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Cuore di Tenebra | di Joseph Conrad [Testo italiano]

Traduzione italiana del romanzo di Joseph Conrad pubblicato nel 1902
Cuore di Tenebra di Joseph Conrad - Illustrazione

I

La Nellie ruotò sull’ancora senza far oscillare le vele, e restò immobile. La marea si era alzata, il vento era quasi caduto e, dovendo ridiscendere il fiume, non ci restava che ormeggiare aspettando il riflusso.
L’estuario del Tamigi si apriva davanti a noi, simile all’imbocco di un interminabile viale. Al largo, il cielo e il mare si univano confondendosi e, nello spazio luminoso, le vele color ruggine delle chiatte che risalivano il fiume lasciandosi trasportare dalla marea, sembravano ferme in rossi sciami di tela tesa tra il luccichio di aste verniciate. Una bruma riposava sulle sponde basse, le cui sagome fuggenti si perdevano nel mare. L’aria era cupa sopra Gravesend, e più indietro ancora sembrava addensarsi in una desolata oscurità che incombeva immobile sulla più grande, e la più illustre, città del mondo.
Il Direttore delle Compagnie era il nostro capitano e il nostro ospite. Noi quattro l’osservavamo con affetto mentre, a prua, volgendoci le spalle, guardava verso il mare. Su tutta la distesa del fiume, nulla aveva l’aria più navigata di lui. Si sarebbe detto un pilota, che per un marinaio è come dire la fiducia in persona. Era difficile credere che il suo lavoro non si svolgesse là, su quell’estuario luminoso, ma alle sue spalle, dentro quell’incombente oscurità.
Fra noi, come ho già detto da qualche parte, c’era il legame del mare. Oltre che tenere uniti i nostri cuori durante i lunghi periodi di separazione, aveva l’effetto di farci tollerare i racconti e addirittura le convinzioni gli uni degli altri. L’Avvocato, il migliore dei vecchi compagni, in ragione dei suoi numerosi anni e delle sue molte virtù, aveva diritto all’unico cuscino che ci fosse sul ponte ed era disteso sulla nostra unica coperta. Il Contabile aveva già preparato il domino e si divertiva ad architettare piccole costruzioni con le tessere d’osso. Marlow sedeva all’estrema poppa a gambe incrociate, appoggiato all’albero di mezzana. Aveva le guance incavate, la carnagione gialla, il dorso eretto, l’aspetto ascetico: con le braccia distese e il palmo delle mani aperte volto in fuori, assomigliava a un idolo. Il Direttore, soddisfatto della tenuta dell’ancora, venne a poppa e si sedette in mezzo a noi. Scambiammo qualche parola, svogliatamente. Poi ci fu silenzio a bordo dello yacht. Non ricordo per quale ragione non iniziammo la partita di domino. Eravamo in vena di meditazioni, a nient’altro disposti che a una placida contemplazione. Il giorno finiva in una serenità di calmo e squisito splendore. L’acqua scintillava pacifica; il cielo, senza macchia, era una benigna immensità di luce pura; sulle paludi dell’Essex, la foschia stessa era come una garza trasparente e radiosa che, impigliata ai pendii boscosi dell’interno, drappeggiava le sponde basse nelle sue pieghe diafane. Solo l’oscurità a ponente, che incombeva sui tratti superiori del fiume, diventava sempre più tetra, come irritata dall’avvicinarsi del sole.
E infine, nella sua caduta obliqua e impercettibile, il sole toccò l’orizzonte e dal bianco incandescente passò a un rosso opaco, senza raggi e senza calore, come stesse per spegnersi all’improvviso, colpito a morte al contatto di quella oscurità che incombeva sopra una moltitudine di uomini.
Anche sull’acqua ci fu un cambiamento repentino, e la serenità si fece meno brillante, ma più profonda. Il vecchio fiume riposava imperturbato al declinare del giorno, dopo secoli di onorato servizio reso alla razza che popolava le sue rive, disteso nella tranquilla dignità di una via che conduce ai confini più remoti della terra. Guardavamo quel venerabile corso d’acqua non nella passeggera vampata di un giorno che compare e poi scompare per sempre, ma nell’augusta luce dei ricordi duraturi. E di fatti, non c’è niente di più facile che un uomo che, come si usa dire, si è “votato al mare” con amore e riverenza, si metta a evocare il grande spirito del passato sull’estuario del Tamigi. La corrente della marea che va e che viene nel suo incessante lavorio, è popolata dal ricordo degli uomini e delle navi che ha portato verso il riposo nel nido natio o alle battaglie nell’Oceano. Li aveva conosciuti e serviti tutti, quegli uomini di cui la nazione è fiera, da Sir Francis Drake a Sir John Franklin, tutti cavalieri, con o senza investitura, i grandi cavalieri erranti del mare. Le aveva portate tutte, quelle navi dai nomi come gioielli scintillanti nella notte dei tempi, dalla Golden Hind, che rientrava in porto con i rotondi fianchi tutti pieni di tesori, per ricevere la visita di sua maestà la Regina e poi uscire dalla gloriosa leggenda, fino all’Erebus e alla Terror, partite per altre conquiste, e non più ritornate. Aveva conosciuto le navi e gli uomini, quelli partiti da Deptford, da Greenwich, da Erith, gli avventurieri e i coloni, navi di re e navi di banchieri, capitani e ammiragli, loschi “intermediari” dei traffici con l’Oriente e “generali” incaricati delle flotte delle Indie Orientali. Che cercassero l’oro o che inseguissero la gloria, tutti avevano disceso quelle acque, portando la spada e spesso la fiaccola, messaggeri della potenza di quella terra, depositari di una scintilla del fuoco sacro. Quale grandezza non aveva fluttuato sulla corrente di quel fiume verso il mistero di un mondo sconosciuto!… Sogni di uomini, semi di comunità, germi di imperi!…
Il sole tramontò. L’ombra cadde sul fiume e le luci cominciarono ad apparire lungo le sponde. Il faro di Chapman, issato come su un treppiedi sul suo banco di fango, gettava uno sfavillio intenso. Le luci delle navi si spostavano nel canale: un gran movimento di luci che si avvicinavano e si allontanavano. E più a occidente, nel tratto a monte del fiume, il luogo della città mostruosa restava sinistramente segnato nel cielo: una cappa incombente alla luce del giorno, un riflesso livido sotto le stelle.
«E anche questo», disse Marlow all’improvviso, «è stato uno dei luoghi di tenebra della terra.»
Era il solo fra noi che ancora “corresse” il mare. Il peggio che si potesse dire sul suo conto, era che rappresentava in modo atipico la sua categoria. Era un marinaio, ma era anche un vagabondo, mentre la maggior parte dei marinai conduce, se così si può dire, una vita sedentaria. La loro indole è casalinga; e la loro casa, la nave, se la portano sempre dietro, e così il loro paese, il mare. Non c’è nave che non assomigli a un’altra, e il mare è sempre lo stesso. Nell’immutabilità di ciò che le circonda, le coste straniere, le facce straniere, la mutevole immensità della vita, tutto scivola e passa, velato non dal senso del mistero, ma da un’ignoranza un po’ sdegnosa. Perché, per un marinaio, non c’è niente di misterioso al di fuori del mare, signore e padrone della sua vita, e imperscrutabile come il destino. Per il resto, gli bastano una passeggiata o una bisboccia a terra, di tanto in tanto, al termine del lavoro, per scoprire il segreto di un intero continente e per capire, di solito, che non valeva la pena di conoscerlo. I prolissi racconti dei marinai hanno una semplicità immediata e il loro significato sta tutto dentro un guscio di noce. Ma Marlow non era tipico (se non per la sua tendenza a essere prolisso); per lui il significato di un episodio non andava cercato all’interno, nel gheriglio, ma all’esterno, in ciò che, avviluppando il racconto, finiva col rivelarlo, come la luce rivela la foschia, allo stesso modo in cui l’illuminazione spettrale del chiaro di luna rende a volte visibili gli aloni nebulosi.
La sua osservazione non sorprese nessuno. Era nello stile di Marlow. Venne accolta in silenzio. Neanche un grugnito da parte nostra. E dopo un istante riprese a parlare, molto lentamente:
«Stavo pensando a quei tempi lontani, a quando i Romani vennero qui per la prima volta, millenovecento anni fa. L’altro ieri… È uscita la luce da questo fiume, da allora… I Cavalieri, dite? Già; ma è come una vampata che corre nella pianura, come un lampo fra le nuvole. Noi viviamo in quel guizzo, che possa durare finché questa vecchia terra continua a girare! Ma ieri, qui, c’erano le tenebre. Vi immaginate lo stato d’animo del capitano di una bella – com’è che si chiama? ah sì – trireme del Mediterraneo, che riceve bruscamente l’ordine di portarsi al nord, attraversare in gran fretta la terra dei Galli, prendere il comando di una di quelle imbarcazioni che i legionari – altra manica di uomini in gamba – costruivano a centinaia, in un mese o due, se si deve credere a quello che si legge. Immaginatevelo qui, in capo al mondo, un mare color del piombo, un cielo color del fumo, una nave non più rigida di una fisarmonica, a risalire questo fiume con delle provviste, degli ordini, o chissà cosa d’altro. Banchi di sabbia, paludi, foreste, selvaggi, ben poco da mangiare per un uomo civilizzato e da bere, solo l’acqua del Tamigi. Niente Falerno qui, niente scali a terra. Qua e là un campo militare sperduto nella landa selvaggia, come un ago in un pagliaio – il freddo, la nebbia, le tempeste, le malattie, l’esilio e la morte – la morte in agguato nell’aria, nell’acqua, nella boscaglia. Dovevano morire come mosche qui. Eppure lui se l’è cavata. E bene anche, indubbiamente, e senza neanche pensarci troppo, se non dopo, forse, per vantarsi di tutto quello che aveva dovuto sopportare. Sì, erano uomini quanto basta per poter guardare le tenebre in faccia. E forse lui si faceva coraggio tenendo d’occhio di tanto in tanto la possibilità di una promozione alla flotta di Ravenna, sempre che avesse buoni amici a Roma e che sopravvivesse all’orribile clima. Oppure provate a pensare a un giovane cittadino di buona famiglia con tanto di toga – troppo dedito ai dadi, forse, sapete dove portano – che arriva qui al seguito di qualche prefetto, o di un esattore delle imposte, oppure di un mercante, per rimettere in sesto la sua fortuna. Sbarcare in una palude, marciare nei boschi, e in qualche posto dell’interno sentirsi circondato da una natura selvaggia, assolutamente selvaggia – tutta quella vita misteriosa della landa selvaggia che si agita nella foresta, nella giungla, nel cuore degli uomini selvaggi. E non c’è iniziazione a questi misteri. Lui deve vivere in mezzo all’incomprensibile, che in sé è già detestabile. Che però ha anche un fascino, e che comincia a far presa sul nostro uomo. Il fascino dell’orrido, capite? Immaginate i rimpianti, sempre più grandi, il desiderio ossessivo di fuggire, il disgusto impotente, la resa, l’odio.»
Si interruppe.
«Badate», ricominciò, alzando un avambraccio, il palmo della mano in fuori, le gambe incrociate: adesso aveva la posa di un Budda in preghiera, vestito all’europea e senza fior di loto. «Badate, nessuno di noi proverebbe niente di simile. Ciò che ci salva è l’efficienza, il culto dell’efficienza. Ma su quegli uomini non si poteva fare molto affidamento. Non erano colonizzatori e la loro amministrazione non era che l’arte di spremere, nient’altro, temo. Erano dei conquistatori e per questo, non ci vuole che la forza bruta, niente di cui essere fieri quando la si ha, perché questa forza non è che un accidente che deriva dalla debolezza altrui. Mettevano le mani su tutto quello che potevano arraffare, per il solo piacere di arraffare. Si trattava propriamente di rapina a mano armata, di omicidio premeditato su vasta scala, e gli uomini ci andavano alla cieca, come fanno tutti quelli che si devono misurare con le tenebre. La conquista della terra, che sostanzialmente consiste nello strapparla a quelli che hanno la pelle diversa dalla nostra o il naso leggermente più schiacciato, non è una cosa tanto bella da vedere, quando la si guarda troppo da vicino. Quello che la riscatta è solo l’idea. Un’idea che la sostenga, non un pretesto sentimentale, ma un’idea e una fede disinteressata, qualcosa, insomma, da esaltare, da ammirare, a cui si possano offrire sacrifici.»
Si interruppe. Dei bagliori passavano sul fiume, piccoli bagliori verdi, rossi o bianchi, che si inseguivano, si raggiungevano, si congiungevano, si incrociavano per poi separarsi, lentamente o in fretta. Il traffico della grande città proseguiva senza sosta nel cuore della notte sprofondata sul fiume senza sonno. Noi guardavamo e attendevamo con pazienza: non c’era altro da fare fino alla fine della marea. Solo dopo un lungo silenzio, quando, con voce esitante, ci disse: «Suppongo che vi ricordiate di quando, per un po’ di tempo, son diventato marinaio d’acqua dolce», capimmo di essere destinati, prima che il riflusso si facesse sentire, ad ascoltare il racconto di una delle inconcludenti esperienze di Marlow.
«Non ho intenzione di affliggervi con quello che mi è capitato personalmente», incominciò, tradendo con questa osservazione l’errore comune a tanti narratori che sembrano così spesso non sapere quello che il loro uditorio preferirebbe sentire. «Però, per capire l’effetto prodotto su di me, bisogna che sappiate come sono giunto fin là, cosa ho visto, e come ho risalito quel fiume fino al luogo in cui per la prima volta ho incontrato quel poveraccio. Era il limite estremo accessibile alla navigazione: fu anche il punto culminante della mia avventura. Mi è sembrato che emanasse una specie di luce su tutte le cose intorno a me e sui miei pensieri. Era oscuro, ciononostante, e penoso, per nulla straordinario, ma neanche chiaro. No, non molto chiaro… Eppure sembrava emanare una specie di luce…
«Ero appena tornato a Londra, ve lo ricordate?, dopo anni di Oceano Indiano, Pacifico, mari della Cina – una buona dose di Oriente, sei anni o poco meno – e bighellonavo qua e là, impedendovi di lavorare e invadendo le vostre case, proprio come se avessi ricevuto dal cielo la missione di civilizzarvi. Per un po’ andò benissimo, ma ben presto cominciai ad averne abbastanza di stare a riposo. Allora mi misi a cercare una nave: penso che sulla terra non ci sia un lavoro più ingrato. Ma le navi non sapevano cosa farsene di me. E anche quel gioco finì con lo stancarmi.
«Dovete sapere che, quand’ero un ragazzino, avevo la passione per le carte geografiche. Passavo delle ore a guardare l’America del sud, o l’Africa o l’Australia, e mi perdevo in tutte le glorie dell’esplorazione. A quei tempi c’erano molti spazi vuoti sulla carta della terra, e quando ne vedevo uno dall’aria particolarmente invitante (ma ce l’hanno tutti quell’aria) ci posavo il dito sopra e dicevo: “Quando sarò grande, ci andrò.” Il Polo Nord era uno di quei luoghi, mi ricordo. Non ci sono ancora stato e non mi ci proverò certo adesso. L’incanto è finito. Altri di quei luoghi erano disseminati intorno all’Equatore, alle più diverse latitudini su tutti e due gli emisferi. In qualcuno ci sono stato, e… beh, non è di questo che voglio parlarvi. Ma ce n’era uno ancora, il più grande, il più vuoto, se così si può dire, dal quale ero particolarmente attratto.
«È vero che nel frattempo non era più uno spazio vuoto. Dalla mia infanzia, si era riempito di fiumi, di laghi, di nomi. Non era più una macchia bianca deliziosamente avvolta nel mistero, un terreno vergine su cui un ragazzo potesse fare i suoi sogni di gloria. Era diventato un luogo di tenebra. Ma là dentro c’era soprattutto un fiume, un fiume possente, che sulla carta si snodava come un gigantesco serpente, con la testa nel mare, il corpo ripiegato su un immenso territorio, la coda perduta nel cuore del continente. E mentre io guardavo la carta nella vetrina di un negozio, lui mi affascinava, come un serpente affascina un uccello, un povero stupido uccellino. Mi ricordai allora che c’era una grossa impresa, una Compagnia che commerciava su quel fiume. Diamine, mi dissi, non potranno commerciare senza usare una qualche specie di imbarcazione su tutta quella massa d’acqua dolce – i battelli a vapore! Perché non tentare di farmene affidare uno? Camminavo avanti e indietro per Fleet Street senza riuscire a scuotermi l’idea di dosso. Il serpente mi aveva incantato.
«Si trattava in realtà di un’impresa continentale, la Compagnia commerciale, ma io ho molte conoscenze nel Continente; vivono lì, perché, a sentir loro, costa poco e non è così sgradevole come sembra.
«Devo purtroppo ammettere che incominciai a scomodarle. Già questa era una novità per me. Non è mia abitudine ricorrere a questi sistemi per ottenere quello che voglio, sapete. Son sempre andato per la mia strada, e con le mie gambe, dove avevo in mente di andare. Non avrei mai creduto di esserne capace, ma, vedete, avevo proprio l’impressione che lì ci dovevo andare, a qualunque costo. Così li scomodai. Gli uomini mi dissero “Carissimo” e non fecero nulla. Allora, ci credereste?, provai con le donne. Sì, io, Charlie Marlow misi le donne all’opera per avere un lavoro. Dio santo! Ma capite, era l’idea a trascinarmi. Io avevo una zia, una tenera anima entusiasta. Mi scrisse: “Con immenso piacere. Sono pronta a fare qualsiasi cosa, proprio qualsiasi cosa per te. La tua è un’idea straordinaria. Conosco la moglie di un personaggio molto in vista nell’Amministrazione e anche un signore che ha molta voce in capitolo…”, ecc., ecc. Era decisa a smuovere mari e monti per farmi nominare capitano di un vapore fluviale, se questo era il mio desiderio.
«Naturalmente ottenni il posto, e anche rapidamente. Pare che la Compagnia fosse venuta a sapere che uno dei suoi capitani era stato ucciso in una rissa con gli indigeni. Fu questa la mia occasione, che mi rese ancor più impaziente di partire. Solo dopo molti mesi, quando cercai di recuperare ciò che restava del corpo, seppi che all’origine della questione c’era stato un malinteso per delle galline. Sì, per due galline nere! Fresleven – è così che si chiamava quell’uomo, un danese – pensando di essere stato in qualche modo imbrogliato nell’affare, scese a terra e iniziò a picchiare il capo del villaggio con un bastone. Oh, non mi sorpresi neanche un po’ quando me lo raccontarono e neanche quando, contemporaneamente, mi assicurarono che Fresleven era l’essere più mite e più pacifico che avesse mai camminato su questa terra. Era sicuramente vero, ma erano già due anni che era laggiù, al servizio della nobile causa, sapete, e probabilmente sentiva un estremo bisogno di riaffermare in qualche modo la sua dignità. Perciò bastonò il nero senza pietà, sotto gli occhi impietriti degli indigeni, finché un uomo – mi dissero che era il figlio del capo del villaggio – spinto alla disperazione dalle urla del vecchio, provò, in via sperimentale, a colpire il bianco con la lancia che, naturalmente, entrò senza difficoltà fra le due scapole. Al che l’intera popolazione se la svignò nella foresta, aspettandosi ogni genere di calamità, mentre, dal canto suo, il vapore che Fresleven comandava se la filava anche lui in preda al panico, agli ordini, credo, del macchinista. In seguito, nessuno sembrò preoccuparsi molto dei resti di Fresleven, fino al giorno in cui arrivai io a prendere il suo posto. Non potevo non seppellirlo; ma quando finalmente mi si presentò l’occasione di incontrare il mio predecessore, l’erba che gli cresceva tra le costole era abbastanza alta da nascondere le sue ossa. C’erano tutte. Dopo la sua caduta, l’essere soprannaturale non era stato toccato. E nel villaggio abbandonato, le capanne si spalancavano come bocche nere, putrescenti, tutte sghembe entro i recinti caduti. Una calamità si era davvero abbattuta su di lui. E la popolazione era svanita. Un terrore folle li aveva dispersi tutti nella boscaglia, uomini, donne, bambini, e non erano più ritornati. Anche le galline, non so che fine abbiano fatto. Immagino, però, che siano andate alla causa del progresso. In ogni modo, fu per quest’affare glorioso che io ricevetti la mia nomina, prima ancora che avessi iniziato a sperarci.
