi che conduce il vecchio al canile municipale e il furgone-cellulare che trasporta i cani accalappiati in un viaggio verso la morte; l’autombulanza che, all’ingresso dell’ospedale, interrompe il commiato tra Umberto e il suo vicino di letto soffermatisi sul portone a discorrere e il treno sotto al quale il protagonista tenta di buttarsi: elementi ansiogeni e perturbatori che acquistano un’evidente corposità e traducono visivamente la subalternità di una condizione umana, la glacialità del silenzio sociale, la demarcazione di un cerchio che si stringe sempre più attorno ad Umberto, l’ombra di una vieppiù esulcerata estraneità (come quella su cui indaga la mdp nell’immagine che ritrae per l’ultima volta il protagonista sulle scale — inq. 545). Si tratta di «presenze», insomma, che sono non soltanto meramente scenografiche ma anche semioticamente pregnanti, spinte verso una zona simbolica, dispieganti una loro espressività drammatica attraverso la quale De Sica mette in scena la sua moderna tragedia dell’indifferenza sociale, con uno sguardo partecipe verso una figura umana segnata dalla sofferenza. «Pedinando» zavattinianamente la realtà, compiendo una meticolosa analisi dei fatti quotidiani, il regista scruta, fotografa le situazioni preordinate, vi entra lasciandole lievitare progressivamente, coglie i dati immediati della realtà per poi dilatarli, amplificarli, metaforizzarli.

Tale processo di «focalizzazione» trova attuazione, come si è visto, mediante una precisa procedura costruttiva e una specifica determinazione spaziale delle inquadrature; ma anche, e forse soprattutto, attraverso le modalità di costruzione del tempo del racconto, come d’altronde l’esegetica desichiana non ha mancato di sottolineare. Se la ricerca sullo spazio dell’immagine viene infatti a costituire una delle principali cifre dell’invenzione creativa e dell’intervento registico dell’autore, è tuttavia il rapporto con il tempo a disvelare la sua grande capacità espressiva, attestando il carattere peculiare e innovativo della sua opera. Umberto D., in questo senso, è il film di quei primi anni Cinquanta che, assieme a pochi altri, ha aperto nuove prospettive per il linguaggio cinematografico. La materia narrativa, scomposta analiticamente in miriade di nuclei diegetici, di microazioni, di unità di osservazione ridotte all’essenziale e oltre le quali appare impossibile gettare lo sguardo, si dispiega in un tempo esteso, dilatato, quasi inerte e sospeso, nel quale si raggruma e si condensa la drammaticità della vicenda, proprio a conferma del tracciato narrativo individuato da Zavattini e in attuazione delle implicazioni etico-tematiche zavattiniane, in una consonanza che ha pochi altri riscontri nell’intera storia del cinema, De Sica struttura il film secondo una concezione diegetica che trascende ogni eventuale rischio di «letterarietà» del testo di partenza, facendo invece interamente perno sull’autonomia dell’immagine filmica.

L’obiettivo diviene allora una sorta di lama che affonda nell’organismo narrativo fino ad isolare gesti, figure, particolari che divengono emblematici di una più larga e dilatata visione, definendo attimo per attimo ogni implicazione del dramma e ogni inquietudine, cogliendo fino in fondo la minacciosa violenza di certe situazioni, creando una continua tensione che si profila con nitida essenzialità e con effetti di intensità inquietante, frutto, appunto, di una penetrante analisi.

L’intera opera si inscrive in una dimensione di dominante staticità, che è di ordine sia temporale che spaziale (tutti gli ambienti, interni ed esterni, concorrono a definire un’idea dell’impossibilità di movimento del protagonista: persino i suoi spostamenti in taxi — seq. XVI — e in tram — seq. XXIII — denotano l’immobilità e la fissità dello sguardo, osservati da una mdp anch’essa «intrappolata», come il protagonista, all’interno di altri veicoli).