«Corsi come un matto per essere pronto in tempo e, meno di quarantott’ore dopo, attraversavo la Manica per presentarmi ai miei datori di lavoro, e firmare il contratto. In pochissime ore arrivai in quella città che mi fa sempre pensare a un sepolcro imbiancato. Un pregiudizio, certo. Non mi fu difficile trovare gli uffici della Compagnia. Era la cosa più notevole della città ed era sulla bocca di tutti quelli che incontravo. S’accingevano a gestire un impero d’oltremare e a trarne una barca di soldi con il commercio.
«Una strada stretta e deserta, sprofondata nell’ombra di alte case, piene di finestre, con le persiane chiuse, un silenzio mortale, l’erba che spuntava fra le pietre, imponenti portoni a destra e a sinistra, immense doppie porte che stavano faticosamente socchiuse. Mi infilai in una di queste fessure, salii una scala spoglia e pulita, arida come un deserto, e aprii la prima porta che trovai. Due donne, una grassa e una magra, sedute su seggiole impagliate, sferruzzavano della lana nera. La magra si alzò e venne dritta verso di me, sempre sferruzzando, con gli occhi bassi, e proprio mentre pensavo di scansarmi per lasciarle il passo, come si farebbe per un sonnambulo, lei si fermò e sollevò lo sguardo. Indossava un vestito insignificante come il fodero di un ombrello. Si voltò senza dire una parola e mi precedette in una sala d’aspetto. Dissi il mio nome e mi guardai attorno. Un tavolo di abete nel mezzo, seggiole comuni intorno alle pareti, su un lato una grande carta lucida, segnata con tutti i colori dell’arcobaleno. Una gran quantità di rosso – sempre bello da vedere, perché si sa che lì si lavora sul serio – un bel po’ di azzurro, un po’ di verde, macchie di arancione e, sulla costa orientale, una chiazza violacea, che stava a indicare il luogo in cui gli euforici pionieri del progresso bevono l’euforizzante birra bionda. Ma io non andavo né qui né lì. Io andavo nel giallo. Dritto nel centro. E il fiume era là, mortalmente affascinante, come un serpente. Ohi, ohi! Una porta s’aprì, e comparve una canuta testa da segretario, ma con un’espressione di compatimento, e il suo indice ossuto mi fece cenno di entrare nel santuario. La luce era fioca, e una massiccia scrivania ingombrava il centro della stanza. Dietro quel monumento si distingueva una pallida pinguedine in redingote. Il grand’uomo in persona. Poco più alto di un metro e sessanta, a quanto potei giudicare, teneva in pugno le fila di chissà quanti milioni. Mi strinse la mano, se non mi sbaglio, mormorò qualcosa, si dichiarò soddisfatto del mio francese. Bon voyage.
«Passati quarantacinque secondi mi ritrovai nella sala d’aspetto con il segretario compassionevole, che, afflitto e partecipe, mi fece firmare dei documenti. Credo di essermi impegnato, fra l’altro, a non rivelare segreti commerciali. Beh, non ho intenzione di farlo.
«Cominciavo a sentirmi un po’ a disagio. Sapete che non sono abituato a questo genere di cerimonie, e nell’atmosfera c’era qualcosa di sinistro. Come se mi avessero coinvolto in una cospirazione – non so – in qualcosa di non proprio onesto; ed ero contento di andarmene. Nell’anticamera, le due donne sferruzzavano febbrilmente la lana nera. Arrivava gente e la più giovane andava avanti e indietro ad accompagnarla. La vecchia restava seduta sulla sua sedia, con le ciabatte di stoffa appoggiate su uno scaldino, e un gatto che le riposava in grembo. Portava sulla testa un affare bianco, inamidato, aveva una verruca su una guancia e gli occhiali cerchiati d’argento poggiavano sulla punta del naso. Mi diede un’occhiata da sopra le lenti. La placidità sbrigativa e distaccata di quello sguardo mi turbò. A due giovanotti, che con aria allegra e spensierata stavano seguendo la loro guida, lei lanciò la stessa rapida occhiata di imperturbabile saggezza. Pareva sapesse tutto di loro e anche di me. Mi invase una sensazione inquietante. Lei mi sembrava misteriosa e fatale. Spesso, quand’ero laggiù, ripensai a quelle due – le guardiane della porta delle tenebre – che sferruzzavano la loro lana nera come per farne una calda coltre funebre, una che accompagnava, accompagnava senza tregua verso l’ignoto, l’altra che scrutava i volti allegri e spensierati con i suoi vecchi occhi impassibili. Ave! Vecchia sferruzzatrice di lana nera. Morituri te salutant. Di tutti quelli che lei guardò, non furono in molti a rivederla: molto meno della metà.
«Restava ancora la visita dal dottore. “Una semplice formalità”, mi assicurò il segretario, con l’aria di prendere immensa parte a tutte le mie pene. A questo scopo, un giovanotto, che portava il cappello inclinato sul sopracciglio sinistro, un impiegato, immagino – ci dovevano pur essere degli impiegati in quell’azienda, anche se l’edificio era altrettanto silenzioso di una casa della città dei morti – arrivò da qualche piano superiore e mi fece strada. Era sciatto e trasandato, con delle macchie di inchiostro sulle maniche della giacca, e un’ampia cravatta svolazzante sotto un mento a punta, come uno stivale vecchio. Siccome era un po’ troppo presto per il dottore, proposi di andare a bere qualcosa, il che lo fece diventare gioviale. Mentre sedevamo davanti ai nostri vermout, si mise a magnificare gli affari della Compagnia, tanto che, di lì a poco, espressi la mia sorpresa che non fosse andato laggiù. Diventò subito freddo e riservato. “Non sono così stupido come sembro, disse Platone ai suoi discepoli”, proferì in tono sentenzioso; poi vuotò il bicchiere con grande risolutezza e ci alzammo.
«Il vecchio medico mi tastò il polso pensando visibilmente ad altro. “Buono, buono per laggiù”, borbottò, e poi con una certa animazione mi chiese se gli permettevo di misurarmi la testa. Piuttosto sorpreso dissi di sì ed egli tirò fuori una specie di calibro. Prese le mie misure, davanti, di dietro, da tutte le parti, annotandole accuratamente. Era un ometto mal rasato, con un logora palandrana e, ai piedi, un paio di pantofole. Mi fece l’effetto di un matto innocuo. “Nell’interesse della scienza, chiedo sempre il permesso di misurare il cranio di quelli che vanno laggiù”, disse. “Anche quando tornano?”, domandai. “Oh”, rispose, “io non li vedo mai e poi i cambiamenti, sa, avvengono internamente.” Sorrise, come se avesse detto una spiritosaggine. “Così lei va laggiù. Ottima idea. Interessante, anche.” Mi lanciò un’occhiata indagatrice e prese un altro appunto. “Nessun caso di pazzia in famiglia?”, chiese in tono molto naturale. Mi seccai moltissimo. “Anche questa domanda è nell’interesse della scienza?” “Per la scienza”, disse, senza rilevare la mia irritazione, “sarebbe di grande interesse osservare sul posto le modificazioni mentali degli individui, ma…” “Lei è uno specialista in malattie mentali?”, lo interruppi. “Ogni medico lo dovrebbe essere, un po'”, rispose quell’originale, senza scomporsi. “Ho una piccola teoria che voi signori che andate laggiù, dovreste aiutarmi a dimostrare. Questa è la mia parte nei profitti che il mio paese mieterà dal possesso di una colonia così magnifica. La nuda ricchezza la lascio agli altri. Scusi le mie domande, ma lei è il primo inglese che ho occasione di osservare…” Mi affrettai a garantirgli che non ero affatto tipico. “Se lo fossi”, aggiunsi, “non parlerei così con lei.” “Quel che dice è senz’altro profondo, ma probabilmente errato”, disse ridendo. “Eviti ogni fonte di irritazione, più dell’esposizione al sole. Addio. Com’è che dite voi inglesi, eh? Goodbye. Allora, good-bye. Addio. Ai tropici bisogna soprattutto mantenere la calma…” Fece un cenno di ammonimento con l’indice…”Du calme, du calme. Adieu.”
«Non restava che una cosa da fare: salutare la mia ottima zia. La trovai trionfante. Mi offrì una tazza di tè – l’ultima tazza di tè decente per non so quanto tempo – in una stanza che rispondeva nel modo più lusinghiero all’idea che ci si fa del salotto di una signora. Parlammo a lungo, tranquilli, vicini al camino. Nel corso di quelle confidenze divenne evidente che ero stato descritto alla moglie dell’alto dignitario, e Dio sa a quante altre persone ancora, come un essere eccezionalmente dotato – una vera fortuna per la Compagnia – un uomo come non se ne trovano tutti i giorni. Dio santo! e io che andavo ad assumere il comando di un vaporetto da quattro soldi munito di un fischio da due. Risultava chiaro, però, che io ero anche uno dei Pionieri, con la P maiuscola, capite. Qualcosa come un portatore di luce, una specie di apostolo in formato ridotto. Proprio a quel tempo circolavano sulla stampa, e nei discorsi, un mucchio di stupidaggini di questo tipo e quella bravissima donna, che in mezzo a quelle frottole ci viveva, se ne era lasciata travolgere. Parlò di “distogliere quella massa di ignoranti dalle loro orribili usanze”, tanto che alla fine, parola d’onore, riuscì a farmi sentire molto a disagio. Provai ad accennare al fatto che la Compagnia agiva a scopo di lucro.
«”Tu dimentichi, caro Charlie, che ogni fatica merita una ricompensa”, disse lei raggiante. Straordinario che le donne siano così lontane dalla verità. Vivono in un mondo che si costruiscono loro stesse, che non c’è mai stato e non ci sarà mai. Troppo perfetto nel suo insieme e tale che, se dovessero realizzarlo, non vedrebbe neanche un tramonto, crollerebbe prima. A buttar giù tutto salterebbe fuori uno di quei maledetti fatti a cui noi uomini siamo rassegnati sin dal giorno della creazione.
«Poi mia zia mi abbracciò, mi raccomandò di portare la maglia di lana, di scrivere spesso, ecc., ecc., e me ne andai. Per strada, non so perché, ebbi la curiosa sensazione di essere un impostore. Strana cosa che io, abituato a partire per qualsiasi parte del mondo in meno di ventiquattr’ore, senza pensarci tanto quanto la maggior parte degli uomini per attraversare la strada, avessi un momento, non dirò di esitazione, ma di pausa allarmata davanti a questa impresa banale. Non saprei spiegarmi meglio se non dicendo che, per un paio di secondi, mi sentii come se, invece di partire per il centro di un continente, stessi per avventurarmi nel centro della terra.
«Mi imbarcai su un piroscafo francese, che fece scalo in ognuno di quei dannati porti che loro hanno laggiù, al solo scopo, per quanto mi fu dato di vedere, di sbarcarvi dei soldati e dei doganieri. Io osservavo la costa. Osservare una costa mentre scivola via lungo la nave, è come riflettere su un enigma. È là, davanti a voi, sorridente o accigliata, invitante, splendida o mediocre, insipida o selvaggia, e muta sempre, ma con l’aria di sussurrare: “Venite a vedere.” Quella era quasi informe, come ancora incompiuta, con un aspetto ostile e monotono. Il limitare di una giungla colossale, di un verde così scuro da sembrare quasi nero, orlato dal bianco della risacca, correva dritto, come tracciato con la riga, lontano, lontano lungo un mare azzurro il cui scintillio era offuscato da una foschia strisciante. Il sole era implacabile, la terra sembrava rorida e luccicante per il vapore. Qua e là affioravano delle macchie di un grigio biancastro raggruppate dentro la bianca risacca, con a volte una bandiera inastata: insediamenti vecchi di qualche secolo, e non più grandi di capocchie di spillo sull’intatta distesa di quell’immenso entroterra. Ci trascinavamo lentamente, ci fermavamo, sbarcavamo soldati; proseguivamo, sbarcavamo funzionari di dogana venuti a riscuotere le gabelle su quella che sembrava una landa selvaggia, dimenticata da Dio, con una baracca di latta e un’asta per la bandiera sperdute là dentro. Sbarcavamo altri soldati che, apparentemente, dovevano vegliare sui doganieri. Alcuni di loro, a quanto ho sentito dire, annegarono nella risacca; che fosse vero o no, nessuno sembrava preoccuparsene. Venivano scaraventati a terra e si ripartiva. La costa era ogni giorno la stessa, come se non ci fossimo mossi; ma toccammo diversi luoghi – luoghi commerciali – i cui nomi, come Gran Bassam o Piccolo Popo, sembravano appartenere a qualche sordida farsa recitata davanti a un sinistro scenario. La mia inoperosità di passeggero, l’isolamento in mezzo a tutti quegli uomini con cui non avevo niente in comune, il mare languido e oleoso, la tetra uniformità della costa, sembravano tenermi lontano dalla realtà delle cose, irretito da una fantasmagoria lugubre e assurda. La voce della risacca che si percepiva di tanto in tanto dava un piacere reale, come una parola fraterna. Era qualcosa di naturale, che aveva una ragione e un significato. Di tanto in tanto una barca che si staccava dalla costa creava un momentaneo contatto con la realtà. Era portata da rematori neri. Di lontano si vedeva splendere il bianco dei loro occhi. Urlavano, cantavano; i loro corpi grondavano sudore, avevano volti simili a maschere grottesche, quegli esseri; ma avevano nerbo, muscoli, una vitalità selvaggia, un’intensa energia di movimenti, naturale e autentica come la risacca lungo la loro costa. Loro non avevano bisogno di un pretesto per essere là. Provavo un gran sollievo a guardarli: era come se mi sentissi di appartenere ancora a un mondo lineare e concreto, ma era una sensazione che durava poco. Sopraggiungeva qualcosa che faceva presto a scacciarla. Un giorno, mi ricordo, ci imbattemmo in una nave da guerra ancorata al largo della costa. Non si vedeva neanche una capanna, eppure bombardava la boscaglia. Sembra che i Francesi avessero una delle loro guerre in corso da quelle parti. La bandiera nazionale penzolava flaccida come un cencio; le bocche dei lunghi cannoni da centocinquanta, spuntavano da ogni parte dello scafo basso. Il mare lungo, grasso e fangoso sollevava pigramente la nave per lasciarla poi ricadere, facendo oscillare gli alberi affilati. Nella vuota immensità del cielo, del mare e della terra, stava là, incomprensibile, a far fuoco su un continente. Bum! partiva il colpo di uno dei cannoni da centocinquanta; una piccola fiamma saettava e svaniva; una sottile fumata bianca scompariva subito, un minuscolo proiettile passava fischiando, e non accadeva nulla. Poteva accadere qualcosa? C’era un tocco di follia in quell’azione, un’impressione di macabra buffonata nello spettacolo, che non si dissolse neppure quando qualcuno a bordo mi assicurò con grande convinzione che c’era un campo di indigeni – lui li chiamava nemici! – nascosto da qualche parte.
«Consegnammo la posta (seppi che su quella nave solitaria gli uomini morivano di febbri al ritmo di tre al giorno) e ripartimmo. Facemmo scalo in altri luoghi dai nomi farseschi in cui la gaia danza della morte e del commercio procede in una atmosfera stantia che sa di terra, come quella di una catacomba surriscaldata; proseguimmo lungo la costa informe delimitata da una risacca pericolosa, quasi che la natura stessa avesse voluto respingere gli intrusi; entrando e uscendo dai fiumi, vive correnti di morte, le cui rive imputridivano nella melma, le cui acque, ispessite dal fango, invadevano le intricate mangrovie che sembravano torcersi verso di noi in un eccesso di disperazione impotente. Da nessuna parte ci fermammo abbastanza perché potessi ricavarne un’impressione particolare, ma sentivo crescere in me un sentimento diffuso di vago e opprimente stupore. Era come un pellegrinaggio estenuante attraverso immagini da incubo.
«Prima che si vedesse la foce del grande fiume, passarono più di trenta giorni. Gettammo l’ancora di fronte alla sede del governo. Ma il mio lavoro non sarebbe cominciato che a quattrocento chilometri da lì; perciò, appena fu possibile, raggiunsi una località a una cinquantina di chilometri più a monte.
«Feci il viaggio su un piccolo piroscafo. Il capitano, uno svedese, quando venne a sapere che ero un marinaio, mi invitò sul ponte di comando. Era un giovane magro, biondo e imbronciato, i capelli lisci e sottili, l’andatura strascicata e irregolare. Mentre ci allontanavamo dalla miserabile banchina, fece con la testa un cenno di disprezzo in direzione della riva. “È stato lì?”, chiese. Dissi di sì. “Bei tipi quei funzionari del governo, vero?”, continuò. Parlava inglese con molta precisione e grande amarezza. “È sorprendente quello che certa gente è disposta a fare per pochi franchi al mese. Mi domando cosa succeda a quella genia quando s’inoltra nell’interno.” Gli dissi che mi aspettavo di scoprirlo presto. “Ah-ah!”, esclamò. Si spostò di traverso strascicando i piedi, senza staccare gli occhi dalla rotta. “Non ne sia troppo sicuro”, proseguì, “l’altro giorno ho fatto salire a bordo un uomo che si è impiccato durante il viaggio. Anche lui era svedese.” “Impiccato!”, esclamai, “ma perché in nome di Dio?” Non distolse il suo sguardo vigile. “Chi lo sa! Non ha retto al sole o al paese, forse.”
«Alla fine il fiume si allargò. Apparvero un picco roccioso, dei monticelli di terra rivoltata presso la riva, delle case su una collina, altre col tetto di lamiera tra mucchi di terra di scavo, o abbarbicate sul pendio. Il rumore incessante delle rapide più a monte, planava sopra quel paesaggio di devastazione abitata. Degli uomini, generalmente neri e nudi, andavano e venivano come formiche. Un piccolo molo avanzava nel fiume. E un sole accecante annegava talvolta l’insieme in una improvvisa recrudescenza di luce. “Ecco la stazione della sua Compagnia”, disse lo svedese indicando col dito tre edifici di legno, simili a caserme, sulla salita scoscesa. “Le faccio portare su la sua roba. Quattro colli, ha detto? Benissimo. Arrivederci.”
«Mi imbattei in una caldaia che sguazzava nell’erba, poi trovai un sentiero che portava alla collina. Non procedeva in linea retta perché era ostruito da massi di pietra e anche da un vagoncino che giaceva capovolto con le ruote all’aria. Ne mancava una. La carcassa di un animale avrebbe dato la stessa impressione di morte. Mi imbattei in altri pezzi di macchine deteriorate e in una catasta di rotaie arrugginite. Alla mia sinistra un gruppo d’alberi gettava una macchia d’ombra in cui delle cose oscure sembravano muoversi debolmente. Battei le palpebre: il sentiero era ripido. Un corno risuonò alla mia destra e vidi i neri correre. Una detonazione violenta e sorda scosse il suolo, uno sbuffo di fumo uscì dalla rupe, e fu tutto. Non apparve alcun cambiamento sulla parete della roccia. Stavano costruendo una ferrovia. La rupe non intralciava affatto; ma tutto il lavoro in corso consisteva in quel brillamento di mine senza scopo.
«Un lieve tintinnio dietro di me mi fece volgere il capo. Sei neri in fila si inerpicavano su per il sentiero. Camminavano rigidi e lenti, tenendo in equilibrio sulla testa delle ceste piene di terra, e il tintinnio segnava il tempo dei loro passi. Sui loro fianchi erano annodati degli stracci neri, le cui corte estremità si agitavano dietro la schiena come delle code. Le loro costole si distinguevano una a una, le giunture delle loro membra sembravano i nodi di una corda; ciascuno aveva un collare di ferro intorno al collo e tutti erano legati a una catena i cui anelli, dondolando assieme, tintinnavano ritmicamente. Una nuova esplosione nella rupe mi richiamò improvvisamente alla memoria quella nave da guerra che avevo visto far fuoco su un continente. Era la stessa voce sinistra, ma neanche con uno sforzo di immaginazione questi uomini si potevano chiamare nemici. Qui li chiamavano criminali, e la legge oltraggiata, come le cannonate, si era abbattuta su di loro, un mistero insolubile, venuto dal mare. I magri petti ansimanti, le narici frementi, violentemente dilatate, gli occhi pietrificati, fissi sulla collina, mi passarono accanto, quasi sfiorandomi, senza uno sguardo, con quella totale, mortale indifferenza dei selvaggi infelici. Dietro quella materia prima, uno dei redenti, il prodotto delle nuove forze all’opera, veniva avanti ciondolando con aria smarrita, tenendo una carabina per la canna. Aveva indosso una giubba d’uniforme senza un bottone. Scorgendo un bianco sul sentiero, issò l’arma alla spalla con grande alacrità. Un’elementare misura di precauzione, perché da lontano non poteva riconoscermi, visto che i bianchi si assomigliano tutti. Si sentì presto rassicurato e con un’ampia smorfia da furfante, che gli scoprì i denti bianchi, strizzò l’occhio verso il suo gregge, come per associarmi all’alta missione che compiva. Dopo tutto, anch’io facevo parte della grande causa da cui derivavano queste nobili e giuste misure.
«Invece di continuare a salire, girai a sinistra e incominciai a scendere. Volevo lasciare il tempo a quella squadra incatenata di sparire dalla mia vista prima di riprendere la salita. Sapete che non sono particolarmente tenero; ho dovuto dare e parare molti colpi; difendermi e qualche volta attaccare – anche questo è un modo di difendersi – senza valutarne esattamente il costo, secondo le esigenze del genere di vita in cui mi ero andato a cacciare. Ho visto il demone della violenza e il demone della cupidigia, e quello della passione; ma, numi del cielo!, questi erano demoni in carne e ossa, forti e robusti, gli occhi iniettati di sangue, che trascinavano e dominavano degli uomini…, degli uomini, capite. In piedi sul fianco di quella collina, ebbi il presentimento che sotto il sole accecante di quel paese, avrei imparato a conoscere il demone flaccido, finto, dalla vista corta, di una follia rapace e spietata. E anche quanto potesse essere insidioso, dovevo scoprirlo solo molti mesi più tardi e a qualche migliaio di chilometri da lì. Rimasi sgomento per un attimo, come da una premonizione. Infine discesi la collina, trasversalmente, verso gli alberi che avevo visto.
«Evitai una vasta fossa artificiale che era stata scavata nel pendio, a quale scopo mi fu impossibile indovinare. Non era sicuramente una cava, né di pietra né di sabbia. Era soltanto una fossa. Forse aveva qualche nesso col desiderio filantropico di dare qualcosa da fare ai criminali. Chissà. Poi stavo quasi per cadere in una forra, poco più di una ferita sul fianco della collina. Scoprii che un mucchio di tubi di scolo, importati a uso della colonia, erano stati fatti ruzzolare là dentro. Non ce n’era uno che non fosse rotto. Puro vandalismo. Finalmente arrivai sotto gli alberi. La mia intenzione era di gironzolare all’ombra per un po’, ma non appena fui lì dentro mi parve di essere entrato in un girone dell’Inferno. Le rapide erano vicine, e un fragore ininterrotto, uniforme, irruente, precipitoso, riempiva la lugubre quiete di quel boschetto – dove non un soffio di vento alitava, non una foglia si muoveva – di un suono misterioso, come se il movimento vorticoso della terra nello spazio vi fosse subitamente divenuto percettibile.
«Delle forme nere stavano accovacciate, sdraiate o sedute fra gli alberi, appoggiate ai tronchi, incollate alla terra; per metà in risalto, per metà nascoste entro la luce incerta, in tutte le pose del dolore, dell’abbandono e della disperazione. Scoppiò una nuova mina nella rupe, seguita da un leggero fremito della terra sotto i miei piedi. Il lavoro procedeva. Il lavoro! E questo era il luogo in cui alcuni dei suoi servi si erano ritirati a morire.
«Che stessero morendo, e di morte lenta, era chiarissimo. Non erano nemici, non erano criminali, non erano niente di terreno ormai, niente se non nere ombre di malattia e di fame, che giacevano alla rinfusa nella penombra verdastra. Portati dai luoghi più nascosti della costa, con tutta la legalità dei contratti a termine, perduti in un ambiente non congeniale, nutriti con cibo non familiare, si ammalavano, diventavano inservibili, e allora gli si concedeva di trascinarsi là, a riposare. Queste forme moribonde erano libere come l’aria e altrettanto leggere. Incominciai a distinguere il bagliore degli occhi sotto gli alberi. Poi, abbassando lo sguardo, vidi una faccia vicino alla mia mano. La nera ossatura era distesa in tutta la sua lunghezza, la spalla contro l’albero. Con lentezza, le palpebre si sollevarono; gli occhi incavati mi guardarono, enormi e vuoti; nella profondità delle orbite ci fu una specie di scintilla bianca, cieca, che si spense lentamente. L’uomo sembrava giovane, quasi un ragazzo, ma, sapete, con loro non si può mai dire. Non trovai niente di meglio da fare che dargli una di quelle gallette che avevo in tasca, prese dalla nave del mio buon svedese. Le dita si richiusero lentamente e la trattennero, senza nessun altro movimento né un altro sguardo. Si era legato un filo bianco, di lana o di cotone, attorno al collo. Perché? Dove l’aveva trovato? Era un distintivo, un ornamento, un amuleto, un atto propiziatorio? C’era connessa una qualche idea? Era sorprendente, attorno al suo collo nero, quel pezzetto di filo bianco venuto d’oltremare.
«Presso lo stesso albero altri due fagotti ad angoli acuti erano seduti con le gambe ripiegate contro il corpo. Uno dei due, il mento puntellato alle ginocchia, guardava nel vuoto, in modo intollerabile, spaventoso; suo fratello fantasma si sosteneva la fronte, come se fosse schiacciato da una grande spossatezza; e tutt’intorno altri ancora erano dispersi nelle più varie e contorte pose di prostrazione e abbandono, come nei quadri di massacri o di peste. Mentre io restavo immobile, paralizzato dall’orrore, una di quelle creature si sollevò sulle mani e sulle ginocchia, e si diresse carponi verso il fiume per bere. Sorbì l’acqua dal cavo della mano, poi si sedette al sole, incrociando gli stinchi davanti a sé, e dopo poco lasciò cadere la testa lanosa sul petto.
«Mi era passata la voglia di passeggiare all’ombra, e ripresi in fretta il cammino verso la stazione. Vicino agli edifici incontrai un bianco, di un’eleganza così inaspettata che al primo momento lo presi per una visione. Vidi un alto colletto inamidato, polsini bianchi, una leggera giacca di alpaca, pantaloni candidi, una cravatta chiara e stivaletti di vernice. Senza cappello. I capelli divisi dalla riga, ben spazzolati, impomatati, sotto un parasole bordato di verde, sorretto da una grossa mano bianca. Era stupefacente, e dietro l’orecchio aveva un penna.
«Strinsi la mano a quel miracolo, e venni a sapere che era il capo contabile della Compagnia, e che tutta la contabilità si teneva in quella stazione. Era uscito un momento, disse, “a prendere una boccata d’aria fresca.” L’espressione mi parve singolarmente sorprendente, perché lasciava intravvedere una vita sedentaria in un ufficio. Non vi avrei nemmeno parlato di costui, ma è dalle sue labbra che per la prima volta è uscito il nome di quell’uomo che è indissolubilmente legato ai ricordi di quel periodo. E in più sentivo del rispetto per quel tale. Sì, del rispetto per i suoi colletti, i suoi ampi polsini, i suoi capelli ben pettinati. Il suo aspetto non era diverso da quello di un manichino, ma nel generale sfacelo di quella terra, lui rispettava le apparenze. Questo significa avere spina dorsale. I suoi colletti inamidati, i rigidi sparati erano prove di carattere. Era lì da quasi tre anni e, più tardi, non potei fare a meno di chiedergli come riuscisse a far sfoggio di una simile biancheria. Arrossì impercettibilmente e con modestia disse: “Ho istruito una delle indigene della stazione. È stato molto difficile. Aveva un’avversione per il lavoro.” Così quell’uomo aveva realmente realizzato qualcosa. E si dedicava anche ai suoi libri, che erano tenuti in modo esemplare.
«Nella stazione tutto il resto era solo confusione: nelle teste, nelle cose, negli edifici. File di neri impolverati e con i piedi piatti che arrivavano e ripartivano; un profluvio di manufatti, tessuti di cotone di scarto, perline e grani di vetro, filo di ottone, spedito nel cuore delle tenebre, da dove, in cambio, sgorgava un prezioso rivolo d’avorio.
«Dovetti aspettare dieci giorni in quella stazione: un’eternità. Alloggiavo in una capanna nel cortile, ma per sfuggire al caos, qualche volta, andavo a rifugiarmi dal contabile. Il suo ufficio era costruito con assi orizzontali, così sconnesse che, stando chino sul suo alto scrittoio, era zebrato dalla testa ai piedi da sottili strisce di sole. Non c’era bisogno di aprire la grande imposta per vederci. E che caldo là dentro! Delle grosse mosche facevano un ronzio infernale e non pungevano: trafiggevano. Generalmente mi sedevo per terra, mentre lui, appollaiato su un alto sgabello, impeccabile (e anche leggermente profumato), scriveva e scriveva. Ogni tanto si alzava per sgranchirsi. Quando portarono lì dentro una branda con un ammalato – un agente dell’interno che veniva rimpatriato – manifestò, educatamente, una certa insofferenza. “I gemiti del malato”, disse, “potrebbero distrarre la mia attenzione. E senza attenzione, con questo clima, è già molto difficile evitare gli errori materiali.”
«Un giorno, senza alzare il capo, osservò: “Nell’interno incontrerà certamente il signor Kurtz.” Siccome gli chiesi chi era il signor Kurtz disse che era un agente di prima classe e, percependo la mia delusione alla sua risposta, aggiunse lentamente, posando la penna: “È una persona veramente notevole.” Incalzato da altre domande, aggiunse che il signor Kurtz attualmente dirigeva un posto commerciale, un posto importantissimo, nel vero paese dell’avorio, “al limite estremo. Ci manda più avorio lui di tutti gli altri messi insieme…” Ricominciò a scrivere. Il malato stava troppo male per lamentarsi. Le mosche ronzavano in una gran quiete.
«All’improvviso si udì un crescente mormorio di voci e un forte scalpitio di piedi. Era arrivata una carovana. Un violento cicaleccio di suoni rozzi e sconosciuti scoppiò dall’altra parte delle assi. I portatori parlavano tutti assieme, e in mezzo al clamore si udì la voce lamentosa dell’agente capo che, per l’ennesima volta nella giornata, dichiarava in tono piagnucoloso che lui “ci rinunciava, non ce la faceva più”… Il contabile si alzò lentamente. “Che chiasso spaventoso”, esclamò. Attraversò piano la stanza, diede un’occhiata al malato, e tornando verso di me, disse: “Lui non sente.” “Come! È morto?”, chiesi trasalendo. “No, non ancora”, rispose tranquillamente. Poi, alludendo con un cenno del capo al tumulto nel cortile: “Quando si è tenuti a riportare i numeri in modo corretto, si finisce con odiare questi selvaggi, odiarli a morte.” Rimase un attimo soprappensiero. “Quando vedrà il signor Kurtz”, continuò, “gli dica da parte mia che qui” – lanciò un’occhiata al suo scrittoio – “va tutto benissimo. Non mi piace scrivergli. Con i messaggeri che abbiamo, non si sa in che mani potrebbe finire una lettera, in quella Stazione Centrale.” Mi fissò per un istante coi suoi placidi occhi sporgenti. “Oh, andrà lontano, molto lontano”, riprese. “In poco tempo diventerà qualcuno nell’Amministrazione. Loro, quelli del Consiglio lassù, in Europa, capisce, hanno questo in mente.”
«Si rimise al lavoro. All’esterno, il rumore era cessato. Prima di varcare la soglia per uscire, mi fermai. Nell’incessante ronzio delle mosche, l’agente malato in attesa del rimpatrio giaceva inerte e congestionato; l’altro, chino sui suoi libri, riportava correttamente le voci relative a transazioni perfettamente corrette; e a una quindicina di metri più in basso del gradino della porta si ergevano immobili le cime del boschetto della morte.
«Il giorno seguente, lasciai finalmente la stazione, con una carovana di sessanta uomini, per una marcia di trecento chilometri.
«Inutile che vi racconti tutti i dettagli. Piste, piste dappertutto; una rete di piste battute che si stendeva su un paese vuoto, attraverso l’erba alta, l’erba bruciata, i rovi, su e giù per fredde gole, giù e su per petrose colline arroventate; e solitudine, solitudine: nessuno, neanche una capanna. La popolazione se n’era andata da tanto tempo. Che volete, se una banda di neri misteriosi, muniti di ogni specie di armi spaventose, si mettesse tutt’a un tratto a percorrere la strada che da Deal porta a Gravesend, acciuffando i contadini a destra e a manca per caricarli di pesi enormi, credo che le fattorie e le cascine di quei paraggi si vuoterebbero tutte in un baleno. Solo che laggiù erano sparite anche le case. Però attraversai anche dei villaggi abbandonati. C’è qualcosa di pateticamente infantile nei muri d’erba in rovina. Giorno dopo giorno, con dietro il calpestio e lo strascicamento di sessanta paia di piedi nudi, ciascun paio sotto un peso di una trentina di chili. Accamparsi, cucinare, dormire, levare il campo, marciare. Ogni tanto un portatore morto sotto il peso, steso tra l’erba alta presso la pista, con accanto la sua zucca per l’acqua, vuota, e il suo lungo bastone. Un gran silenzio attorno e sopra di noi; tutt’al più, in certe notti tranquille, il tremolio di tamburi lontani, un tremolio fievole e vasto, che s’attutiva e si gonfiava; un suono misterioso, supplichevole, suggestivo, e selvaggio, il cui significato forse era altrettanto profondo del suono delle campane in terra cristiana. Un giorno, un bianco, l’uniforme sbottonata, accampato sulla pista, con una scorta armata di allampanati zanzibaresi, molto ospitale e allegro, per non dire ubriaco. Badava alla manutenzione della strada, dichiarò. Non posso dire di aver visto né strada né manutenzione, a meno di non dover considerare una perenne miglioria il corpo di un nero di mezza età, con un foro di pallottola in fronte, nel quale sono letteralmente inciampato a un cinque chilometri da lì. Avevo anche un compagno bianco, non un cattivo soggetto, ma troppo in carne, e con l’esasperante abitudine di svenire sui pendii infuocati, a chilometri di distanza dalla minima traccia d’ombra e di acqua. Snervante, credetemi, tenere la propria giacca a mo’ di parasole sopra la testa di un uomo aspettando che rinvenga. Non potei trattenermi dal chiedergli, una volta, cosa fosse venuto a fare in quel paese. “Che domanda! A far soldi”, rispose un po’ sdegnato. Poi si ammalò e bisognò portarlo dentro a un’amaca sospesa a un palo. Siccome pesava più di un quintale, fu una brutta gatta da pelare con i portatori. Si tiravano indietro, prendevano il largo, scappavano di notte furtivamente col loro carico: un vero ammutinamento. Allora una sera tenni un discorso in inglese, accompagnandomi con gesti di cui neanche uno sfuggì alle sessanta paia d’occhi che mi stavano di fronte; il mattino seguente feci partire l’amaca in testa, in perfetta regola. Un’ora dopo trovai che tutto era naufragato dentro a un cespuglio: l’uomo, l’amaca, i gemiti, le coperte, l’orrore. Il pesante palo aveva scorticato il suo povero naso e lui voleva a tutti i costi che io ammazzassi qualcuno, ma non c’era neanche l’ombra di un portatore nelle vicinanze. Mi ricordai del vecchio dottore: “Per la scienza sarebbe di grande interesse osservare sul posto le modificazioni mentali degli individui.” Sentii che cominciavo a diventare scientificamente interessante. Comunque tutto questo non ha importanza. Il quindicesimo giorno mi ritrovai in vista del grande fiume ed entrai, zoppicando, nella Stazione Centrale. Si trovava in una insenatura d’acqua stagnante, circondata dalla sterpaglia e dalla foresta, con un bel margine di fango puzzolente da un lato, e recinta sugli altri tre da una cadente staccionata di giunchi. Un varco informe era l’unica via d’accesso, e bastava un’occhiata per capire che lì il demone flaccido regnava sovrano. Degli uomini bianchi, con dei lunghi bastoni in mano, fecero una languida apparizione fra gli edifici, si avvicinarono, ciondolanti, per guardarmi, e poi scomparvero non so dove. Uno di loro, un tipo robusto e frenetico, con i baffi neri, appena saputo chi ero, mi informò con abbondanza di particolari e molte digressioni che il mio battello giaceva in fondo al fiume. Rimasi fulminato. Cos’era successo, come, perché? Oh, “niente di grave”. Il “direttore in persona” aveva assistito. Si era svolto tutto regolarmente. “E tutti si erano comportati magnificamente, magnificamente!” “Lei deve andare subito”, proseguì agitatissimo, “dal direttore generale. La sta aspettando.”
«Non afferrai subito il significato di quel naufragio. Credo di capirlo adesso, ma non ne sono affatto sicuro. Quel che è certo è che la storia era troppo stupida, a pensarci bene, per essere del tutto naturale. Ma d’altra parte… comunque sia, in quel momento mi si presentò semplicemente come una maledetta seccatura. Il battello era affondato. Erano partiti due giorni prima, presi da una fretta improvvisa, per risalire il fiume, con il direttore a bordo e la guida improvvisata di un capitano che si era offerto volontario. Non erano ancora trascorse tre ore che già avevano lacerato lo scafo sulle rocce ed erano andati ad affondare presso la riva sud. Mi chiesi cosa ci restavo a fare là, adesso che la mia barca era perduta. In effetti, ebbi molto da fare per ripescare dal fiume la mia posizione di comandante. Dovetti mettermici subito, dal giorno successivo. Quell’operazione e le riparazioni, una volta portati i pezzi alla stazione, mi presero alcuni mesi.