La diegesi trova sviluppo infatti in un procedimento di diluizione dei tempi, di sospensione contemplativa, di «durata», di cui il più sintomatico e citatissimo esempio (e una delle più intense pagine del cinema desichiano, momento di forte incisività poetica da cui affiorano squarci di un intenso senso di pietas e di una straziante condizione e verità umana) è costituito dalla sequenza (la X) del risveglio della domestica, l’unica creatura umana che manifesti simpatia e comprensione per Umberto, perché anche lei naufraga della vita, segregata in quell’involucro di solitudine e di esclusione dove l’esistenza non può passare che di sghembo. E, in quell’involucro di mura scalcinate e sordide della cucina, la mdp coglie e spia la ragazza nell’indolente riprendere contatto con l’ambiente, nella meccanica iterazione dei gesti quotidiani, nell’invariato svolgersi delle usuali faccende. La scansione della sequenza, peraltro già compiutamente definita nei suoi particolari in sceneggiatura (a dimostrazione e conferma di quanto indissolubilmente pesi il marchio zavattiniano sui capolavori di De Sica), obbedisce all’esigenza, a ben vedere, non tanto della messa in scena di un tempo oggettivo (benché la sua durata corrisponda alla durata reale dell’azione), quanto piuttosto alla rappresentazione di un tempo interiore, del modellamento di un grado temporale della soggettività. Lo statico «descrittivismo» e il dato «cronachistico» da cui apparentemente è connotata la sequenza divengono così vibrazione interiore, eco della tensione del personaggio, riverbero delle sue ansie e delle sue angosce, nella en scene di un tempo sospeso e immobile, come agonia di ogni alito esistenziale e sociale. De Sica, opportunamente, amplifica l’impressione di mestizia che trapela da quel pigro affaccendarsi della giovane donna tra le cose circostanti, risolvendo la sequenza in una serie di inquadrature che ne sottolineano il peso sensoriale, e in cui il momento oggettivo sfuma in quello soggettivo, rivelatore della vita interiore del personaggio; come esemplifica anche l’inserimento, nella costruzione della sequenza, delle due inquadrature in soggettiva: il dettagio del lucernaio attraversato dal gatto (inq. 105) — materializzazione del punto di vista dell’ancora assonnata Maria, giacente sul letto — e lo scorcio dello squallido cortile, delimitato dalle scialbe facciate dei palazzi miseri e malandati (inq. 200), preceduto e seguito dal primo piano della ragazza che la mdp ritrae dall’esterno, attraverso il vetro della finestra, e dove si coagula per intero il senso di imprigionamento e di una chiusa ineluttabilità a cui è legato il destino del personaggio.

La sequenza del «risveglio», insomma, costituisce un illuminante esempio dell’architettura progettuale e stilistica di Umberto D. e di quell’opzione di «durata» che ne costituisce il muro portante: opzione in gran parte affidata, più che alla dilatazione dei tempi di ripresa, ad un procedimento di frammentazione temporale e di successiva ricomposizione delle inquadrature, frutto di un sapiente lavoro di montaggio, in una sensazione percettiva dell’estensione del tempo. Una conferma di ciò è data anche dall’alto numero di inquadrature (684) di cui consta il film, e dalla breve durata media dei piani (meno di 8”). La struttura filmica di Umberto D. si basa infatti su un fraseggiare spezzettato, segmentato in una molteplicità di inquadrature (evidenziato soprattutto nelle scene di carattere dialogico, risolte sempre in gioco quasi parossistico di campo-controcampo); anche se non mancano piani di considerevole lunghezza, dove De Sica allenta ritmi e cadenze della scrittura: come alcune delle inquadrature della stessa sequenza del «risveglio», della durata di una cinquantina di secondi, o come l’inquadratura 106, che oltrepassa il minuto e mezzo, in cui un movimento combinato di carrelli e panoramiche (in più tempi) segue il personaggio di Umberto, che entra nella sua camera precedentemente invasa dai due amanti clandestini, in una successione di gesti «elementari», «semplici», «banali» (16) che, scanditi dal ticchettio della sveglia in un ritmo meccanico e ripetitivo, forniscono all’intera azione un grado di tensione temporale superiore alla sua effettiva durata.

Ma è essenzialmente mediante un linguaggio frammentato, come si diceva, che De Sica restituisce sullo schermo la corposità del quotidiano, in immagini dove la mdp spia i personaggi, li pedina vieppiù da vicino, valorizzando le risorse disvelatrici dei primi piani e dei dettagli alternati ai campi lunghi, nei quali le figure «subiscono» tutto il peso degli spazi circostanti, delineandosi in un vuoto senz’aria, senza presenza. In questo spazio diegetico De Sica costruisce il suo tempo sottolineando il prolungarsi di un’azione o ricorrendo alla scansione frantumata delle sequenze, al concentrarsi sui particolari o sui volti dei personaggi, rivelando le ombre della loro interiorità, rappresentando i loro stati d’animo, soggettivazione di una realtà dolorosamente vissuta, che si riflettono nella rappresentazione della «oggettvità» circostante. Ricchi di potenza espressiva, i primi piani assumono la funzione di accentuazione della dinamica psicologica dei personaggi. È il caso, ad esempio, dei già ricordati primi piani di Maria nella sequenza del «risveglio», o di quelle inquadrature in cui la mdp incornicia il volto contratto del vecchio pensionato, invaso dagli autoclastici proponimenti (inqq. 515-517), indagando gli agitati sintomi della sua coscienza ormai chinati sulla morte. Può risultare interessante notare come l’intensità drammatica derivante da tali primi piani sia sovente accresciuta dalla dinamica di ripresa dei piani e dal progressivo stringersi dell’obiettivo — attuato mediante un movimento di carrello in avanti — sul volto del personaggio, o su certi dettagli acutamente illuminanti e rivelatori di malesseri divampanti: come il già ricordato squarcio aperto nella parete della camera di Umberto (inqq. 462 e 552), sul quale la mdp si dirige fin quasi ad esserne «risucchiata», o le lucide rotaie d’acciaio del tram (inq. 518) che, come per un misterioso effetto di calamitazione, sembrano attrarre l’occhio meccanico della mdp, rendendo visibile, e quasi materializzando, l’incipiente ossessione suicida di Umberto.