«Il mio primo colloquio con il direttore fu bizzarro. Malgrado quella mattina avessi trenta chilometri nelle gambe, non mi offrì neanche una sedia. Era un uomo ordinario nell’aspetto, nei lineamenti, nei modi, anche nella voce. Di statura media e costituzione normale. Gli occhi, di un azzurro comune, erano freddi, forse in maniera singolare, e certamente sapeva far cadere su di voi uno sguardo tagliente e pesante come un’accetta. Ma anche in quei momenti il resto della sua persona sembrava smentirne l’intenzione. Altrimenti c’era solo un’indefinibile, sfuggente espressione nelle sue labbra, qualcosa di furtivo – un sorriso? no, non un sorriso – me lo ricordo, ma non so spiegarlo. Era inconscio, quel sorriso, anche se, subito dopo aver detto qualcosa, si accentuava per un momento. Giungeva alla fine dei suoi discorsi come un sigillo posto sulle parole, per rendere enigmatico il significato della frase più banale. Era un comune commerciante, impiegato in quei paraggi fin dalla giovinezza: niente di più. Si faceva ubbidire, anche se non ispirava né amore né paura, nemmeno rispetto. Suscitava disagio. Ecco! Disagio. Non una diffidenza vera e propria – solo disagio – niente di più. Non avete idea di quanto efficace tale… tale… facoltà possa essere. Non aveva nessuno spirito di iniziativa, nessuna attitudine per l’organizzazione, neanche per la disciplina. Il che risultava evidente, per esempio, dallo stato deplorevole in cui giaceva la stazione. Non aveva cultura, né intelligenza. Occupava quella posizione… perché? Forse perché non si era mai ammalato… Erano già tre periodi di tre anni che era in servizio laggiù… Perché nella generale disfatta delle costituzioni, una salute trionfante è di per sé una forza. Quando tornava a casa, in licenza, gozzovigliava su grande scala, fastosamente. Il marinaio a terra…, con qualche differenza solo apparente. Lo si indovinava da quello che lasciava cadere nella conversazione. Da lui non nasceva nulla, sapeva far andare avanti l’ordinaria amministrazione, tutto qui. Però era grande. Era grande per la semplice ragione che era impossibile capire che cosa facesse presa su quell’uomo. Non svelò mai il suo segreto. Forse non c’era niente dentro di lui. Ma un tal sospetto dava da pensare, perché laggiù non esistevano controlli esterni. Una volta, quando quasi tutti gli ‘agenti’ della stazione erano stati colpiti dalle varie malattie tropicali, lo si intese dire: “Gli uomini che vengono qui non dovrebbero avere visceri.” Sigillò la dichiarazione con quel suo sorriso, come se avesse socchiuso la porta della tenebra di cui lui aveva la custodia. Vi sembrava di aver visto qualcosa, ma il sigillo era già stato messo. Infastidito dalle continue discussioni sorte fra i bianchi per questioni di precedenza durante l’ora dei pasti, un giorno fece costruire un’immensa tavola rotonda, per la quale fu fabbricato un apposito edificio, che poi divenne la mensa della stazione. Dove si sedeva lui, era il posto d’onore, il resto non esisteva. Si capiva che di questo era assolutamente convinto. Non era né cortese né scortese. Stava zitto. Permetteva che il suo ‘servitore’, un giovane nero della costa, supernutrito, trattasse i bianchi, anche sotto i suoi occhi, con provocante arroganza.
«Incominciò a parlare non appena mi vide. Avevo impiegato molto ad arrivare. Non aveva più potuto aspettarmi. Aveva dovuto andarsene senza di me. Doveva soccorrere le stazioni a monte del fiume. C’erano stati già così tanti rinvii che non sapeva chi era vivo e chi era morto, né come se la cavavano, ecc., ecc. Non prestò alcuna attenzione alle mie spiegazioni e, giocando con un bastoncino di ceralacca, ripeté parecchie volte che la situazione era “molto grave, gravissima”. Correvano voci che un’importantissima stazione fosse in pericolo, e chi ne aveva il comando, il signor Kurtz, fosse ammalato. Sperava che non fosse vero. Il signor Kurtz era… Mi sentivo stanco e irritabile. Kurtz… che vada al diavolo!, pensai. Lo interruppi per dire che avevo sentito parlare del signor Kurtz sulla costa. “Ah! Così parlano di lui laggiù”, mormorò fra sé. Poi ricominciò per dirmi che il signor Kurtz era il suo miglior agente, un uomo eccezionale, della massima importanza per la Compagnia; potevo quindi capire la sua ansia. Era, disse, “molto, molto inquieto”. Di fatti continuava ad agitarsi sulla sedia e all’improvviso, mentre esclamava “Ah, il signor Kurtz!”, il bastoncino di ceralacca gli si spezzò in mano e lui ammutolì stupito. Dopo di che volle sapere “quanto tempo avrei impiegato per…” Lo interruppi di nuovo. Con la fame che avevo, capite, costretto anche a stare in piedi, stavo diventando rabbioso. “Come faccio a saperlo?”, dissi. “Non ho ancora visto il relitto; qualche mese, senza dubbio.” Tutte quelle chiacchiere mi sembravano talmente inutili. “Qualche mese”, ripeté. “Beh, diciamo tre mesi, prima che sia possibile ripartire. Sì. Dovrebbero bastare per la faccenda.” Mi precipitai fuori dalla capanna (viveva da solo in una capanna d’argilla con una specie di veranda) borbottando fra i denti l’opinione che mi ero fatta di lui. Era un idiota d’un chiacchierone. In seguito dovetti ricredermi, quando fui colpito dall’estrema precisione con cui aveva valutato il tempo necessario per quella ‘faccenda’.
«Il giorno dopo mi misi al lavoro, voltando, per così dire, le spalle alla stazione. Solo in quel modo, mi sembrava, potevo mantenere un contatto con le realtà redentrici della vita. Di tanto in tanto, però, bisogna pur guardarsi intorno, e allora vedevo la stazione con quegli uomini che girovagavano senza meta nel sole del cortile. E qualche volta mi chiedevo che senso avesse tutto ciò. Vagavano di qua e di là con in mano i loro assurdi lunghi bastoni, come un gruppo di pellegrini senza fede, stregati dentro un recinto putrescente. La parola ‘avorio’ risuonava nell’aria, sussurrata, sospirata. Si sarebbe detto che le rivolgessero delle preghiere. Aleggiava lì sopra un odore infetto di rapacità imbecille, come il fetore di un cadavere. Per Giove! Non ho mai visto niente di tanto irreale nella mia vita. E intorno, la silenziosa landa selvaggia che circondava quel pezzetto diboscato di terra, mi colpiva come qualcosa di grande e d’invincibile, come il male o la verità, in paziente attesa della fine di quella fantastica invasione.
«Ah, quei mesi! Ma lasciamo perdere. Accaddero varie cose. Una sera una capanna d’erba, piena di calicò, di cotoni stampati, di conterie e non so cos’altro, prese fuoco così improvvisamente da far pensare che un fuoco vendicatore fosse sgorgato dalla terra aperta per distruggere tutta quella paccottiglia. Io fumavo tranquillamente la pipa vicino al mio battello in disarmo, e li vedevo da lontano far le capriole fra i bagliori, con le braccia in aria, quando, a rotta di collo, arrivò al fiume l’uomo robusto dai baffi neri, con un secchio di latta in mano. Dopo avermi assicurato che “tutti si comportavano magnificamente, magnificamente”, attinse un paio di litri d’acqua e ripartì correndo. Notai che nel fondo del secchio c’era un buco.
«Andai lì con calma. Non c’era fretta, capite: quella cosa aveva preso fuoco come una scatola di fiammiferi. Fin dal primo momento non c’era stato niente da fare. La fiamma era balzata altissima, respingendo tutti, illuminando tutto, e poi si era abbassata. La capanna non era che un ammasso di braci ardenti. Non lontano da lì, stavano bastonando un nero. Dicevano che in un modo o nell’altro, era stato lui a provocare l’incendio; fosse vero o no, urlava come un ossesso. Poi, per parecchi giorni, lo vidi seduto in un angolo all’ombra, con un’aria molto sofferente, mentre stava cercando di riprendersi; finalmente si alzò e se ne andò, e la silenziosa landa selvaggia se lo riprese in grembo.
«Mentre mi avvicinavo al bagliore provenendo dall’oscurità, mi trovai alle spalle di due uomini che stavano discorrendo. Sentii pronunciare il nome di Kurtz, poi le parole, “approfittare di questo incidente disgraziato”. Uno dei due era il direttore. Gli augurai la buona sera. “Ha mai visto una cosa simile, eh? È incredibile”, disse e si allontanò. L’altro rimase. Era un agente di prima classe, giovane, distinto, un po’ riservato, con una barbetta a due punte e il naso adunco. Teneva a distanza gli altri agenti che, da parte loro, dicevano che lui era la spia del direttore. Prima di allora non gli avevo quasi mai rivolto la parola. Ci mettemmo a conversare e, poco a poco, ci allontanammo dalle rovine sfrigolanti. Mi invitò allora nella sua stanza, che era nell’edificio principale della stazione. Accese un fiammifero, e notai che quel giovane aristocratico non solo possedeva un necessaire da toeletta con la montatura d’argento, ma anche una candela tutta per sé. A quel tempo era previsto che solo il direttore avesse diritto alle candele. Le pareti di argilla erano coperte da stuoie indigene: vi era appesa, come un trofeo, una collezione di lance, zagaglie, scudi, coltelli. L’incarico affidato a questo tale, mi era stato detto, era di fabbricare mattoni; ma nella stazione non c’era traccia di mattoni, neanche un frammento, ed era già più di un anno che era lì: ad aspettare. A quanto pare, per fare i mattoni, gli mancava qualcosa, non so cosa esattamente, della paglia, forse. In ogni modo lì non la si poteva trovare, e siccome era improbabile che la spedissero dall’Europa, non mi era chiaro che cosa stesse aspettando. Un atto di creazione spontanea, forse. Comunque tutti, tutti quei sedici o venti pellegrini che erano, stavano aspettando qualcosa e, parola mia, non sembrava un’occupazione che non gli andasse a genio, dal modo in cui la prendevano. Però, a quanto mi fu dato di vedere, la malattia fu l’unica cosa che mai gli sia arrivata. Ammazzavano il tempo sparlando e tramando gli uni contro gli altri nella maniera più insensata. Sulla stazione soffiava un’aria di complotto, che naturalmente non approdava a niente. Era irreale come tutto il resto: il pretesto filantropico dell’impresa, i loro discorsi, la loro amministrazione, l’esibizione del lavoro. L’unico sentimento autentico era il desiderio di venire assegnati a un centro in cui passasse l’avorio, per poter guadagnare delle buone percentuali. È solo per questo che complottavano, si calunniavano e si odiavano, ma quanto ad alzare effettivamente un dito, ah, no. Sant’Iddio! Non è poi così irragionevole che a un uomo il mondo lasci rubare un cavallo, mentre a un altro non permetta neanche di guardare la cavezza. Rubare un cavallo con decisione. Benissimo. L’ha fatto. Forse è anche capace di cavalcare. Ma c’è un modo di guardare la cavezza che farebbe menar le mani anche a un santo.
«Non mi sapevo spiegare la sua improvvisa socievolezza ma, mentre chiacchieravamo là dentro, mi resi conto tutt’a un tratto che quel tale stava mirando a qualche cosa, cercava, infatti, di farmi parlare. Faceva continue allusioni all’Europa, alle persone che si immaginava io conoscessi lì, ponendomi delle domande tendenziose sulle mie relazioni nella città sepolcrale e così di seguito. I suoi occhietti brillavano di curiosità come dischi di mica, benché cercasse di mantenere un’apparenza di distaccata alterigia. In principio ero stupefatto, ma presto divenni curiosissimo di scoprire cosa volesse tirarmi fuori. Non riuscivo proprio a immaginare che cosa ci potesse essere in me da meritare tutta quella fatica. Era un piacere vedere quanto si ingannasse, perché in realtà in corpo non avevo che brividi e in testa nient’altro se non quella disgraziatissima storia del battello. Era evidente che mi considerava uno spudorato mistificatore. Alla fine perse la pazienza e per nascondere un moto di esasperazione furiosa, sbadigliò. Mi alzai. Notai allora un piccolo schizzo a olio, su tavola, che rappresentava una donna con la veste drappeggiata, gli occhi bendati, e una fiaccola accesa in mano. Lo sfondo era tetro, quasi nero. Il movimento della donna era statuario e l’effetto della fiaccola, sul viso, era sinistro.
«Mi ero fermato davanti al quadro e lui era rimasto vicino a me, educatamente, reggendo una mezza bottiglia di champagne vuota (forse un ricostituente), con la candela incastrata dentro. Alla mia domanda rispose che era stato il signor Kurtz a dipingerlo – proprio in quella stazione, più di un anno prima – mentre aspettava il mezzo per raggiungere il suo posto commerciale. “Se non le dispiace”, chiesi, “mi può dire chi è questo signor Kurtz?”
«”Il capo della Stazione Interna”, rispose secco, con lo sguardo altrove. “Grazie tante”, dissi ridendo. “E lei è il mattonaio della Stazione Centrale. Questo lo sanno tutti.” Stette zitto per un po’. “È un prodigio”, disse alla fine. “È l’emissario della pietà, della scienza, del progresso e il diavolo sa di quante altre cose.” E improvvisamente incominciò a declamare: “Per dirigere a buon fine la causa che ci è stata affidata, per così dire, dall’Europa, noi abbiamo bisogno di intelligenze superiori, di vaste simpatie, di unità di intenti.” “Chi è che lo dice?” chiesi. “Sono in molti a dirlo”, rispose. “Ci sono anche quelli che lo scrivono; ed ecco che arriva lui, un essere eccezionale, come lei dovrebbe sapere.” “Perché lo dovrei sapere?”, intervenni sorpresissimo, ma non mi badò. “Sì. Oggi è a capo della stazione più importante, il prossimo anno sarà vicedirettore, fra due anni sarà… ma immagino che lei sappia cosa sarà fra due anni. Non fa parte anche lei della nuova congrega, la congrega della virtù? Le persone che l’hanno mandato qui in missione speciale, sono le stesse che hanno raccomandato lei. Oh, non dica di no. Io mi fido dei miei occhi.” Finalmente avevo capito: le conoscenze influenti della mia cara zia stavano sortendo un effetto inaspettato su quel giovanotto. Per poco non scoppiai a ridere. “Lei legge la corrispondenza riservata della Compagnia?”, chiesi. Non aprì bocca. Era proprio buffo. “Quando il signor Kurtz sarà Direttore Generale”, continuai in tono severo, “lei non potrà più permetterselo.”
«Spense improvvisamente la candela, e uscimmo. Era sorta la luna. Delle ombre nere si aggiravano apatiche, versando l’acqua sulle braci da cui proveniva un suono sibilante. Il vapore saliva nel chiaro di luna, il nero picchiato gemeva da qualche parte. “Che baccano fa quell’animale!”, disse l’infaticabile uomo con i baffi comparendo tutt’a un tratto. “Gli sta bene. Trasgressione: punizione… Bang! Senza pietà, senza pietà. È l’unico modo, e questo impedirà ogni incendio in futuro. Stavo appunto dicendo al direttore…” Riconoscendo il mio compagno, abbassò immediatamente la cresta. “Non ancora a letto”, disse con una specie di servile cordialità. “È naturale d’altronde… il pericolo, l’agitazione.” Si eclissò. Proseguii in direzione del fiume con l’altro dietro. Gli udii mormorare con disprezzo: “Massa di idioti, andate all’inferno.” Si vedevano qua e là gruppi di pellegrini che gesticolavano, discutevano, parecchi con il bastone ancora in mano. Credo proprio che se lo portassero a letto, quell’arnese. Oltre la staccionata la foresta si ergeva spettrale al chiaro di luna, e attraverso il fermento indistinto, attraverso i flebili suoni di quel cortile tristo, il silenzio della terra si faceva strada fin dentro al cuore, col suo mistero, la sua grandezza, la sorprendente realtà della sua vita nascosta. Il nero bastonato si lamentava debolmente da qualche parte vicino a noi, e poi trasse un sospiro profondo che mi fece affrettare il passo per allontanarmi da lì. Sentii una mano infilarsi sotto al braccio. “Mio caro signore”, disse, “non voglio essere frainteso, e tanto meno da lei, che incontrerà il signor Kurtz molto prima che io abbia questo piacere. Non vorrei che si facesse un’idea sbagliata delle mie intenzioni…”
«Lasciai che proseguisse, quel Mefistofele di cartapesta. Mi sembrava che se ci avessi provato, sarei riuscito a passarlo da parte a parte con un dito e che dentro non avrei trovato niente, forse solo un po’ di sporcizia sparsa. Quel tale, vedete, aveva progettato di diventare di lì a poco il vice dell’attuale direttore, ed era chiaro che la venuta di quel Kurtz aveva disturbato non poco i piani di entrambi. Parlava con precipitazione e non cercai di fermarlo. Tenevo le spalle appoggiate al relitto del mio battello, issato a riva sul pendio della sponda come la carcassa di un grosso animale fluviale. L’odore del fango, del fango primordiale, per Giove, riempiva le mie narici; la vasta immobilità della foresta vergine era davanti ai miei occhi; c’erano macchie luccicanti sull’acqua nera dell’insenatura. La luna aveva steso su ogni cosa un sottile strato d’argento: sull’erba folta, sul fango, sulla muraglia di vegetazione intricata che si ergeva più alta delle mura di un tempio, sul grande fiume che, attraverso una breccia scura, vedevo scintillare, scintillare, mentre scorreva nel suo ampio letto senza un mormorio. Tutto era imponente, vigile, silenzioso, mentre quell’uomo si diffondeva in chiacchiere su di sé. E io mi domandavo se quella quiete sul volto dell’immensità che ci guardava fosse una supplica o una minaccia. Che cos’eravamo noi che eravamo andati a sperderci laggiù? Potevamo dominare quella cosa muta o ci avrebbe dominato lei? Sentivo la grandezza, la smisurata grandezza di quella cosa che non poteva parlare, e forse nemmeno udire. Che cosa conteneva? Vedevo uscirne un po’ di avorio, e avevo sentito dire che lì dentro c’era il signor Kurtz. Dio sa se me l’ero sentito dire! Eppure non riuscivo a immaginarmelo, non più che se mi avessero detto che lì dentro c’era un angelo o un demonio. Ci credevo come qualcuno di voi potrebbe credere che Marte è abitato. Una volta ho conosciuto un velaio scozzese che era sicuro, anzi sicurissimo, che su Marte ci fossero degli uomini. Se gli si chiedeva che aspetto avessero o come si comportassero, diventava elusivo e mormorava qualcosa tipo “camminano a quattro zampe”. Ma se si osava anche solo sorridere, vi proponeva subito, benché fosse un uomo di sessant’anni, di fare a pugni. Non sarei arrivato al punto di fare a pugni per Kurtz, ma per lui sono andato molto vicino alla menzogna. Voi sapete che io odio, detesto, non tollero la menzogna; non perché io sia più retto degli altri, ma solo perché mi sgomenta. Nella menzogna c’è un odore di morte, di corruzione della carne, che mi ricorda ciò che mi fa più orrore al mondo e che cerco di dimenticare. Mi fa star male, mi dà la nausea come se avessi in bocca qualcosa di marcio. Questione di temperamento, credo. Beh!, ci andai molto vicino, lasciando credere a quel giovane imbecille quel che più gli piaceva riguardo alle mie amicizie influenti in Europa. In un attimo divenni anch’io parte della finzione, come il resto dei pellegrini stregati. Lo feci semplicemente perché avevo la vaga sensazione che in questo modo sarei stato d’aiuto a quel Kurtz, che pure non riuscivo a figurarmi, capite. Era solo una parola per me. Non vedevo l’uomo dietro a quel nome, non più di quanto lo vediate voi. Voi lo vedete? E la storia la vedete? Vedete qualcosa? È come se stessi cercando di raccontarvi un sogno, e non ci riuscissi, perché non c’è resoconto di un sogno che possa rendere la sensazione del sogno, quel miscuglio di assurdità, di sorpresa e di sconcerto nello spasimo di un’affannata ribellione, quella sensazione di essere prigionieri dell’incredibile che è l’essenza stessa dei sogni…»
Restò un attimo in silenzio.
«… No, è impossibile. È impossibile comunicare la sensazione della vita di un qualsiasi momento della propria esistenza, ciò che rende la sua verità, il suo significato, la sua essenza sottile e penetrante. È impossibile. Viviamo come sognamo: soli.»
Tacque di nuovo come per riflettere, poi aggiunse:
«Naturalmente voi, in questa storia, vedete più di quanto io potessi allora. Vedete me, me, che voi conoscete…»
Si era fatto così buio che noi che ascoltavamo non riuscivamo quasi a vederci l’un l’altro, e già da tempo, lui, che era seduto un po’ in disparte, non era che una voce per noi. Nessuno parlò. Può darsi che gli altri si fossero addormentati, ma io ero sveglio e stavo ad ascoltare, ad ascoltare, aspettando vigile e impaziente la frase, la parola che mi desse la chiave del lieve disagio suscitato da quel racconto che sembrava formarsi da solo, senza labbra umane, nell’aria greve della notte sul fiume.
«… Sì, ho lasciato che si sfogasse,» ricominciò Marlow, «e che pensasse quello che voleva dei poteri che c’erano dietro di me. Sì. E dietro di me non c’era niente. Niente se non quel miserabile, vecchio vapore sventrato contro cui mi appoggiavo, mentre lui parlava enfaticamente della “necessità che ogni uomo ha di farsi strada”. “E quando uno viene qui, non viene per guardare la luna, le pare?” Il signor Kurtz era un “genio universale”, ma anche un genio lavora meglio con “strumenti adeguati: degli uomini intelligenti”. Lui non fabbricava i mattoni – perché gli era materialmente impossibile – come io sicuramente dovevo sapere; e se faceva da segretario al direttore, era perché “nessun uomo di buon senso rifiuta senza motivo la confidenza e la fiducia dei suoi superiori”. Lo capivo? Sì lo capivo. Che cosa volevo di più? Buon Dio, quello che volevo io, erano dei ribattini. Sì ribattini. Per continuare il lavoro, per tappare la falla, mi servivano i ribattini. Ce n’erano casse intere là sulla costa: casse accatastate, traboccanti, sfasciate! A ogni passo, nel cortile di quella stazione sul fianco della collina, si inciampava su un ribattino smarrito. Dei ribattini erano rotolati persino nel boschetto della morte. Per riempirsi le tasche di ribattini, bastava far la fatica di chinarsi, mentre là dove ce n’era bisogno, non se ne trovava nemmeno uno. C’erano le lamiere che ci servivano, ma niente con cui fissarle. E ogni settimana, il messaggero della nostra stazione, un nero solitario, sacco postale in spalla e bastone in mano, partiva per la costa. E parecchie volte alla settimana, dalla costa arrivava una carovana con la sua mercanzia: dello spaventoso calicò lucido che dava i brividi solo a guardarlo, delle perline di vetro da una lira al chilo, degli orribili fazzoletti di cotone a pallini. Ma ribattini mai. Sarebbero bastati tre portatori per trasportare tutto quello che serviva per rimettere in acqua il battello.
«Ormai aveva assunto un tono confidenziale, ma penso che la mia indifferenza lo avesse infine esasperato, perché ritenne necessario informarmi che non temeva né Dio né il diavolo, e tanto meno un semplice mortale, chiunque fosse. Gli dissi che non ne dubitavo, ma quel che desideravo io era una certa quantità di ribattini, che erano proprio quello che avrebbe desiderato anche il signor Kurtz, se solo l’avesse saputo. Poiché ogni settimana partivano delle lettere per la costa… “Mio caro signore,” esclamò, “io scrivo solo quello che mi si detta!” Io insistevo. Un uomo intelligente trova sempre il modo… Cambiò atteggiamento: divenne freddissimo e si mise improvvisamente a parlare di un ippopotamo. Si domandava se dormendo a bordo del battello (io restavo incollato alla mia ancora di salvezza giorno e notte) non venissi disturbato. C’era un vecchio ippopotamo che aveva la cattiva abitudine di uscire dal fiume sulla riva e di girovagare la notte nei paraggi della stazione. I pellegrini allora facevano una sortita in massa e gli scaricavano addosso tutte le carabine che erano riusciti a scovare. Ce n’erano di quelli che stavano su la notte, per aspettarlo. Tutta fatica sprecata, però: “Quella bestia è stregata, un incantesimo l’ha resa invulnerabile,” disse, “ma questo vale solo per le bestie, perché nessun uomo – mi capisce? – nessun uomo in questo paese è invulnerabile”. Restò lì un momento davanti a me, al chiaro di luna, col suo delicato naso aquilino un po’ storto, gli occhi di mica scintillanti senza un battito di palpebre; poi, con un asciutto “Buona notte” si allontanò speditamente. Vedevo che era turbato e molto sconcertato, il che mi rese fiducioso come da giorni non mi sentivo. Fu un grande sollievo passare da quel tizio alla mia amica influente, la mia bagnarola a vapore, tutta sfasciata, piegata, a pezzi. Mi arrampicai a bordo. Risuonava sotto i miei passi come una scatola di latta di biscotti Huntley & Palmer vuota, presa a calci in un rigagnolo. Era, anzi, molto meno solida di costituzione, e di forma meno elegante, ma le avevo prodigato una quantità di duro lavoro sufficiente per farmela amare. Non c’era amicizia influente che mi fosse più utile di lei. Mi aveva dato la possibilità di mettermi un po’ alla prova, di scoprire quello che sapevo fare. No, non è che io ami il lavoro. Preferisco stare senza far niente a pensare a tutte le belle cose che si potrebbero fare. Non mi piace lavorare, a nessuno piace, ma mi piace ciò che c’è nel lavoro: la possibilità di scoprire se stessi, la propria realtà, valida per noi, non per gli altri, quello che nessun altro potrà mai sapere. Gli altri possono vedere solo l’apparenza, senza mai poter dire che cosa significhi veramente.
«Non fui sorpreso di trovare qualcuno seduto a poppa, sul ponte, con le gambe penzoloni sopra il fango. Vedete, io me la intendevo piuttosto bene con i pochi operai che c’erano in quella stazione, e che naturalmente gli altri pellegrini disprezzavano, per via delle loro maniere poco raffinate, suppongo. Quello era il caposquadra, calderaio di professione, gran lavoratore. Era uno spilungone tutto ossa, con la carnagione gialla e grandi occhi espressivi. Aveva l’aria angustiata e un cranio calvo come il palmo della mia mano, ma sembrava che i capelli, cadendo, si fossero aggrappati al mento e che nel nuovo terreno avessero prosperato, perché la barba gli scendeva fin quasi alla vita. Era vedovo, con sei bambini (che aveva lasciato alle cure di una sorella per venire là), e i piccioni viaggiatori erano la passione della sua vita. Era un entusiasta e un intenditore: delirava per i piccioni. Terminato il suo orario di lavoro, qualche volta lasciava la sua capanna per venire a parlare con me dei suoi bambini e dei suoi piccioni. Quando, al lavoro, doveva strisciare sotto il fondo del battello dentro al fango, avvolgeva la sua famosa barba in una specie di canovaccio bianco che si portava dietro a questo scopo. Era munito di due cappi da passare sopra le orecchie. La sera, lo si vedeva accovacciato sulla riva, intento a sciacquare con gran cura quel suo involucro nell’acqua dell’insenatura, per stenderlo poi solennemente ad asciugare su un cespuglio.
«Gli diedi una manata sulla schiena e gridai: “Avremo i ribattini!” Balzò subito in piedi esclamando: “No! I ribattini!”, come se non potesse credere alle proprie orecchie. Poi a bassa voce, “Lei… eh?” Non so perché ci comportammo come due matti. Col dito davanti al naso, annuii in modo misterioso. “Bravo!”, esclamò e fece schioccare le dita sopra la testa, sollevando un piede. Accennai qualche passo di danza e ci mettemmo a saltare sul ponte di ferro. Dallo scafo smantellato uscì uno spaventoso rumore di ferraglia che la foresta vergine, dall’altro lato dell’insenatura, rimandò come un rombo di tuono sulla stazione addormentata. Dovevamo aver svegliato di soprassalto più di un pellegrino nel suo tugurio. Una sagoma nera oscurò il vano illuminato della porta della capanna del direttore, poi scomparve e dopo qualche secondo, scomparve anche il vano della porta. Avevamo smesso di ballare e il silenzio interrotto dal nostro calpestio rifluì dai recessi della terra. La grande muraglia di vegetazione, una massa esuberante e aggrovigliata di tronchi, rami, foglie, fronde e tralci, immobile, alla luce della luna, era come un’irruzione travolgente di vita silenziosa, una tumultuosa onda vegetale, alta, crestata, pronta a irrompere nella insenatura, e a spazzar via dalla nostra piccola esistenza, tutti noi, minuscoli uomini. E non si muoveva. Uno scroscio attutito di spruzzi e sbuffi possenti ci giunse di lontano, come se un ittiosauro stesse facendo un bagno di gala, di suoni e luci, nel grande fiume. “In fin dei conti”, disse il calderaio, pacatamente, “perché non dovremmo averli i ribattini?” Eh già, perché no? Non c’era nessuna ragione che ce lo impedisse. “Arriveranno fra tre settimane”, dissi fiducioso.
«Ma non arrivarono. Invece dei ribattini ci fu un’invasione, un castigo, un flagello. Arrivò a scaglioni per tre settimane di seguito, con in testa a ogni scaglione un asino montato da un bianco vestito a nuovo e con le scarpe gialle, che da quell’altezza si chinava, a destra e a manca, per salutare i pellegrini ammirati. Una banda litigiosa di neri immusoniti e coi piedi doloranti tallonava l’asino; mucchi di tende, di seggiolini da campo, di scatole di latta, di casse bianche, di balle marrone venivano scaraventate nel cortile, e quell’aria di mistero che aleggiava sul gran disordine della stazione si infittì ancor di più. Ce ne furono cinque di questi arrivi a puntate, tutti con la stessa aria grottesca di fuga precipitosa, col bottino di innumerevoli magazzini e botteghe che, si sarebbe pensato, loro stavano trascinando nella landa selvaggia, dopo la razzia, per spartirselo equamente. Era un’inestricabile accozzaglia di cose rispettabili in sé, ma che la follia degli uomini aveva reso simili a prede di ladroni.
«Questa stimabile compagnia si faceva chiamare Spedizione Esplorativa Eldorado, e credo che i suoi membri fossero legati da un giuramento di segretezza. I loro discorsi, però, erano quelli di sordidi bucanieri: cinici, senza essere arditi, cupidi senza essere audaci, crudeli, ma senza coraggio; non c’era un briciolo di lungimiranza o di intenzione seria nell’intera masnada, e non sembravano nemmeno rendersi conto che queste sono cose necessarie per operare nel mondo. Strappare i tesori dalle viscere della terra era il loro unico desiderio, senza scrupoli morali, almeno non più di quanti ne abbiano dei rapinatori a sfondare una cassaforte. Chi pagasse le spese della nobile impresa, lo ignoro, ma lo zio del nostro direttore era il capo della banda.
«D’aspetto assomigliava a un macellaio di un quartiere povero, e i suoi occhi avevano uno sguardo di furbizia sopita. Portava con ostentazione una grossa pancia su delle gambe corte e durante tutto il periodo in cui la sua truppa infestò la stazione non rivolse la parola a nessuno, se non a suo nipote. Li si vedeva passeggiare dalla mattina alla sera, le teste ravvicinate, in un inesauribile conciliabolo.
«Avevo smesso di tormentarmi per i ribattini. La nostra capacità di preoccuparci per un tal genere di sciocchezze è più limitata di quanto si creda. Dissi, al diavolo, e lasciai correre. Avevo tutto il tempo per meditare e, ogni tanto, rivolgevo uno dei miei pensieri a Kurtz. Non che egli mi interessasse molto. No. Però ero curioso di vedere se quell’uomo, che era venuto là con un certo bagaglio di idee morali, sarebbe davvero arrivato in alto e in che modo avrebbe allora organizzato la sua opera.

II

«Una sera, mentre me ne stavo lungo disteso sul ponte del mio battello, sentii avvicinarsi delle voci: erano zio e nipote che venivano passeggiando lungo il fiume. Misi di nuovo giù la testa sul braccio e, già mezzo assopito, udii qualcuno dire, quasi dentro al mio orecchio: “Io non faccio del male a una mosca, però non mi piacciono le imposizioni. Sono o non sono il direttore? Mi hanno ordinato di mandarlo là. È incredibile…” Mi accorsi che quei due si erano fermati sulla riva, all’altezza della prora del battello, proprio sotto la mia testa. Non mi mossi. Non mi venne neanche in mente di muovermi: avevo sonno. “È spiacevole”, grugnì lo zio. “È lui che ha chiesto all’Amministrazione di essere mandato lì”, disse l’altro, “per far vedere quello che sa fare e io ho ricevuto le relative istruzioni. Vedi che razza di ascendente deve avere quell’uomo. Non è spaventoso?” Ne convennero entrambi, che era spaventoso; dopo di che all’orecchio mi giunsero delle espressioni bizzarre: “Fare il bello e il cattivo tempo… un uomo solo… il Consiglio… menare per il naso”, frammenti di frasi assurde che ebbero la meglio sul mio torpore, tant’è vero che ero quasi in pieno possesso delle mie facoltà mentali quando lo zio disse: “Potrebbe aiutarti il clima a risolvere queste difficoltà. È da solo là?” “Sì”, rispose il direttore, “ha spedito il suo assistente giù per il fiume con un biglietto per me che diceva: ‘Allontani subito dal paese questo povero diavolo e non si disturbi a mandarmene altri dello stesso stampo. Preferisco star solo piuttosto che avere il genere di uomini che lei mi rifila.’ Questo avveniva più di un anno fa. Si può immaginare una maggiore impudenza?” “E da allora più niente?”, chiese l’altro, con la voce roca. “Avorio”, scattò il nipote, “a mucchi e di prima qualità, mucchi di avorio, molto seccante, provenendo da lui.” “Dopo di che?”, domandò il greve brontolio. “La fattura”, fu la risposta, sparata a bruciapelo, come si suol dire. Poi silenzio. Era di Kurtz che stavano parlando.
«Ormai ero completamente sveglio, ma rimanevo disteso, immobile nella mia comoda posizione, e non avevo nessuna intenzione di cambiarla. “Ma come ha fatto tutto quell’avorio ad arrivare fin qua?”, ringhiò il più anziano che sembrava molto irritato. L’altro spiegò che era giunto con una flottiglia di canoe guidata da un meticcio inglese, un impiegato di Kurtz; che Kurtz stesso aveva apparentemente progettato di rientrare, la sua stazione era ormai sfornita di provviste e mercanzie, ma dopo aver percorso trecento miglia, aveva improvvisamente deciso di tornare indietro; cosa che aveva fatto, da solo, in una piccola piroga, con quattro vogatori, lasciando che il meticcio continuasse il viaggio giù per il fiume con l’avorio. I due compari sembravano sbalorditi che qualcuno avesse tentato una cosa simile; e non riuscivano a immaginarne il motivo. Quanto a me, mi sembrò di vedere Kurtz per la prima volta. Ne ebbi una visione fugace ma chiara: la piroga, i quattro selvaggi che remavano, e l’uomo bianco solitario che volgeva subitaneo le spalle al quartier generale, a ogni forma di aiuto, a ogni idea di ritorno, chissà!, per dirigersi a viso fermo verso le profondità della selva selvaggia, verso la sua stazione vuota e desolata. Non ne conoscevo il motivo. Forse era solo un tipo in gamba attaccato al lavoro per amore del lavoro. Il suo nome, notate, non era mai stato pronunciato, neanche una volta. Era “quell’uomo”. Al meticcio che, da quanto potevo giudicare, aveva condotto quella spedizione difficile con grande prudenza e fegato, si alludeva invariabilmente come a “quella canaglia”. La “canaglia” aveva riferito che l'”uomo” era stato molto ammalato e che non si era rimesso del tutto… I due sotto di me si allontanarono di qualche passo, passeggiando avanti e indietro poco distanti. Udii: “Posto militare… dottore… duecento miglia… completamente solo adesso… ritardi inevitabili… nove mesi… nessuna notizia… strane voci.” Poi si riavvicinarono, proprio mentre il direttore diceva: “Nessuno, per quanto io sappia, tranne una specie di trafficante vagabondo, un individuo esiziale, che scippa l’avorio agli indigeni.” Di chi è che parlavano adesso? Mettendo assieme i pezzi capii che si trattava di un uomo che molto probabilmente stava nella zona di Kurtz, e che non godeva della simpatia del direttore. “Riusciremo a sbarazzarci della concorrenza sleale solo quando uno di questi individui verrà impiccato, per dare l’esempio”, disse. “Certamente”, grugnì l’altro, “fallo impiccare! Perché no? In questo paese si può fare di tutto, di tutto. Sai cosa ti dico? Qui, capisci, qui, nessuno può compromettere la tua posizione. E sai perché? Tu sopporti il clima: li seppellirai tutti. Il pericolo è in Europa, ma lì, prima di partire ho provveduto io a…” Si allontanarono bisbigliando; poi le loro voci si alzarono di nuovo. “Questa straordinaria serie di ritardi non è colpa mia. Io ho fatto il possibile.” Il grassone sospirò: “Che ci vuoi fare!” “E la pestilenziale assurdità dei suoi discorsi”, continuò l’altro. “Mi ha quasi asfissiato quand’era qua. ‘Ogni stazione dovrebbe essere come un faro sulla via del progresso, un centro per commerciare, certo, ma anche per umanizzare, migliorare, istruire.’ Ti rendi conto… quel coglione! E vuole diventare direttore! No, è…” A quel punto si soffocò in un accesso di indignazione e io alzai un pochino la testa. Fui sorpreso di vedere quanto fossero vicini, proprio sotto di me. Avrei potuto sputare sui loro cappelli. Guardavano per terra, assorti nei loro pensieri. Il direttore si frustava la gamba con una verga sottile; il suo sagace parente sollevò la crapa. “Sei stato bene da quando sei tornato qui, questa volta?”, chiese. L’altro trasalì. “Chi? Io? Oh! D’incanto, d’incanto. Ma gli altri, Dio santo! Tutti malati. Muoiono così in fretta poi, che non faccio neanche a tempo a mandarli via dal paese. È incredibile!” “Hem. Per l’appunto”, grugnì lo zio. “Ah! ragazzo mio, è proprio su questo che devi contare, ti dico, su questo.” Gli vidi stendere un braccetto, corto come una pinna, in un gesto che abbracciava la foresta, l’insenatura, il fango, il fiume, come se, con una mossa oltraggiosa alla faccia assolata del paese, rivolgesse un perfido invito alla morte in agguato, al male nascosto, alla profondità tenebrosa del cuore di quella terra. Era così stupefacente che balzai in piedi e mi voltai a guardare il ciglio della foresta, quasi mi aspettassi una qualche risposta a quel diabolico sfoggio di confidenza. Sapete che idee stravaganti ci vengono talvolta. L’immobilità assoluta, paziente e minacciosa, fronteggiava quelle due figure in attesa che sparisse la fantastica invasione.
«Bestemmiarono tutti e due ad alta voce, per pura paura, credo, poi fingendo di ignorare che io esistessi, s’incamminarono verso la stazione. Il sole era basso e, piegati in avanti, fianco a fianco, sembravano trascinare faticosamente su per la salita le loro ridicole ombre di ineguale lunghezza, che strisciavano lentamente dietro di loro sull’erba alta senza piegarne un solo filo.
«Di lì a pochi giorni la Spedizione Eldorado si inoltrò nella paziente landa selvaggia, che si richiuse su di lei come fa il mare sopra uno che si tuffa. Dopo molto tempo arrivò la notizia che erano morti tutti gli asini. Della sorte degli altri animali meno preziosi non so nulla. Trovarono, senza dubbio, come tutti noi, ciò che si meritavano. Non indagai. Allora ero troppo eccitato alla prospettiva che molto presto avrei incontrato Kurtz. Quando dico molto presto vuol dire per quanto fosse consentito laggiù, cioè in modo relativo. Da quando lasciammo l’insenatura, passarono giusto due mesi prima che toccassimo terra sotto la stazione di Kurtz.