Ciò peraltro attesta come una non secondaria importanza abbiano, nell’orchestrazione stilistica dell’opera, i numerosi movimenti di macchina: una quarantina di panoramiche orizzontali e una trentina di movimenti combinati di carrello e panoramica, più una ventina di carrelli avanti, una decina di carrelli laterali, alcuni carrelli indietro, alcune panoramiche verticali — e diagonali —, qualche movimento di dolly; per un totale di 121 inquadrature di movimento (sulle 684 inquadrature in cui è articolato il film) che interessano ben 22 delle 25 sequenze (17). Si tratta, nella maggior parte dei casi, di movimenti di non estrema complessità, che vengono a sottolineare, seguendo sovente un unico personaggio all’interno di uno spazio chiuso, i movimenti psicologicamente più statici: valgano qui gli esempi della sequenza VI (che potrebbe essere suddivisa in tre sottosequenze, corrispondenti agli altrettanti spazi — il corridoio, la cucina, la camera di Umberto — in cui l’azione ha svolgimento), articolata in 86 inquadrature delle quali 15 denotano movimenti di macchina; e della sequenza X (anch’essa frazionabile in più sottosequenze), formata da 48 piani di cui 16 costituiti da inquadrature di movimento. In entrambi i casi si acutizza la sospensione del tempo diegetico, in una sorta di «implosione» della materia narrativa, prima dell’«esplosione» drammatica che culmina nell’ultima sequenza con il tentato suicidio di Umberto. Questo è, per converso, scandito in una rapidissima successione di inquadrature: dove i dettagli dei cavi elettrici e dei binari ferroviari si alternano ai P.P. e P.P.P. di Umberto con gli occhi fissi e spalancati verso il treno che avanza, e ai particolari del muso del cane che cerca di sottrarsi alla stretta quasi violenta dell’uomo.

La scrittura desichiana ha insomma, in Umberto D., una sua complementare duplicità: da un lato un (calcolato) periodare «flemmatico» che diluisce i tempi ed evidenzia l’immobilità e la chiusura dello spazio, dall’altro un (preponderante) fraseggiare sminuzzato e articolato in una molteplicità di piani dove si accumulano il potenziale dinamico e la tensione drammatica, piani caratterizzati da un uso «passivo» della mdp, che però non sminuisce anzi esalta la dimensione icastica e la plasticità delle immagini. È tale duplicità di scrittura che, in una calibrata disposizione dei tempi narrativi, fa acquistare al «realismo» del dramma dimensioni psicologiche.

Varrà la pena di notare come, alla determinazione della «durata» dell’opera, contribuisca pure l’uso della «punteggiatura» interna del testo filmico: vale a dire il complesso dei raccordi che vengono ad unire i vari episodi della storia. Il sistema di periodizzazione adottato da De Sica fa perno essenzialmente sull’uso delle dissolvenze incrociate, il che tuttavia non sottintende una omogeneità di funzioni di tutti gli «intervalli».

Va a tale scopo tenuto presente che il film può essere diviso in tre «grandi capitoli» narrativi.

Il primo e il terzo (coincidenti rispettivamente con le sequenze I-X e XIII-XXV) hanno una struttura pressoché simmetrica, sia per il loro sostanziale equilibrio in termini di tempo di proiezione (38’ nel primo caso, poco più di 39’ nell’altro), sia per il loro stesso ordine narrativo. Esso è in ambedue i casi basato su una succesione articolata in più tempi, ABCBC: dove A si identifica con una situazione di lontananza di Umberto dalla sua abitazione, B con il suo ritorno a casa, C con il successivo allontanamento. Entrambi gli episodi, inoltre, coprono un periodo di tempo che corrisponde all incirca allo svolgimento di un’intera giornata e di parte di quella successiva (dal corteo dei pensionati al ricovero di Umberto in ospedale; e dall’uscita dall’ospedale al tentativo di suicidio, fino all’allontanamento lungo il vialetto dei giardini pubblici).

Più breve e semplificato è invece il secondo «grande capitolo» (identificabile con le sequenze XI-XII), che si dispiega, peraltro, in un periodo imprecisato. Ma senza dubbio più ampio, diluito presumibilmente in più giorni. La funzione di «cesura» dell’episodio centrale, che fa in qualche modo da spartiacque tra il capitolo iniziale e quello finale, è sottolineata dalla doppia dissolvenza chiusura-apertura (18) (l’unica nel sistema di interpunizone adottato dal regista) che divide l’ultima sequenza del primo capitolo dalla prima del secondo capitolo. In tutti gli altri casi, la segmentazione del racconto è scandita, come si è detto, da un complesso di 15 dissolvenze incrociate (5 nella prima parte, 1 nella seconda, 8 nella terza, 1 con funzione di passaggio dalla seconda alla terza). Se alcune di esse, tuttavia, stanno ad indicare un passaggio di tempo relativamente lungo e suturano inquadrature e sequenze che non presentano né continuità temporale né continuità spaziale, altre esprimono semplicemente una breve (o brevissima) discontinuità temporale talvolta in una stessa unità di luogo, intervallando la sostanziale consecutività di un’azione allo scopo di estenderne la durata.

Particolare importanza assume anche, al fine della determinazione della tensione temporale, l’uso complessivo del materiale sonoro non verbale (musica, rumori) che agisce globalmente sul complesso spazio-durata, dilatandolo, accentuando in pari tempo il peso di certe fasi della vicenda e la risonanza di talune immagini. Avvalendosi del contributo di Alessandro Cicognini, De Sica ricorre, in Umberto D., a interventi musicali che hanno non soltanto la funzione di sottolineare certe fasi narrative e dare risonanza drammatica a particolari scene, ma anche quella di «richiamare» situazioni e personaggi: se facilmente riconoscibile è quello che potremmo chiamare il «tema» di Umberto, di malinconico spessore (che accompagna gli itinerari del protagonista attraverso gli spazi urbani e i suoi gesti all’interno della camera), non meno individuabile appare il «motivo» di Maria che, in un’atmosfera «sospesa» e rarefatta di velata mestizia, definisce musicalmente la figura della domestica, sottolineando il suo triste stato d’animo nella sequenza del «risveglio», introducendo la sua visita a Umberto in ospedale, preannunciando il suo ultimo saluto al pensionato in preda ai ferali pensieri. Al potenziale, emotivo e «psicologico», dell’apparato musicale si aggiunge poi il peso particolare assunto dai rumori, considerati anch’essi come materiale compositivo, elemento integrante del processo di significazione; il ticchettio della sveglia posta sul comodino della camera di Umberto, che risalta in particolar modo, in una sorta di «primo piano» sonoro, oltre che visivo, all’inizio della sequenza XXII, a segnare il definitivo distacco di Umberto dalla casa, dopo la notte insonne foriera dell’impulso suicida (19); il gocciolio dell’acqua, che scandisce gli stanchi gesti di Maria nella cucina, al suo risveglio; lo stridore del tram, che riecheggia tra le mura dell’appartamento; il trillo della campanella d’avviso di chiusura delle sbarre, al passaggio a livello, che intensifica la tensione e provoca una dilazione del tempo; il fischio prolungato del treno lontano e il suo vieppiù intenso sferragliare, simile a un rombo; rumori e suoni volti appunto a dare maggiore risonanza sensoriale alla drammaticità della vicenda e a sottolineare il senso profondo della situazione narrativa.

Similmente alla lente d’ingrandimento con cui Umberto osserva il termometro, tentando di vedere i gradi di febbre (inq. 178), la scrittura con la quale De Sica «traduce» la materia zavattiniana filmicamente — con quel suo indagare nel segno di un gesto, di un’espressione, di un suono, di uno spazio, facendo lievitare i vuoti insistiti, fonti di vibrazioni e di amplificazione di senso — opera un ampliamento delle coordinate della stessa realtà, sfiorando talora la trasfigurazione del reale, divenendo a volte indice «di una irrealtà, di un universo estensivo», che coglie «stati d’animo, inquietudine nella dilazione di un particolare che si allarga a tutta la visione» (20), e delinea un’atmosfera di allucinata e incubica densità, in cui il dramma di un’umana sofferenza diventa il dramma universale dell’esistenza ingiusta di tutti gli umiliati e offesi.

Lasciata su una panchina dei giardini pubblici la propria valigia (il cui abbandono traduce allegoricamente il complesso del fallimento e della rinuncia interiore), Umberto, giocando con il cane ritornato amico, si allontana lungo il vialetto alberato — in una vibrante immagine di contemplazione del dolore cui la ludica letizia dei vocianti ragazzi fornisce un’ambigua e diffusa incidenza — verso una meta sfuggente e nebulosa: dove non brillano nuovi bisogni e desideri, non si prospettano magnifiche sorti, non si delinea una plausibile meta su cui investire affetti, energie, lotte. In quell’allontanamento è segnato non un bisogno di guardare avanti, di «fondarsi» nel futuro, o un sogno di trasformazione, bensì un sentimento di sconfìtta e di disfacimento, un senso di smarrimento dell’individuo fra i detriti della società e della storia, un’impressione dell’impossibilità di cambiamento, una percezione (o una constatazione) dell’annichilimento e della vanificazione di una «politica della ricostruzione». Assieme alla valigia di Umberto rimane forse, abbandonato su quella stessa panchina, il bagaglio del neorealismo, ormai inservibile per il proseguimento di un cammino da poco iniziato ma già sostanzialmente concluso, lungo un itinerario sviluppato in una direzione involutiva di chiusura o distruzione, e destinato a dissolversi tra le brume di quella opera di restaurazione già ampiamente sedimentata nella società italiana agli inizi degli anni Cinquanta. Sopraffatto dagli eventi e dai tempi, Umberto scompare su uno sfondo che è quello di una sconfitta storica; e con lui scompare il neorealismo, «lasciando irrisolto il proprio rapporto politico con la società, e affidando alle Gelsomine e alla Cabirie un supplemento di vitalità sempre più tenue» (21). Nel limbo grigio e immoto, in cui Umberto dissolve la propria residua, umiliata sopravvivenza, si dissolve irreversibilmente anche la grande speranza del dopoguerra italiano, e del neorealismo che ne era stato il cantore, e di Zavattini e De Sica che ne sono stati i massimi poeti.