«Risalire quel fiume era come compiere un viaggio indietro nel tempo, ai primordi del mondo, quando la vegetazione spadroneggiava sulla terra e i grandi alberi erano sovrani. Un corso d’acqua vuoto, un silenzio assoluto, una foresta impenetrabile; l’aria calda, spessa, greve, immota. Non c’era gioia nello splendore del sole. Deserte, le lunghe distese d’acqua si perdevano nell’oscurità di adombrate distanze. Sui banchi di sabbia argentati ippopotami e coccodrilli si crogiolavano al sole, fianco a fianco. Negli slarghi, le acque scorrevano in mezzo a una moltitudine di isole boscose; ci si perdeva in quel fiume, come in un deserto, e per tutto il giorno, si continuava a incappare nelle secche, alla ricerca del canale, fino a sentirsi stregati e tagliati fuori per sempre da quello che si era conosciuto un tempo, in qualche luogo, lontano da lì, in un’altra vita forse. C’erano momenti in cui il proprio passato riaffiorava, come capita talvolta quando non si ha un momento da dedicare a se stessi; ma veniva in forma di sogno inquieto e rumoroso, ricordato con stupore fra le prorompenti realtà di quello strano mondo di piante, di acqua e di silenzio. E questa immobilità di vita non assomigliava affatto alla pace. Era l’immobilità di una forza implacabile che covava un qualche insondabile disegno. Vi guardava con un’aria vendicativa, piena di risentimento. Alla lunga mi ci abituai: non la vedevo più. Non ne avevo il tempo. Dovevo continuamente scrutare il fiume per cercare di indovinare il passaggio; per discernere, più con l’intuito che con la vista, i segni di banchi nascosti; per spiare le rocce sommerse. Imparai a serrare prontamente i denti per impedire che il mio cuore balzasse via, quando schivavo, sfiorandolo, qualche infernale vecchio tronco sornione che avrebbe attentato alla vita della mia bagnarola, sventrandola, facendo annegare tutti i pellegrini. E dovevo tenere d’occhio ogni traccia di albero morto che avremmo tagliato durante la notte per assicurarci il vapore del giorno dopo. Quando si deve badare a questo genere di cose, ai meri accidenti di superficie, la realtà – la realtà, vi dico – impallidisce. La verità più riposta rimane nascosta, fortunatamente, fortunatamente. Ma io la sentivo lo stesso; sentivo spesso la sua immobilità misteriosa che osservava i miei trucchi da scimmia, proprio come osserva voi, quando vi esibite sulle vostre funi tese nel vuoto, per quanto?, per mezza corona a ogni salto mortale.»
“Cerca di essere più civile, Marlow”, borbottò una voce, per cui capii che oltre a me ce n’era almeno un altro sveglio, ad ascoltare.
«Scusatemi. Dimenticavo che si deve aggiungere il patema d’animo al resto del prezzo. Ma che importanza ha il compenso se l’acrobazia è riuscita bene? A voi riescono benissimo. E anch’io non me la sono cavata tanto male, dato che son riuscito a non far affondare il battello al mio primo viaggio. Me ne meraviglio ancora. Immaginatevi un uomo bendato che debba guidare un furgone su una strada dissestata. Ho sudato e tremato non poco su quell’affare, ve l’assicuro. In fin dei conti, per un marinaio, è il peccato più imperdonabile scorticare il fondo di quella cosa che dovrebbe stare sempre a galla sotto la sua guida. Forse nessuno se n’è accorto, ma voi il tonfo non lo dimenticherete mai, vero? Un colpo al cuore. Ve lo ricorderete, lo sognerete, e anni dopo, vi sveglierete di notte per pensarci, e sentirete caldo e freddo in tutto il corpo. Non pretendo di dire che il battello sia rimasto sempre a galla. Più di una volta ha dovuto passare a guado per un tratto, con venti cannibali intorno a diguazzare e a spingere. Strada facendo ne avevamo arruolati alcuni, come ciurma. Brava gente, i cannibali, al loro posto. Uomini con cui si poteva lavorare e a cui io sono grato. E poi non si sono mangiati fra di loro sotto i miei occhi. Si erano portati dietro della carne di ippopotamo che marcì e che mi portò l’odore del mistero della landa selvaggia fin dentro alle narici. Puah! Sento ancora il tanfo. A bordo avevo il direttore e tre o quattro pellegrini col bastone: al completo. Qualche volta incontravamo una stazione sulla sponda del fiume, aggrappata ai margini dell’ignoto, e i bianchi che si precipitavano fuori dai loro tuguri, accogliendoci con gesti festosi e sorpresi, avevano un’aria stranita: sembravano prigionieri di un incantesimo. La parola avorio echeggiava nell’aria per un po’ e poi ci rimmergevamo nel silenzio, lungo tratti deserti, intorno ad anse tranquille, tra le alte mura del nostro tortuoso percorso, che riverberavano in cupi colpi il poderoso battito della nostra ruota poppiera. Alberi, alberi, milioni di alberi, massicci, immensi, svettanti; e ai loro piedi, rasentando la sponda per vincere la corrente, arrancava il piccolo battello fuligginoso, come un indolente scarafaggio che si trascini sul pavimento di un ampio e nobile porticato. Ci si sentiva molto piccoli e sperduti, eppure quella sensazione non era del tutto deprimente. In fin dei conti, anche se eravamo piccoli, quello sporco scarafaggio andava avanti ed era proprio quello che si voleva che facesse. Dove i pellegrini si immaginavano che strisciasse io non lo so. Verso un luogo in cui si aspettavano di arraffare qualcosa, scommetto! Per me strisciava esclusivamente verso Kurtz, ma quando i tubi del vapore iniziarono a perdere ci trascinammo molto lentamente. Le lunghe strade d’acqua si aprivano davanti a noi e si richiudevano al nostro passaggio, come se la foresta, pigra e tranquilla, avesse scavalcato l’acqua per sbarrarci la via del ritorno. Penetravamo sempre più a fondo nel cuore della tenebra. Regnava una gran quiete. La notte, qualche volta, il rullio dei tamburi dietro la cortina degli alberi saliva su per il fiume e si prolungava debolmente, come sospeso nell’aria, sopra le nostre teste, fino allo spuntar del giorno. Se era un segnale di guerra, di pace o di preghiera noi non lo sapevamo. L’alba era sempre annunciata dal calare di un gelido torpore; i taglialegna dormivano, con i fuochi che bruciavano bassi; lo scricchiolio di un ramoscello spezzato ci faceva trasalire. Eravamo viandanti su una terra preistorica, su una terra che aveva l’aspetto di un pianeta sconosciuto. Potevamo immaginarci di essere i primi uomini che prendevano possesso di un’eredità maledetta, che si doveva conquistare al prezzo di un profondo tormento e di un’enorme fatica. Ma improvvisamente, mentre lottavamo attorno a un’ansa, si apriva una visione di muri di giunco, di tetti d’erba a punta, ed era un’esplosione di grida, un turbinio di membra nere, una moltitudine di mani che battevano, di piedi che pestavano, di corpi che ondeggiavano, di occhi che roteavano, sotto la cascata del fogliame fitto e immobile. Il battello arrancava lentamente ai margini di una nera e incomprensibile frenesia. L’uomo preistorico ci malediva, ci implorava, ci dava il benvenuto, chi poteva dirlo? Eravamo tagliati fuori dalla comprensione di ciò che ci circondava; scivolavamo via come fantasmi, stupiti e segretamente sgomenti, come lo sarebbero degli uomini sani di mente davanti a uno scoppio di entusiasmo in manicomio. Non potevamo capire, perché eravamo troppo lontani, e non potevamo ricordare, perché stavamo viaggiando nella notte dei tempi, di quei tempi scomparsi senza quasi lasciare traccia e alcun ricordo.
«La terra non sembrava più terrena. Noi siamo abituati a vedere la forma incatenata di un mostro soggiogato, ma lì, lì si vedeva il mostro in libertà. Non era terreno e gli uomini erano… No, non erano inumani. Ecco, sapete, era questa la cosa peggiore: il sospetto che non fossero inumani. Veniva a poco a poco. Ululavano e saltavano, si contorcevano e facevano delle orribili smorfie; ma quello che faceva rabbrividire era proprio il pensiero della loro umanità, simile alla nostra, il pensiero di una nostra lontana parentela con quella violenza selvaggia e appassionata. Sgradevole. Sì era abbastanza sgradevole, ma con un po’ di coraggio, bisognava ammettere che c’era in noi, sia pur debolissima, una traccia di rispondenza alla terribile franchezza di quel frastuono, l’impressione confusa che vi si nascondesse un significato che, per quanto lontani noi si fosse dalla notte dei tempi, si poteva capire. E perché no? La mente dell’uomo è aperta a tutto, perché contiene tutto, tutto il passato e tutto l’avvenire. E in fondo là dentro cosa c’era? Gioia, paura, dolore, devozione, coraggio, collera, – chi lo sa? – ma verità certamente, la verità spogliata dal mantello del tempo. Padronissimo lo sciocco di restare a bocca aperta e tremare: l’uomo capisce, e può guardare senza battere ciglio. Ma deve essere almeno altrettanto uomo di quelli sulla spiaggia. Deve rispondere a quella verità con ciò che c’è di più vero in lui, con la sua forza innata. I principi? I principi non servono: acquisizioni, mascheramenti, orpelli, che volerebbero via alla prima scossa un po’ rude. No, ci vuole una fede deliberata. C’è un appello per me in questo barbaro tumulto, sì? Benissimo, lo ascolto, lo riconosco, ma anch’io ho una voce, e nel bene come nel male quello che io dico non può essere messo a tacere. Naturalmente, uno sciocco, sia per semplice paura sia per nobili sentimenti, non corre alcun rischio. Cos’è quel borbottio? Vi domandate se sono sceso a terra a ululare e a ballare? No, non l’ho fatto. Nobili sentimenti, dite? Al diavolo i nobili sentimenti! Non avevo tempo. Dovevo trastullarmi con biacca di piombo e strisce tagliate dalle coperte di lana per aiutare a bendare quei tubi che perdevano, proprio così. Dovevo sorvegliare la rotta, aggirare i tronchi, e di riffa o di raffa, far avanzare la mia bagnarola. In quelle cose c’era tanta verità di superficie da salvare anche un uomo più saggio. E nel frattempo dovevo badare a quel selvaggio del mio fuochista. Era un esemplare progredito, capace di alimentare una caldaia verticale. Era là, sotto di me, e, parola mia, guardarlo era altrettanto edificante che vedere un cane in calzoncini da clown e cappello di piume, che cammina sulle zampe posteriori. Erano bastati pochi mesi di addestramento, a quel tipo davvero notevole. Sbirciava il manometro del vapore e l’indicatore di livello dell’acqua con un evidente sforzo di audacia, eppure aveva i denti limati, quel povero diavolo, e dei bizzarri disegni scolpiti a rasoio sulla lana del suo cranio e tre cicatrici ornamentali sulle guance. Avrebbe dovuto essere sulla riva a battere le mani e i piedi invece di star lì a lavorare sodo, schiavo di una strana stregoneria, ricca di sapere avanzato. Era utile perché era stato istruito e quel che sapeva era questo: che se veniva a mancare l’acqua in quella cosa trasparente, lo spirito maligno chiuso nella caldaia si sarebbe infuriato per la gran sete e si sarebbe vendicato in maniera terribile. Perciò sudava e attizzava il fuoco e sorvegliava timoroso il vetro (con un feticcio improvvisato, fatto di stracci, legato al braccio, e un pezzo d’osso levigato, grosso come un orologio, infilato di piatto nel labbro inferiore), mentre le rive boscose scorrevano lentamente al nostro passaggio, il breve clamore rimaneva indietro, ricominciavano le miglia interminabili di silenzio, e noi strisciavamo, verso Kurtz. Ma le insidie erano molte, i tronchi nascosti, l’acqua traditrice e senza profondità, e la caldaia sembrava davvero posseduta da un demone scontroso. Perciò né io né il fuochista avevamo il tempo di scrutare nei nostri strani e terribili pensieri.
«A una cinquantina di miglia dalla Stazione Interna, scorgemmo sulla riva una capanna di canniccio, un palo inclinato e melanconico, su cui svolazzavano i brandelli irriconoscibili di quella che doveva essere stata una specie di bandiera, e una pila di legna da ardere accatastata con cura. Una cosa inattesa. Scendemmo a terra e in cima alla catasta di legna trovammo un’asse con una scritta a matita, tutta sbiadita. Una volta decifrata, diceva: “Legna per voi. Fate presto. Avvicinatevi con cautela.” C’era anche la firma, ma illeggibile, non Kurtz, una parola molto più lunga. Sbrigarsi. A far cosa? A salire il fiume? “Avvicinatevi con cautela.” Noi non l’avevamo fatto. Ma l’avvertimento non poteva riferirsi al luogo in cui si poteva trovare il messaggio solo dopo essercisi avvicinati. Era più su che qualcosa non andava bene. Ma cosa? Qualcosa di grave? Questo era il dilemma. Commentammo negativamente la stupidità di quello stile telegrafico. La boscaglia intorno non rivelava nulla e non consentiva nemmeno di inoltrarsi con lo sguardo molto lontano. Una tenda lacera di saia rossa pendeva dalla soglia della capanna e ci sbatté tristemente in faccia. L’abitazione era stata smantellata, ma si vedeva che fino a poco tempo prima ci aveva vissuto un bianco. Restavano una tavola rudimentale, non era che un’asse su due sostegni, delle immondizie ammucchiate in un angolo buio e, accanto alla porta, un libro, che raccolsi. Era senza copertina e le pagine portavano l’impronta di un dito che, a forza di sfogliarle, le aveva sporcate e logorate; il dorso, invece, era stato amorevolmente ricucito con del filo di cotone bianco che sembrava ancora pulito. Avevo trovato una cosa straordinaria. Il titolo era Indagine su alcuni aspetti dell’arte di navigare, di un certo Towser, o Towson, un nome simile, capitano della Marina di Sua Maestà. La materia sembrava un po’ ostica, con grafici illustrativi e orrende tavole numeriche; e la copia era vecchia di sessant’anni. Maneggiai quel sorprendente pezzo d’antiquariato con la massima delicatezza, per paura che mi si polverizzasse in mano. Là dentro, Towson o Towser dissertava sul punto di massima tensione delle catene, dei paranchi e su altri argomenti analoghi. Non proprio avvincente, quel libro, ma dalla prima occhiata vi si scorgeva una serietà di intenti, un interesse autentico per come affrontare bene un lavoro, che quelle umili pagine, pensate tanti anni prima, s’illuminavano di una luce non solo professionale. Quel semplice vecchio marinaio mi fece dimenticare la giungla e i pellegrini dandomi la sensazione di aver finalmente di fronte qualcosa di indiscutibilmente reale. Che un libro simile fosse là era già abbastanza sorprendente, ma ancor più stupefacenti erano le note scritte in margine a matita, chiaramente riferite al testo. Non potevo credere ai miei occhi! Erano in codice! Sì, aveva tutta l’aria di un codice. Vi immaginate un uomo che in quel nulla si porta dietro un libro del genere, se lo studia, ci fa sopra delle note, e in codice! Era un mistero davvero stravagante.
«Era già da un po’ che avvertivo dei vaghi rumori molesti: quando alzai gli occhi vidi che la catasta di legna era scomparsa e che il direttore, con l’aiuto di tutti i pellegrini, mi stava chiamando a gran voce dalla riva del fiume. Mi infilai il libro in tasca. Dover abbandonare la lettura era come essere strappati dalle braccia di una vecchia e solida amicizia, ve lo assicuro.
«Rimisi in moto lo zoppicante macinino. “Non può essere che quel miserabile trafficante, quell’intruso”, esclamò il direttore, voltandosi a guardare con aria malevola il luogo che avevamo appena lasciato. “Dev’essere inglese”, dissi io. “Il che non gli eviterà di passare dei guai se non sta attento”, borbottò, cupo, il direttore. Osservai con finta innocenza che a questo mondo nessuno è al riparo dai guai.
«La corrente si era fatta più rapida, il battello sembrava boccheggiare, la ruota poppiera batteva l’acqua languidamente, e mi accorsi di stare sulla punta dei piedi ad ascoltare il successivo battito della pala, perché in tutta sincerità, mi aspettavo che da un momento all’altro quella cosa sciagurata avrebbe ceduto di schianto. Era come assistere agli ultimi fremiti di una vita che si spegne. Ma, sia pure lentamente, continuavamo a procedere. Ogni tanto sceglievo un albero davanti a me, come riferimento, per misurare il nostro progresso verso Kurtz, ma lo perdevo invariabilmente di vista prima di averlo raggiunto. Tenere gli occhi fissi, e a lungo, su uno stesso punto, era chiedere troppo alla pazienza umana. Il direttore mostrava una grande capacità di rassegnazione. Io mi rodevo il fegato e non smettevo di arrovellarmi chiedendomi se dovevo parlare apertamente con Kurtz oppure no; ma prima di essere arrivato a una conclusione, mi si affacciò l’idea che se io parlavo, o tacevo, o facevo una cosa qualsiasi, sarebbe stata una pura futilità. Che importanza aveva quello che uno sapeva o ignorava? Che importanza aveva chi era il direttore? Talvolta si hanno simili lampi d’intuizione. L’essenziale di quella faccenda giaceva molto sotto la superficie, oltre la mia portata e al di là del mio potere d’intervento.
«Verso la sera del secondo giorno, calcolammo di essere a circa otto miglia dalla stazione di Kurtz. Io avrei voluto proseguire, ma il direttore, che aveva assunto un’aria grave, disse che più a monte la navigazione era talmente pericolosa che sarebbe stato più prudente, col sole già così basso, fermarci dov’eravamo fino al mattino seguente. Mi fece inoltre notare che, se dovevamo seguire l’avvertimento di avvicinarci con cautela, ci conveniva farlo di giorno, non al crepuscolo, o col buio. Era abbastanza sensato. Per noi otto miglia volevano dire circa tre ore di navigazione, e per di più, in fondo a quel tratto di fiume, a monte vedevo delle increspature sospette. Ciononostante quel ritardo mi contrariò in modo indicibile, e anche assolutamente irragionevole, dato che dopo tanti mesi una notte in più o in meno non poteva fare molta differenza. Siccome la legna abbondava, e la parola d’ordine era “cautela”, gettai l’ancora in mezzo al fiume. In quel tratto correva diritto, stretto fra argini alti come le trincee di una ferrovia. Il crepuscolo vi entrò scivolando molto prima che fosse calato il sole. La corrente fluiva liscia e veloce ma sulle sponde pesava una muta immobilità. Sembrava che tutti quegli alberi vivi, allacciati gli uni agli altri da liane e rampicanti, che ogni arbusto di quella viva boscaglia, fossero stati tramutati in pietra, dal rametto più sottile, alla foglia più leggera. Troppo innaturale per essere un sonno: sembrava uno stato di trance. Non si sentiva il più debole suono, di nessuna specie. Si stava a guardare stupiti, con il sospetto di essere diventati sordi e all’improvviso scese la notte a renderci anche ciechi. Verso le tre del mattino, un grosso pesce saltò sull’acqua con un tonfo così sonoro che mi fece sobbalzare come se fosse stato sparato un colpo di arma da fuoco. Al sorgere del sole ci trovammo immersi in una nebbia bianca, calda e gommosa, più accecante ancora della notte. Non si spostava, né verso riva né in avanti: stava lì immobile intorno a noi, come una cosa solida. Verso le otto o forse le nove, si alzò, come si alza una saracinesca. Si aprì uno spiraglio sulla torreggiante foresta d’alberi, sull’immenso intrico della giungla su cui dardeggiava la piccola palla del sole – tutto perfettamente immobile – e poi la bianca saracinesca si riabbassò senza intoppi, come scivolando su guide ben oliate. Diedi l’ordine di mollare di nuovo la catena dell’ancora che avevamo già iniziato a issare a bordo. Prima che finisse di scorrere con un rantolo soffocato, un grido, un grido altissimo, di infinita desolazione, si alzò adagio nell’aria ovattata. Cessò. Un clamore lamentoso, modulato su selvagge dissonanze, ci riempì le orecchie. Era talmente inaspettato che sotto il berretto mi si rizzarono i capelli. Non so che effetto facesse agli altri: quel frastuono lugubre e tumultuoso era sorto talmente improvviso, e apparentemente ovunque e simultaneo, che a me parve che a gridare fosse stata proprio la nebbia. Culminò in una precipitosa esplosione di urla acute, di un’intensità quasi intollerabile, che cessò di colpo, lasciandoci irrigiditi in una varietà di atteggiamenti ridicoli, in accanito ascolto del silenzio, quasi altrettanto spaventoso ed eccessivo. “Dio mio! Ma di cosa si tratta?…”, balbettò accanto a me uno dei pellegrini, un ometto grasso, coi capelli di stoppa e le basette rosse, che indossava stivaletti con gli elastici ai lati e un pigiama rosa, con le braghe infilate nei calzini. Altri due restarono a bocca aperta per un minuto intero, poi si precipitarono dentro la piccola cabina di prua da dove ricomparvero di corsa, Winchester carichi alla mano, lanciando sguardi spaventati in tutte le direzioni. E non si vedeva che il battello sul quale stavamo, con i contorni così sfocati che sembrava sul punto di dissolversi e tutt’intorno una nebbiosa striscia d’acqua, larga forse mezzo metro: nient’altro. Il resto del mondo non esisteva, almeno non per i nostri occhi e le nostre orecchie. Non esisteva più: svanito, volatilizzato, spazzato via senza lasciarsi dietro un sussurro o un’ombra.