NOTE

1. Lino Miccichè, De Sica e il neorealismo in La ragione e lo sguardo, Cosenza, Lerici, 1979, pp. 224-225.

2. Ivi, p. 226.

3. Pio Baldelli, Dalla miseria all’elegia. I film di De Sica e Zavattini, in Cinema dell’ambiguità, Roma, Ed. Nuova Sinistra, Samonà e Savelli, 1969, p. 253.

4. Cfr. Cesare Zavattini, Umberto D. (soggetto, sceneggiatura e appunti vari), Milano, Ed. Bocca, 1953.

5. Zavattini, Alcune idee sul cinema, in Umberto D., cit., p. 14.

6. V. De Sica, in «Tempo illustrato», 16 dicembre 1953 (anche in Franca Faldini e Goffredo Fofi, L’avventurosa storia del cinema italiano, Milano, Feltrinelli, 1979, pp. 245-246). «Poche volte — prosegue De Sica — mi è accaduto di appassionarmi ad un soggetto quanto mi appassionai a quello di Umberto D.. Tranne Sciuscià e Ladri di biciclette, per tutti gli altri ho avuto incertezze e tentennamenti: per Umberto D., nessuna. Esisteva infine Feterno problema del finanziamento. Il film fu prodotto da Angelo Rizzoli, per il quale avevo lavorato concorrendo alla produzione di Domani è troppo tardi. Per la verità Rizzoli non ne voleva troppo sapere, intuiva che gli sarebbe costato troppo denaro. Per un anno mi aveva offerto insistentemente la regia di Don Camillo, dicendo: “Guarda, Vittorio, fammi prima Don Camillo e poi ti faccio fare Umberto D. ”. Mi offriva cento milioni per Don Camillo. Sa Dio quanto mi costasse rifiutarli. Replicavo: “Concediti il lusso di fare Umberto D., così come da editore ti concedi di stampare un classico”. La spuntai, e speravo tanto che il mio amico Rizzoli guadagnasse con Umberto D. : non ci sono riuscito e mi dispiace. Non costò nemmeno tanto, il film: 97 milioni la produzione vera e propria, in tutto circa 140 milioni. Disgraziatamente l’insuccesso italiano si è riverberato all’estero, in Francia è stato presentato male, quasi di sfuggita, in Inghilterra Korda lo ha preso senza concedere il minimo garantito e lo ha tenuto due anni in magazzino. … Se dovessi rifarlo lo rifarei, e tale e quale. Come Ladri di biciclette. In Umberto D. taglierei solo una scena, quella dei bambini che giocano nel finale».

7. André Bazin, De Sica metteur en scène, in Qu’est-ce que le cinéma? IV. Une esthétique de la réalité: le néo-realisme, Paris, Les Editions du Cerf, 1962, p. 88.

8. Cesare Battisti, Il professor Battisti presenta «Umberto D.», in «Cinema», n. 72, anno VI, 15 ottobre 1951.

9. Carlo Lizzani, Il neorealismo: quando è finito, quello che resta, in Lino Miccichè (a cura di), Il neorealismo cinematografico italiano, Venezia, Marsilio, 1975, p. 99. Vale la pena di ricordare che il tema della città distruttrice dei valori tradizionali, e dell’unità familiare, legati alla campagna, resta ampiamente nel post-neorealismo fino agli albori dei miracolati (e tutti «cittadini») anni Sessanta. Si pensi alla famiglia, inquinata e distrutta nell’emigrazione a Milano, del viscontiano Rocco e i suoi fratelli.

10. Carlo Lizzani, Il cinema italiano 1895-1979, Roma, Editori Riuniti, p. 129.

11. Osserva acutamente Franco La Polla (La città e lo spazio, in «Bianco e Nero», n. 9/12, settembre-dicembre 1975, fascicolo monografico a cura di Orio Caldiron) come le parole percepibili dopo la musica della «Settimana Incom» e la voce del caramellaio («… con i galeotti in queste condizioni, fra due giorni…») siano «altamente allusive a due temi centrali del film stesso, la reclusione e il tempo» (p. 78). Si noti, inoltre, come il cinema, in Umberto D., costituisca anche indirettamente un fattore di continua interferenza nelle vicende del protagonista: è infatti il personaggio del proprietario (e la sua valenza «disturbatrice» si palesa fin dalla sua apparizione, quando per errore si introduce nella camera del febbricitante Umberto), a sancire, a seguito del suo fidanzamento e del suo preannunciato matrimonio con la padrona di casa, la definitiva esclusione del vecchio dal suo spazio vitale.

12. F. La Polla, op. cit., p. 68.

13. Ivi, pp. 74-75.

14. Ivi, p. 78.

15. Ivi, pp. 79-80.

16. Umberto richiude quasi con stizza la porta dietro di sé, toglie l’asciugamano da sopra la lampada appesa al soffitto, si avvicina al letto «contaminato», apre le persiane, depone la borsa sopra i libri collocati sul tavolo, si toglie il cappello e il soprabito, e, ricordandosi improvvisamente del termometro tenuto sotto l’ascella, temendo di averlo perduto, si fruga tra i vestiti fino a tirarlo fuori dal fondo dei pantaloni.

17. Ai fini della nostra analisi non sono state considerate inquadrature di movimento quelle in cui la mdp, pur risultando «itinerante» rispetto allo sfondo inquadrato, è piazzata all’interno (o collocata su) mezzi di locomozione, mantenendosi fìssa sui personaggi posti in primo piano. Pertanto, seguendo tale criterio, prive di inquadrature di movimento si delineano, oltre alla XV, anche le sequenze XVI (costituita da un unico piano) e XXIII.

18. La dissolvenza di chiusura in realtà risulta parziale.

19. Si noti come il fattore temporale, in Umberto D., sia delineato e punteggiato anche dalla presenza, visiva e/o sonora, di certi «segnali» che ripropongono lo iato determinantesi fra la dominante staticità dello spazio chiuso su se stesso in cui muovono Umberto e Maria — prolungando il processo percettivo della loro essenziale inazione (ribadito appunto dal monotono ticchettio della sveglia, o dal motivo dell’orologio di Umberto su cui sono improntate ben tre sequenze: la III, la IV e la V) — e il «dinamismo» dello spazio «esterno», o la sensazione di un ritmo di vita diverso a loro estraneo (sottolineato, ad esempio, dai periodici squilli di tromba che provengono dalla caserma, dal suono della campana che si propaga all’interno dell’ampio salone dell’ospedale, dalla sirena che segnala ai muratori la pausa dal lavoro nella strada che Umberto percorre facendo ritorno a casa, dopo l’uscita dalla mensa economica — inq. 47).

20. Edoardo Bruno, Importanza del «non concluso», in «Bianco e Nero», cit. p. 118.

21. Adelio Ferrerò, «Umberto D.» e la crisi della rispettabilità borghese, in «Cinema nuovo», n. 197, 1969.

* * *

LISTA DELLE SEQUENZE

Dissolvenza in apertura.

seq. I (inqq. 1-26)
Un corteo di vecchi, «ordinato e pacifico», percorre una strada di Roma: chiedono giustizia per i pensionati (sulla prima inquadratura scorrono i titoli di testa: 13 cartelli a dissolvenza, più la dedica di De Sica a suo padre). Fra essi c’è Umberto Domenico Ferrari, con il suo inseparabile cane Flike, «a cui vuole bene come a un figlio». Il corteo, organizzato senza il permesso delle autorità, sbocca in una piazzetta, ma viene scompaginato dall’arrivo della Celere che disperde i dimostranti.

seq. II (inqq. 25-38)
Con altri pensionati, impauriti, Umberto si rifugia all’interno di un portone. Egli è assillato dal problema della sopravvivenza trovandosi alle strette per dei debiti cui non sa come far fronte.

seq. III (inqq. 39-47)
Tornata la calma, Umberto si incammina lungo la strada, nell’occasionale compagnia di un vecchio al quale cerca di vendere il proprio orologio.
Dissolvenza incrociata.

seq. IV (inqq. 48-64)
Alla mensa economica, Umberto, bisognoso di denaro, tenta ancora di cedere l’orologio, vanamente, ad alcuni commensali. Redarguito dall’inserviente per aver dato il proprio piatto al cane, egli esce accompagnato da un altro vecchio che, apparentemente, gli manifesta la propria solidarietà.
Dissolvenza incrociata.

seq. V (inqq. 65-69)
I due camminano lungo la strada. Umberto vende a sottoprezzo il suo orologio all’occasionale compagno che si rivela un mendicante.
Dissolvenza incrociata.

seq. VI (inqq. 70-155)
Al rientro nella casa di via S. Martino della Battaglia, dove egli abita presso una donna che affitta camere, Umberto scopre che la propria camera è occupata da una coppia di amanti «clandestini». Dopo un litigio con la padrona, che lo minaccia di sfratto rinfacciandogli i suoi debiti, il vecchio, febbricitante, può finalmente ritirarsi nella propria stanza e mettersi a letto, confortato solo dalle umili attenzioni che Maria, la giovane domestica, ogni tanto gli prodiga. Alla ragazza, che gli ha appena confidato di essere incinta (di un militare che presta servizio nella caserma di fronte, ma lei ne frequenta due, e non sa bene chi sia il padre), Umberto affida il denaro ricavato dalla vendita dell’orologio, affinché lo consegni alla padrona a parziale copertura del pagamento dell’affitto. Ma la padrona rifiuta il denaro: vuole che la retta di cui è creditrice le sia pagata per intero. Umberto, nonostante la febbre, si alza dal letto e si appresta ad uscire.

seq. VII (inqq. 156-163)
Sceso in strada, a sera ormai inoltrata, il vecchio si reca presso una bancarellla di libri usati per cedere a sottoprezzo, all’indifferente proprietario, il proprio dizionario .