«Andai a prua e ordinai di accorciare la catena, in modo da essere pronti a issare l’ancora e metterci subito in marcia, se ce ne fosse stato bisogno. “Attaccheranno?”, bisbigliò una voce atterrita. “Ci massacreranno tutti con questa nebbia”, mormorò un altro. I volti distorti dalla tensione, le mani leggermente tremanti, gli occhi sbarrati: era molto curioso il contrasto fra le espressioni dei bianchi e quelle dei neri del nostro equipaggio, che in quella parte del fiume non erano meno stranieri di noi, anche se le loro case erano solo a milletrecento chilometri di distanza. I bianchi non erano solo molto agitati, avevano anche l’aria di essere dolorosamente colpiti da un tumulto così scandaloso. Gli altri avevano un’espressione vigile e naturalmente interessata, ma i loro volti erano essenzialmente distesi, anche quelli di quei due o tre che, issando la catena dell’ancora, l’avevano contratto. Alcuni si scambiarono delle brevi frasi gutturali che sembrarono risolvere la faccenda con loro soddisfazione. Il loro capo, un giovane nero con un ampio torace, austeramente avvolto in un drappo blu scuro sfrangiato, le narici focose e la capigliatura acconciata artisticamente in ricciolini oliati, era in piedi vicino a me. “Aha!”, dissi tanto per dire qualcosa. “Prendeteli”, latrò, spalancando gli occhi iniettati di sangue mentre i suoi denti aguzzi brillavano, “prendeteli e dateceli.” “A voi?”, chiesi, “E per farne che?” “Mangiarli!” disse laconico e, appoggiato il gomito al parapetto, guardò fuori nella nebbia in un atteggiamento solenne e profondamente pensieroso. Sarei senza dubbio rimasto giustamente orripilato se non mi fosse venuto in mente che lui e i suoi compagni dovevano avere molta fame, una fame che era andata progressivamente crescendo da almeno un mese a questa parte. Erano stati ingaggiati per sei mesi (ma penso che nessuno di loro avesse una chiara nozione del tempo, come l’abbiamo noi alla fine di innumerevoli ere. Appartenevano ancora agli albori del mondo, senza alcuna esperienza ereditata, per così dire, che gliela potesse insegnare), e naturalmente, purché ci fosse un pezzo di carta scritta in conformità di qualche legge farsesca confezionata ed emanata all’altro capo del fiume, a nessuno era mai passato per la testa di preoccuparsi di come sarebbero vissuti. Era vero che si erano portati la carne di ippopotamo putrefatta, che non avrebbe potuto durare a lungo comunque, però, anche se i pellegrini, in mezzo a uno schiamazzo impressionante, non ne avessero gettata in acqua una gran quantità. Sembrava un atto di prepotenza, ma in realtà fu un caso di legittima difesa. Non si può respirare ippopotamo morto, quando si dorme, mentre si mangia, quando ci si sveglia, e nello stesso tempo conservare un precario controllo sulla propria esistenza. A parte questo, ogni settimana gli avevano dato tre pezzi di filo di ottone, ciascuno lungo circa venti centimetri; in teoria doveva servire come moneta di scambio perché si comprassero delle provviste nei villaggi lungo il fiume. Ma in pratica, le cose andarono diversamente, come forse avrete già capito. O non c’erano villaggi, o la popolazione era ostile, o il direttore, che come tutti noi, si nutriva a scatolette, con dentro in aggiunta, ogni tanto, un pezzo di vecchio caprone, non voleva fermare il battello per qualche ragione, più o meno oscura. Perciò, a meno che il filo non se l’ingoiassero, o che ne facessero dei cappi per prendere al laccio i pesci, non vedo quale beneficio traessero da quello stravagante salario. Devo ammettere che veniva pagato con una regolarità degna di una grande e, rispettabile, azienda commerciale. All’infuori di questo, l’unica cosa da mangiare che possedevano – sebbene non avesse affatto un aspetto commestibile – erano dei pezzi di una sostanza simile a pasta poco cotta, del colore della lavanda sporca, che tenevano avvolta nelle foglie; ogni tanto ne ingoiavano un boccone, ma così piccolo, che sembrava lo facessero più per le sembianze della cosa che per un serio scopo di sostentarsi. Perché poi in nome di tutti i diavoli della fame che rode non ci saltassero addosso – erano trenta contro cinque – e si facessero finalmente una bella scorpacciata, mi stupisce ancora quando ci penso. Erano degli uomini grandi e robusti, senza una gran capacità di valutare le conseguenze dei loro atti, ma coraggiosi e, anche se la loro pelle non era più lucida e i muscoli non erano più sodi, ancora forti. Capii che doveva essere entrato in gioco qualcosa a frenarli, uno di quei segreti dell’animo umano che sfuggono a qualsiasi calcolo delle probabilità. Li osservai con un acuto risveglio di interesse, non perché pensassi che mi potevano mangiare da un momento all’altro, sebbene vi debba confessare che proprio allora mi accorsi – guardando le cose sotto una nuova luce – di quanto malsani apparissero i pellegrini e speravo, sì, lo speravo sul serio, che il mio aspetto non fosse così – come potrei dire? – così poco appetitoso; un pizzico di stravagante vanità che ben si accordava con la sensazione onirica che permeava la mia vita a quell’epoca. Forse avevo anche un po’ di febbre. Ma non si può stare tutto il tempo a tastarsi il polso. Avevo spesso “un po’ di febbre” o un leggero attacco di altre cose: le zampate scherzose della landa selvaggia, le iniziali schermaglie che precedono l’assalto più serio che venne poi a tempo debito. Sì, li guardavo – come si guarderebbe un qualsiasi essere umano – curioso di capire quali avrebbero potuto essere i loro impulsi, moventi, risorse, debolezze, davanti alla prova di un’inesorabile necessità fisica. Un freno inibitore! Quale freno era possibile immaginare? Superstizione, disgusto, pazienza, paura, o una specie di primitivo onore? Non c’è paura che tenga davanti alla fame, non c’è pazienza che la plachi, e, dove c’è fame, il disgusto semplicemente non esiste. Quanto alle superstizioni, alle credenze, a quelli che voi chiamereste principi, pesano meno di un fuscello al vento. Conoscete l’inferno del digiuno prolungato, il suo tormento esasperante, i suoi neri pensieri, la tetra ferocia che si alimenta di nascosto? Beh, io sì. Un uomo deve far appello a tutta la sua forza innata, per combattere adeguatamente la fame. È molto più facile affrontare un lutto, il disonore, la perdita della propria anima che questo genere di fame protratta. Triste, ma vero. E non c’era ragione al mondo che quegli esseri si facessero degli scrupoli. Il ritegno! Era più facile aspettarselo da una iena che si aggiri famelica fra i cadaveri in un campo di battaglia. Eppure il fatto era lì davanti a me, lampante, inoppugnabile, come la schiuma sopra gli abissi del mare, come un’increspatura su un enigma insondabile; e, a pensarci bene, era un mistero più grande di quella strana, inspiegabile nota di afflizione disperata nel clamore selvaggio esploso accanto a noi, sulla sponda del fiume, dietro il cieco biancore della nebbia.
«Ma su quale sponda? Due pellegrini stavano litigando su questo punto in concitato bisbiglio. “Sinistra.” “No, no; ma figurati! Destra, destra, son sicuro.” “È una faccenda molto seria”, disse la voce del direttore dietro di me. “Sarei desolato se accadesse qualcosa al signor Kurtz prima del nostro arrivo.” Lo guardai in faccia e non ebbi il minimo dubbio che era sincero. Era proprio il genere di uomo che desidera innanzi tutto salvare le apparenze. Era quello il suo freno inibitore. Ma quando bofonchiò qualcosa sull’andare lì subito, non mi presi neanche la briga di rispondergli. Io sapevo, e lui anche, che era impossibile. Se avessimo mollato la presa sul fondo, ci saremmo trovati, letteralmente, in aria: nello spazio. Non avremmo più capito dove andavamo – se in giù o in su, o per traverso, del fiume – finché non saremmo finiti contro una sponda, ma neanche allora avremmo saputo dire subito qual’era delle due, la destra o la sinistra? Naturalmente non mi mossi. Non avevo nessuna intenzione di fracassare tutto. Sarebbe difficile immaginarsi un posto peggiore per un naufragio. Anche se non annegavamo subito, potevamo star sicuri che in un modo o nell’altro saremmo morti entro brevissimo tempo.
«”La autorizzo a correre qualsiasi rischio”, disse, dopo un breve silenzio. “E io mi rifiuto di correrne anche uno solo”, risposi secco secco. Era proprio la risposta che si aspettava, anche se il tono poteva averlo sorpreso. “In questo caso, devo rimettermi alle sue decisioni. È lei il capitano”, disse, con marcata cortesia. Per significargli la mia gratitudine, gli voltai le spalle per guardare nella nebbia. Quanto sarebbe durata? La prospettiva non era delle più rosee. La via d’accesso a quel Kurtz, che rastrellava la misera boscaglia in cerca d’avorio, era lastricata di così tanti pericoli quasi fosse una principessa addormentata sotto l’effetto di un incantesimo in un favoloso castello. “Crede che ci attaccheranno?” chiese il direttore, in tono confidenziale. “Pensavo che non ci avrebbero attaccato, per diverse e ovvie ragioni. Anzitutto la nebbia fittissima: se si fossero allontanati dalla riva nelle loro canoe vi si sarebbero persi, come noi, se ci fossimo azzardati a muoverci. Poi, anche se mi era parso che la giungla fosse assolutamente impenetrabile da entrambe le sponde, lì dentro c’erano degli occhi, degli occhi che ci avevano visto. La boscaglia lungo la riva era sicuramente molto fitta, ma più internamente il sottobosco era evidentemente più accessibile. Eppure, durante la breve schiarita, non avevo visto delle canoe da nessuna parte, certamente non all’altezza del battello. Ma ciò che per me rendeva inconcepibile l’idea di un attacco era la natura del clamore, delle grida che avevamo udito. Non avevano quel carattere feroce che prelude a un’immediata intenzione ostile. Per quanto inaspettate, selvagge e violente, mi avevano dato un’irresistibile impressione di dolore. Per chissà quale motivo, l’apparizione del battello aveva riempito quei selvaggi di una pena infinita. Il pericolo per noi, spiegai, ammesso che ci fosse, dipendeva dal fatto che ci trovavamo in prossimità di una grande passione umana senza freni. Anche il dolore estremo può risolversi in violenza, ma più spesso si traduce in apatia…
«Avreste dovuto vedere gli occhi spalancati dei pellegrini! Non ebbero il coraggio di ridermi in faccia e neanche di insultarmi, ma credo che pensassero che ero diventato matto, di paura, forse. Tenni una conferenza vera e propria. Cari ragazzi, non c’era di che preoccuparsi. Stare all’erta? Beh, come potete immaginare, io guatavo la nebbia per vedere se c’era il minimo segno di schiarita, come un gatto guata un topo; ma per qualsiasi altro uso gli occhi ci erano altrettanto inutili che se fossimo stati sepolti a qualche chilometro di profondità sotto una montagna di ovatta, con anche la stessa sensazione di soffoco, calore, asfissia. Del resto, tutto quello che dissi ai pellegrini, per quanto stravagante sembrasse allora, era invece la pura verità. Quello che in seguito considerammo come un attacco, in realtà, non fu che un tentativo di respingerci. Lungi dall’essere aggressiva l’azione non era neanche difensiva, nel senso usuale del termine: intrapresa sotto la spinta della disperazione, non era che un modo per proteggersi da noi.
«Si svolse, direi, due ore dopo che la nebbia si era alzata, e iniziò in un luogo che si trovava, grosso modo, a circa un miglio e mezzo sotto la stazione di Kurtz. Avevamo appena doppiato faticosamente un’ansa, quando un’isoletta, nulla più che una cunetta erbosa di un verde brillante, mi apparve in mezzo all’acqua. Era la sola del genere, ma quando avanzammo un poco, vidi che essa costituiva la punta avanzata di un lungo banco di sabbia, o meglio di una catena di secche che si stendevano nel mezzo del fiume. Erano scolorite, appena affioranti e si intravvedevano sotto il pelo dell’acqua, proprio come, lungo la schiena, sotto la pelle di un uomo si intravvede correre la spina dorsale. Per quanto avevo modo di vedere, ci si poteva passare sia da destra che da sinistra. Naturalmente, io non conoscevo i due lati del canale. Le sponde parevano quasi identiche e anche la profondità sembrava la stessa, ma siccome mi avevano detto che la stazione si trovava sulla riva occidentale, mi diressi istintivamente verso il passaggio a ovest.
«Non appena imboccato, si rivelò molto più stretto di quanto mi fosse sembrato. Alla nostra sinistra si stendeva la lunga, ininterrotta fila di secche e, a destra, la sponda alta e ripida, era coperta da una folta macchia, con dietro gli alberi svettanti in ranghi serrati. Il fogliame pendeva fitto sul fiume e di tanto in tanto un grosso ramo si protendeva rigido di traverso. Nel pomeriggio ormai inoltrato, il volto della foresta appariva cupo, e sull’acqua era già scesa una larga striscia d’ombra. Era in quell’ombra che avanzavamo, molto a rilento, non c’è bisogno che ve lo dica. Mi tenevo il più possibile accostato alla sponda, perché l’acqua, come indicavano gli scandagli fatti con la pertica, era più profonda lungo la riva.
«Uno dei miei amici affamati, costretti all’astinenza, scandagliava a prua proprio sotto di me. Quel battello era fatto come una chiatta pontata. Sul ponte c’erano due casette in legno di tek, con porte e finestre. La caldaia si trovava a prua e le macchine a poppa. Il tutto era ricoperto da un tetto leggero, sostenuto da quattro puntali. Il fumaiolo sbucava dal tetto, e proprio davanti al fumaiolo una stretta cabina, costruita con assi sottili, fungeva da cabina di pilotaggio. Conteneva una cuccetta, due seggiolini da campo, una Martini-Henry carica in un angolo, un minuscolo tavolino e la ruota del timone. Sul davanti un’ampia porta e due larghi portelli ai lati. Porta e portelli, naturalmente, erano sempre spalancati. Io passavo le mie giornate lassù, appollaiato all’estremità prodiera di quel tetto, davanti alla porta. Di notte dormivo, o cercavo di dormire, sulla cuccetta. Un atletico nero che apparteneva a non so quale tribù costiera e che era stato istruito dal mio sfortunato predecessore, era il timoniere. Portava dei vistosi orecchini di ottone, una specie di guaina di stoffa blu che lo avvolgeva dalla vita alle caviglie e aveva di sé la più alta opinione. Era il pazzo più imprevedibile che avessi mai incontrato. Finché si era lì, teneva il timone con l’aria del padrone del vapore, ma appena si girava l’occhio, in balia di una fifa invereconda, lasciava che quello sciancato di un battello gli prendesse in un attimo la mano.
«Stavo osservando lo scandaglio, molto contrariato nel constatare che, a ogni immersione, dall’acqua ne sporgeva un pezzo sempre più lungo, quando vidi il mio scandagliatore piantar tutto in asso e buttarsi bocconi sul ponte senza nemmeno curarsi di ritirare la pertica. Però non l’aveva mollata e quella continuava a trascinarsi nell’acqua. Nello stesso momento, vidi il fuochista, anche lui sotto di me, sedersi di colpo davanti alla caldaia infossando la testa fra le spalle. Ero esterrefatto, ma dovetti subito volgere gli occhi al fiume perché sulla nostra strada c’era un tronco d’albero. Intorno volavano dei bastoncini, dei piccolissimi bastoncini fitti fitti; mi sibilavano davanti al naso, cadevano ai miei piedi, battevano dietro a me contro la cabina. E intanto, il fiume, la riva, i boschi erano silenziosi, assolutamente silenziosi. Non si udiva che il poderoso tonfo sciabordante della nostra ruota poppiera e il picchiettio di quelle cose che volavano. Senza eleganza, ma il tronco lo scansammo. Erano frecce, per Giove! E le lanciavano contro di noi! Rientrai rapido per chiudere il portello dal lato della terra. Quell’idiota del timoniere, le mani strette alle caviglie della ruota, alzava le ginocchia, pestava i piedi, si mordeva la bocca, come un cavallo imbrigliato. Maledizione a lui! E noi ci trascinavamo barcollando a tre metri dalla sponda! Dovetti sporgermi in fuori per smuovere il pesante portello e allora vidi una faccia fra le foglie, all’altezza della mia, che mi guardava con feroce fissità. Ed ecco che, all’improvviso, come se mi fosse caduta una benda dagli occhi, distinsi, in fondo a quel tenebroso intrico vegetale, dei petti nudi, delle braccia, delle gambe, degli occhi abbaglianti: la boscaglia brulicava di forme umane in movimento, lucenti, del colore del bronzo. Dai rami che si agitavano, dondolavano, frusciavano, uscivano volando le frecce, e, finalmente il portello si chiuse. “Tienila dritta”, dissi al timoniere. Teneva la testa ferma, la faccia protesa, ma gli occhi roteavano, e continuava ad alzare e ad abbassare adagio i piedi, con un po’ di bava alla bocca. “Sta fermo!”, dissi infuriato. Era come se avessi ordinato a un albero di non muoversi al vento. Schizzai fuori. Sotto di me, sul ponte di ferro, sentivo un gran scalpiccio e degli schiamazzi confusi. Una voce gridò: “Non può tornare indietro?” Sull’acqua davanti a noi scorsi un’increspatura a forma di V. Cosa? Un altro tronco! Sotto i miei piedi scoppiò una scarica di fucili. I pellegrini avevano aperto il fuoco con i loro Winchester e stavano letteralmente innaffiando di piombo la boscaglia. Si formò un malefico nuvolone di fumo che avanzava lentamente sul fiume. Bestemmiai. Non potevo più vedere né l’increspatura né il tronco. Facendo capolino, mi tenevo sul vano della porta con le frecce che arrivavano a sciami. Potevano anche essere avvelenate, ma a vederle, non sembravano in grado di far male a un gatto. La boscaglia cominciò a ululare. I nostri taglialegna lanciarono un grido di guerra e lo sparo di una carabina proprio dietro la schiena mi assordò. Diedi un’occhiata sopra la mia spalla e nella cabina ancora piena di rumore e fumo, con un balzo, mi lanciai sulla ruota del timone. Quel deficiente del nero aveva mollato tutto per spalancare il portello e metter fuori la Martini-Henry. Stava in piedi davanti alla larga apertura, con l’aria feroce e, mentre gli gridavo di tornare al timone, raddrizzai l’improvvisa torsione del battello. Non c’era spazio per far marcia indietro neanche se lo avessi voluto; il tronco era da qualche parte davanti a noi, molto vicino, nascosto da quel fumo maledetto; non c’era tempo da perdere, perciò schiacciai il battello contro la sponda, dritto contro la sponda, dove sapevo che l’acqua era più profonda.