seq. VIII (inqq. 164-183)
Umberto fa ritorno a casa, consegna il denaro a Maria, ma i soldi sono ancora insufficienti per saldare il debito. Con la febbre sempre più alta, affetto da una molesta tonsillite, l’uomo si infila tra le coperte: vorrebbe dormire, ma i rumori e i vocalizzi provenienti dal salotto dove la padrona è in compagnia dei suoi amici glielo impediscono.
Dissolvenza incrociata.

seq. IX (inqq. 184-191)
Gli amici della padrona abbandonano la casa. Umberto si scuote nel letto, destato dalle loro voci e dai rumori che giungono dal vicino cinematografo. Si alza, si asciuga la fronte imperlata di sudore, torna a ficcarsi sotto le coltri, prende in mano meccanicamente la sveglia che si mette a suonare. Imbambolato dalla febbre e dal sonno, soffoca il trillo mettendo la sveglia sotto le coperte. Infine si addormenta. Dissolvenza incrociata.

seq. X (inqq. 192-239)
È l’alba. Umberto non è più nella sua camera: è infatti nel corridoio, e sta parlando al telefono (sta telefonando all’ospedale). A pochi passi, Maria dorme su una branda. La voce di Umberto la sveglia repentinamente. Mentre il vecchio torna nella sua stanza, la ragazza si alza stancamente, va in cucina, accende il gas, si ferma alla finestra a guardare il cortile, si avvicina al lavandino, torna presso i fornelli, compiendo pigramente e quasi meccanicamente gli iterativi gesti quotidiani. Si osserva il ventre per verificarne il gonfiore, mentre i suoi occhi si riempiono a poco a poco di lacrime. Poi prende il macinino del caffè, si siede, comincia a macinare, si allunga sulla sedia per chiudere la porta con il piede, quando ode suonare il campanello: sono due infermieri venuti a prendere Umberto, il quale sta finendo di prepararsi e di mettere nella valigia i pochi oggetti personali necessari per il ricovero in ospedale. Dopo aver raccomandato alla ragazza di accudire il cane, Umberto se ne va sulla barella.
Parziale dissolvenza di chiusura.

seq. XI (inqq. 240-323)
Nella lunga corsia dell’ospedale dove Umberto è ricoverato, il primario visita i malati passando da letto a letto con molta rapidità. Per rimanere lì qualche giorno ancora, in modo da mettere a posto i propri guai e risparmiare i soldi della mensa economica, Umberto, pur ormai in via di guarigione, si fa persuadere dal vicino di letto a raccomandarsi alla suora, chiedendole il rosario per pregare. Tra i visitatori che irrompono nell’ampio salone c’è Maria. Umberto la saluta calorosamente (prima di correre alla finestra per vedere il cane che la donna ha lasciato nel cortile, tenuto al guinzaglio da uno dei due militari «findanzati» della ragazza), ma manifesta disappunto quando Maria lo mette al corrente delle imminenti nozze della padrona di casa con il proprietario del cinematografo, e della sempre più incombente minaccia di sfratto dall’appartamento. Alla reazione stizzosa di Umberto, Maria si allontana.
Dissolvenza incrociata.

seq. XII (inqq. 324-331)
È l’ora del pasto. La suora, in piedi in mezzo alla corsia, sta conducendo le preghiere di rito, che precedono l’inizio del pasto. Umberto, con il rosario tra le mani, continua il suo sfogo con il vicino di letto che, per ingannare la suora, ostenta una scrupolosa buona volontà, prima di cominciare a mangiare.
Dissolvenza incrociata.

seq. XIII (inqq. 332-335)
Dal portone dell’ospedale escono Umberto e il suo ex compagno di corsia. Si salutano con affabilità e amicizia (disturbati dall’arrivo di un’autoambulanza), quindi Umberto si incammina lungo il muro esterno dell’ospedale, inoltrandosi poi nel verde di un giardino pubblico, felice nella giornata piena di sole.
Dissolvenza incrociata.

seq. XIV (inqq. 336-340)
Umberto torna a casa, ma la sua camera adesso è tutta sottosopra causa i lavori dei muratori che stanno rinnovando i locali. Agitato, chiama il cane, ma questo non risponde.
Dissolvenza incrociata.

seq. XV (inqq. 341-352)
Presso le bancarelle del vicino mercato, Umberto incontra Maria (che ha le lacrime agli occhi essendo stata appena lasciata dal «fidanzato» cui ha detto di essere incinta). Neanche la ragazza però sa dove si trovi il cane che la padrona ha fatto fuggire. Il vecchio si allontana di corsa.

seq. XVI (inq. 353)
Interno taxi. Umberto, in preda ad ansia, si fa condurre al canile municipale.

seq. XVII (inqq. 354-408)
Il taxi si ferma davanti all ingresso del canile. Dopo aver acquistato (e subito gettato via) un inutile bicchiere presso una bancarella, per poter cambiare una banconota e pagare la corsa, Umberto entra nel recinto dove sono allineate le gabbie. Cerca ansiosamente il suo cane. Osserva con angoscia la stanza adibita alla soppressione degli animali. Giunge un furgoncino con i cani appena presi: tra essi c’è Flike. Umberto corre ad abbracciarlo, «come una creatura».
Dissolvenza incrociata.

seq. XVIII (inqq. 409-418)
Umberto torna col cane a casa, «pieno di voglia di farlo vedere alla padrona». La incontra sul portone con il suo prossimo marito, e le butta tra i piedi Flike. Si accende una lite. La donna gli rinfaccia di non aver pagato i debiti, Umberto risponde che li pagherà. Quindi, senza neanche salire in casa, si allontana.
Dissolvenza incrociata.

seq. XIX (inqq. 419-440)
Umberto cammina disperato per le strade. Si ferma qualche istante ad osservare un mendicante che chiede l’elemosina, poi, con un barlume di speranza, si affretta a raggiungere un vecchio collega (Battistini) che ha appena intravisto all’uscita dell’ufficio, il quale, tuttavia, finge di non capire l’implicita richiesta di aiuto che Umberto gli rivolge esponendogli la propria condizione. Battistini sale sull’autobus e si allontana. Umberto, sempre più amareggiato e solo, lo segue con lo sguardo. Quindi riprende a camminare.

seq. XX (inq. 441-475)
Giunto nella piazza del Pantheon, Umberto, ormai all’acme della disperazione, decide di abbassarsi all’umiliazione della carità, in un reticente tentativo, subito rientrato, di accattonaggio. È lì che incontra il «commendatore», il quale tuttavia sembra non accorgersi (o non fa niente per dimostrarlo) della condizione in cui versa Umberto e del suo bisogno di aiuto. Ostentando una falsa premura, il «commendatore» sale sulla corriera e si allontana, nella sera che sta calando.
Dissolvenza incrociata.

seq. XXI (inqq. 476-522)
Stanco e sfiduciato, Umberto torna a casa, incrociando per le scale gli amici della padrona dalla quale si stanno congedando. Entrato nella sua camera, adesso ancora
più in disordine, vede subito un enorme buco nel muro: il muro divisorio non esiste quasi più. Guarda in silenzio la parete martoriata, sentendo inutile ogni reazione. Neanche le attenzioni di Maria gli sono di conforto. Va alla finestra e guarda in basso, mentre sulla strada passa il tram: matura in lui l’idea del suicidio. Quindi prende la valigia e vi mette dentro le sue poche cose.
Dissolvenza incrociata.

seq. XXII (inqq. 523-545)
È l’alba. In silenzio, con la valigia e il cane, Umberto esce dall’appartamento, chiudendo la porta alle sue spalle. Lo scatto della serratura fa svegliare Maria, che balza dal letto e raggiunge il pianerottolo. Umberto, che si è fermato sulle scale, la saluta per l’ultima volta (la ragazza crede che egli abbia trovato una nuova migliore sistemazione), quindi riprende a scendere le scale.

seq. XXIII (inqq. 546-559)
Umberto esce dal portone della casa. Sale sul tram. Osserva ancora una volta, oltre i vetri, la sua finestra (dalla quale si è affacciata Maria), mentre il tram riprende la corsa. Sfilano, dai finestrini, i palazzi di una città quasi vuota e ancora addormentata. Il tram sta per fermarsi, Umberto si alza in piedi.
Dissolvenza incrociata.

seq. XXIV (inqq. 560-607)
Sceso dal tram, Umberto raggiunge una via dove c’è una pensione per cani. Vorrebbe lasciare lì Flike e dare tutto quello che ha per questo. Ma poi rinuncia e si allontana, con la valigia e il cane.
Dissolvenza incrociata.

seq. XXV (inqq. 608-684)
Umberto, abbattuto, si dirige verso i giardini pubblici. Il suo sguardo si incrocia con quello, freddo e ostile, di una signora seduta su una pachina vicina (è la stessa che egli aveva trovato nella stanza con l’amante e poi lungo le scale con il marito). Il vecchio scorge una bambina, cui vorrebbe affidare il cane (al quale è affezionata), ma il rifiuto della nurse fa svanire anche questo tentativo di sistemazione di Flike. Non potendo assicurare alla bestiola la vita, Umberto decide di farlo morire con sé, gettandosi assieme al cane sotto un treno, al vicino passaggio a livello. Ma la bestia si divincola, sguscia dalle mani che lo stringono, balza a terra, fugge, quasi avesse capito. E, come risvegliato dall’istinto di sopravvivenza di Flike, anche Umberto sembra avere rinunciato a morire. Ora vuole farsi perdonare, cerca di richiamare il cane, finché riprendono i suoi normali rapporti con la bestiola. Adesso, corrono insieme giocando con una pigna, e allontanandosi lungo il vialetto alberato, mentre in primo piano appaiono alcuni ragazzi che giocano.
In sovrimpressione appare la parola FINE.
Dissolvenza di chiusura.

Lino Micciché (a cura di), De Sica. Autore, regista, attore, Marsilio Editori, 1992, pp. 317-344

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