«Ci aprimmo lentamente un varco attraverso i cespugli sporgenti in un vortice di rametti spezzati e di foglie che cadevano. Il fuoco di fila si interruppe di botto, come avevo previsto sarebbe accaduto, una volta sparate tutte le sue cartucce. Ritrassi la testa per evitare un baluginio sibilante che attraversò la cabina, entrando dal varco di un portello e uscendo dall’altro. Al di là del timoniere demente che brandiva la carabina scarica urlando in direzione della riva, vidi delle vaghe forme umane correre piegate in due, saltare, strisciare, indistinte, incomplete, evanescenti. Qualcosa di grosso apparve nell’aria davanti al portello, la carabina filò in acqua e l’uomo, indietreggiando rapido, mi lanciò di traverso un’occhiata straordinaria, profonda e familiare, e poi cadde ai miei piedi. Batté la testa due volte sulla ruota del timone e l’estremità di quella che sembrava una lunga canna sbatacchiò in giro rovesciando uno dei seggiolini da campo. Si sarebbe detto che dopo aver strappato quella cosa dalle mani di qualcuno sulla riva, avesse perso l’equilibrio nello sforzo. Il fumo sottile era svanito, avevamo evitato il tronco, e guardando in avanti vidi che a un centinaio di metri più in là sarei stato libero di scostarmi dalla sponda, ma dovetti abbassare lo sguardo perché mi sentii improvvisamente i piedi caldi e bagnati. L’uomo era riverso sulla schiena con gli occhi fissi su di me e le mani avvinghiate a quella canna. Era l’asta di una lancia che, scagliata o affondata attraverso il portello, lo aveva colpito al fianco appena sotto le costole. La lama era entrata tutta, sino a scomparire, dopo aver fatto un terribile squarcio. Avevo le scarpe piene e una pozza di sangue si stendeva immobile in un luccichio rosso scuro sotto la ruota del timone. Gli occhi dell’uomo brillavano di un sorprendente splendore. La sparatoria ricominciò. Mi rivolse uno sguardo ansioso, stringendo la lancia come una cosa preziosa, come se avesse paura che io cercassi di portargliela via. Dovetti fare uno sforzo per distogliere gli occhi da quello sguardo e occuparmi del timone. Con una mano cercai a tentoni, sopra la mia testa, la cordicella del fischio a vapore e la strattonai stridore dopo stridore precipitosamente. Il tumulto delle grida furiose e guerriere si interruppe all’istante e dalle profondità del bosco si alzò, tremulo e prolungato, un gemito di disperato spavento e di costernazione estrema, simile a quello che, ci si immagina, seguirebbe all’involarsi dell’ultima speranza da questa terra. Ci fu un gran fermento nel sottobosco: la pioggia di frecce cessò, qualche sparo isolato echeggiò sonoro, e poi il silenzio, in cui il languido battito della ruota poppiera mi arrivò distintamente all’orecchio. Stavo mettendo il timone a tutta dritta nel momento in cui, nel vano della porta, apparve il pellegrino in pigiama rosa, molto accaldato e su di giri.
«”Mi manda il direttore…”, cominciò in tono ufficiale ma si interruppe di botto. “Dio santo!”, disse, spalancando gli occhi alla vista del ferito.
«Noi due bianchi stavamo sopra di lui e lui con i suoi occhi lustri e inquisitori ci avvolgeva entrambi nel suo sguardo. Ve lo assicuro, sembrava che stesse per farci una domanda, in una lingua comprensibile, invece morì, senza emettere un suono, senza muovere un arto, senza contrarre un muscolo. Solo all’ultimo istante, come in risposta a un segno che noi non potevamo vedere, a un sussurro che non potevamo udire, aggrottò profondamente la fronte e quella fronte aggrottata impresse sulla sua nera maschera di morte un’espressione indicibilmente cupa, torva e minacciosa. La lucentezza di quello sguardo inquisitore non fu ben presto che vitrea vacuità.
«”È capace di governare una barca?”, chiesi brusco all’agente. Mi guardò dubbioso, ma io feci l’atto di afferrargli un braccio ed egli capì immediatamente che intendevo dargli il timone in mano, capace o meno che fosse a tenerlo. Per dire la verità, avevo un bisogno quasi morboso di cambiarmi le calze e le scarpe.
«”È morto”, mormorò l’agente, immensamente impressionato. “Su questo non c’è dubbio”, dissi io, strappandomi furiosamente i lacci delle scarpe. “A proposito, suppongo che a quest’ora sia morto anche il signor Kurtz.”
«In quel momento, era quello il mio pensiero dominante. Provavo una grandissima delusione: come se avessi scoperto di aver rincorso una cosa assolutamente inconsistente. Non mi sarei sentito più disgustato se avessi intrapreso tutto quel viaggio al solo scopo di parlare con il signor Kurtz. Parlare con… Lanciai una scarpa fuori bordo, e mi resi conto che era proprio quello che non vedevo l’ora di fare: parlare con Kurtz. Feci la strana scoperta che di lui non avevo una immagine di un agire, capite?, ma di un discorrere. Non mi dicevo: “Dunque non lo vedrò mai”, o “Non gli stringerò mai la mano”, ma, “Dunque non lo udrò mai.” Quell’uomo si presentava come una voce. Naturalmente non è che non lo associassi a qualche specie di azione. Su tutti i toni dell’invidia e dell’ammirazione, non mi avevano forse detto che da solo aveva raccolto, barattato, estorto o rubato più avorio lui di tutti gli altri agenti messi insieme? Non si trattava di questo. Si trattava del fatto che, fra tutte le doti di quell’essere tanto dotato, quella che emergeva in modo preponderante, che dava il senso di una presenza reale, era la sua capacità di parlare, il dono della parola: questa dote che sconcerta o illumina, la più nobile e la più spregevole, vivificante flusso di luce o torrente ingannatore scaturito dal cuore di una tenebra impenetrabile.
«Anche l’altra scarpa andò volando al dio maligno di quel fiume. Pensai, per Giove! è finita. Siamo arrivati troppo tardi. Lui è svanito, il dono è svanito, per opera di una lancia o di una freccia o di un bastone. Dunque non lo udrò mai parlare. C’era nella mia afflizione uno strano eccesso emotivo, simile a quello che avevo avvertito nell’angoscioso ululato di quei selvaggi nella boscaglia. Non avrei sentito una peggiore desolata solitudine, se fossi stato derubato di una fede o se avessi mancato al mio destino in questa vita… Perché qualcuno ha sbuffato in modo così bestiale? Assurdo, dice? Va bene, assurdo. Signore Iddio! Un uomo non deve mai… Basta, datemi del tabacco.»
Ci fu una pausa di profonda quiete, poi, alla luce di un fiammifero, apparve il magro volto di Marlow, consunto, svuotato, le pieghe cascanti, le palpebre abbassate, l’aria attenta e concentrata; e mentre dava vigorose tirate alla sua pipa, nello sfavillio regolare di quella piccola fiamma, sembrava emergere dalla notte per poi sprofondarvi. Il fiammifero si spense.
«Assurdo!», esclamò. «È questa la cosa peggiore quando si cerca di raccontare… Eccovi qua tutti, ciascuno ormeggiato a due buoni indirizzi, come un vecchio scafo alle sue due ancore, il macellaio da una parte, il poliziotto dall’altra, eccellenti appetiti e temperatura del corpo normale – normale, capite – dall’inizio alla fine dell’anno. E dite assurdo! Assurdo un corno! Assurdo! Cari miei, che cosa vi potevate aspettare da un uomo che, in uno scatto di nervi, aveva appena fatto volare fuori bordo un paio di scarpe nuove! Quando ci penso, mi sembra sorprendente di non essermi messo a piangere. E, tutto considerato, sono fiero della mia forza d’animo. Mi pungeva sul vivo l’idea di aver perduto l’inestimabile privilegio di ascoltare il dotatissimo Kurtz. Naturalmente, avevo torto: il privilegio mi stava aspettando. Ah sì, ne ho sentito più che abbastanza. Ma avevo anche ragione: era una voce. Poco più di una voce. E ho udito – lui – lei – quella voce – altre voci – erano tutti poco più che delle voci – e il ricordo stesso di quell’epoca si attarda intorno a me, impalpabile, come la vibrazione morente di un immenso bla bla bla, sciocco, atroce, sordido, selvaggio o semplicemente meschino e insensato. Voci, voci… la ragazza stessa… ormai…»
Stette zitto a lungo.
«Alla fine ho placato il fantasma delle sue doti con una bugia», riprese all’improvviso. «La ragazza! Cosa? Ho parlato di una ragazza? Ma lei non c’entra, assolutamente. Loro – le donne, voglio dire – sono al di fuori di tutto questo, o almeno dovrebbero esserlo. Dobbiamo aiutarle a stare in quel bellissimo mondo che è il loro, se non vogliamo che il nostro diventi ancora peggiore. Oh, lei non c’entrava. Avreste dovuto sentirlo il cadavere dissepolto del signor Kurtz dire, “La mia fidanzata.” Avreste percepito immediatamente a qual punto lei fosse estranea a tutto ciò. E quel grande osso frontale del signor Kurtz! Dicono che qualche volta i capelli continuino a crescere, ma questo… ehm… questo esemplare era di una calvizie impressionante. La selva selvaggia gli aveva dato un buffetto sulla testa, ed ecco, era diventata come una palla: una palla d’avorio. Lo aveva accarezzato e toh, lui era avvizzito; lo aveva preso, amato, tenuto fra le braccia, era entrata nelle sue vene, aveva consumato la sua carne, aveva posto il suo sigillo sulla sua anima attraverso inconcepibili riti di una qualche diabolica iniziazione. Era il suo favorito, coccolato e viziato. Avorio? Ma direi! Mucchi, montagne di avorio. La vecchia baracca di fango era piena da scoppiarne. C’era da pensare che non ne restasse nemmeno una zanna, né sopra né sotto la terra di quel paese. “Per la maggior parte fossile”, fu il commento denigratorio del direttore. Era meno fossile di me, ma lo chiamano fossile quando lo dissotterrano. Sì, sembra che i neri a volte seppelliscano le zanne, ma evidentemente quella partita non l’avevano seppellita a profondità sufficiente da sottrarre il dotato signor Kurtz al suo destino. Riempimmo il battello di avorio e ne dovemmo accatastare un mucchio anche sul ponte. Così, finché fu in grado di vedere, lo potè guardare, e goderne, perché fino alla fine apprezzò quel suo fiore all’occhiello. Avreste dovuto sentirgli dire: “Il mio avorio.” Ah! io l’ho sentito. “La mia fidanzata, il mio avorio, la mia stazione, il mio fiume, il mio…” Era tutto suo. E io trattenevo il fiato aspettandomi di udire la selva selvaggia scoppiare in una fragorosa risata che avrebbe scosso le stelle fisse sul loro asse. Apparteneva tutto a lui, ma questo sarebbe stato irrilevante. L’importante era sapere a chi apparteneva lui, quante potenze della tenebra lo rivendicassero come loro proprietà. Quella era la riflessione che vi faceva accapponare la pelle. Era impossibile – e anche malsano – cercare di indovinarlo. Aveva occupato un posto molto elevato fra i demoni di quel paese, lo dico letteralmente. Voi non potete capire. E come potreste, voi che avete un terreno solido sotto i piedi, che siete circondati da vicini cortesi, pronti ad applaudire o a gettarsi su di voi, voi che vi muovete a piccoli passi guardinghi fra il macellaio e il poliziotto, col sacro terrore dello scandalo, della prigione e del manicomio? Come riuscireste a immaginare in quale particolare regione delle epoche primordiali i piedi senza impacci di un uomo lo possano portare lungo la via della solitudine – una solitudine assoluta senza un poliziotto – lungo la via del silenzio, un silenzio assoluto, dove non si può sentire la voce ammonitrice di un cortese vicino che si fa eco dell’opinione della gente? Sono queste piccole cose che fanno la grande differenza. E quando non ci sono più si deve ricorrere alla propria forza interiore, alla propria capacità di restare fedeli. Certo, si può anche essere troppo sciocchi per correre il rischio di perdersi, troppo ottusi persino per sospettare di star subendo l’assalto dei poteri della tenebra. Potrei scommetterlo: uno sciocco non ha mai fatto un patto col diavolo per vendergli l’anima. O lo sciocco è troppo sciocco, o il diavolo è troppo diavolo: una delle due. Oppure si può essere degli esseri talmente al di sopra da rimanere sordi e ciechi a qualsiasi cosa tranne che alle visioni e ai suoni celesti. Per costoro la terra non è che un luogo di passaggio, e, se per chi è così sia una perdita o un guadagno, io non ho la pretesa di saperlo. Ma la maggior parte di noi non è né l’uno né l’altro. Per noi la terra è un luogo in cui ci si deve vivere, dove si devono sopportare spettacoli, rumori, e anche odori, per Giove! – respirare carogna di ippopotamo, per esempio, – e non restarne contaminati. Ed è qui, vedete?, che entra in gioco la forza personale, la fiducia nella propria capacità di scavare delle fosse non troppo vistose per seppellirvi quella roba: la capacità di dedizione, non a se stessi, ma a qualche oscura, estenuante faccenda. E non è una cosa facile. Badate, non sto cercando di giustificare e neanche di spiegare. Sto solo cercando di farmi una ragione di… del signor Kurtz…, dell’ombra del signor Kurtz. Questo iniziato fantasma, scaturito dal fondo del Nulla, mi onorò delle sue sorprendenti confidenze prima di sparire in modo definitivo. Semplicemente perché poteva parlare inglese con me. Il Kurtz originario, quello in carne e ossa, aveva ricevuto parte della sua educazione in Inghilterra e – come ebbe la bontà di dirmi – le sue simpatie restavano collocate al posto giusto. Sua madre era per metà inglese e suo padre per metà francese. L’Europa intera aveva contribuito alla formazione di Kurtz; e un po’ alla volta venni a sapere che, molto a proposito, la Società Internazionale per la Soppressione delle Usanze Selvagge lo aveva incaricato di redigere un rapporto, destinato alla sua guida futura. E lui l’aveva scritto quel rapporto. L’ho visto. L’ho letto. Era eloquente, vibrante di eloquenza, ma, forse, un po’ troppo sublime. Aveva trovato il tempo per scrivere diciassette pagine fitte fitte! Ma questo doveva essere avvenuto prima che i suoi – diciamo nervi – saltassero, e lo portassero a presiedere a certe danze notturne, che si concludevano con riti innominabili, che – da quello che ho potuto capire attraverso ciò che ho sentito con riluttanza a più riprese – venivano offerti a lui, capite? Al signor Kurtz! Ma era un bel saggio di scrittura. Il paragrafo iniziale, tuttavia, alla luce delle informazioni successive, mi appare adesso sinistramente significativo. Cominciava con il dichiarare che noi bianchi, al punto di sviluppo a cui siamo arrivati, “dobbiamo necessariamente apparire a loro (ai selvaggi) come degli esseri soprannaturali; ci accostiamo a loro con una forza quasi divina”, ecc., ecc. “Con il semplice esercizio della nostra volontà possiamo esercitare un potere, al servizio del bene, praticamente illimitato”, ecc., ecc. A quel punto si librava trasportandomi in alto. La perorazione era magnifica, anche se difficile da ricordare, capite. Mi fece pensare a un’Immensità esotica retta da un’augusta Benevolenza. Mi fece fremere di entusiasmo. Era questo il potere illimitato dell’eloquenza – della parola – di nobili parole infiammate. Non c’erano suggerimenti pratici a interrompere il flusso magico delle frasi, a meno che una specie di nota in fondo all’ultima pagina, scarabocchiata evidentemente molto dopo, con mano malferma, possa essere considerata l’enunciazione di un metodo. Era molto semplice, e come conclusione di quel commovente appello a tutti i sentimenti più altruistici, balenava davanti a voi, luminosa e terrificante, come un fulmine a ciel sereno: “Sterminare tutti questi bruti!” La cosa più curiosa è che doveva aver apparentemente dimenticato del tutto quel prezioso post-scriptum, perché, più tardi, quando in un certo senso ritornò in sé, mi pregò ripetutamente di prendermi cura del suo “pamphlet” (è così che lo chiamava), perché sicuramente in futuro avrebbe influito favorevolmente sulla sua carriera. Ebbi informazioni complete su tutte queste cose e, inoltre, accadde che dovetti essere io a prendermi cura della sua memoria. Ciò che ho fatto per lei mi darebbe l’indiscutibile diritto di depositarla, se questa fosse la mia scelta, nel secchio delle spazzature del progresso, per un eterno riposo in mezzo a tutti i rifiuti e – parlando metaforicamente – a tutti i gatti morti della civiltà. Ma, in realtà, vedete, non ho scelta. Non si lascia dimenticare. Qualsiasi cosa fosse non era un uomo comune. Aveva il potere di incantare o atterrire le anime semplici al punto che in suo onore si lanciavano in un esaltato sabba; aveva anche il potere di infondere nelle animucce dei pellegrini amari presagi. Aveva almeno un amico devoto, e aveva conquistato un’anima al mondo che non era né semplice né macchiata di egoismo. No, non lo posso dimenticare, anche se non sono disposto ad affermare che lui valesse la vita dell’uomo che perdemmo per arrivare da lui. Il mio timoniere morto mi mancava terribilmente. Mi mancava già quando ancora il suo corpo giaceva nella cabina del timone. Forse vi sembrerà piuttosto strano questo rimpianto per un selvaggio che contava quanto un granello di sabbia in un Sahara nero. Ma, vedete, aveva fatto qualcosa: aveva governato la barca; per mesi l’avevo avuto dietro di me – un aiuto – uno strumento. Era una specie di associazione la nostra: lui governava per me, io lo sorvegliavo, mi preoccupavo delle sue deficienze, e così si era creato un sottile legame, di cui mi resi conto solo nel momento in cui fu improvvisamente spezzato. E la profonda intimità dello sguardo che mi aveva lanciato quando era stato colpito, rimane ancor oggi nella mia memoria, come se nel momento supremo, avesse voluto attestare una nostra lontana parentela.
«Che scemo! Bastava che avesse lasciato stare quel portello! Ma non aveva alcun freno, nessun freno inibitore – proprio come Kurtz – un albero in balia del vento. Non appena ebbi infilato un paio di pantofole asciutte, lo trascinai via dalla cabina, dopo avergli tirato fuori la lancia dal fianco, operazione che eseguii, lo confesso, con gli occhi ben chiusi. I suoi talloni sobbalzarono insieme sul piccolo gradino della porta; mi stringevo le sue spalle contro al petto abbracciandolo da dietro disperatamente. Oh! era pesante, pesante; mi sembrava più pesante di qualsiasi altro uomo al mondo. Poi, senza altre cerimonie, lo feci precipitare fuori bordo. La corrente lo afferrò come se fosse un ciuffo d’erba, e vidi il corpo rigirarsi due volte prima di sparire per sempre. Tutti i pellegrini, con anche il direttore, erano radunati in quel momento sul ponte di comando intorno alla cabina del timone. Ciarlavano fra loro, come uno stormo di gazze eccitate e la mia diligenza impietosa sollevò un mormorio scandalizzato. Perché poi ci tenessero a conservare quel corpo, non lo riesco proprio a capire. Per imbalsamarlo, forse. Intanto sul ponte sottostante era corso un altro mormorio, e molto minaccioso. I miei amici, i taglialegna, erano anche loro scandalizzati, e con una parvenza di maggior ragione, benché non esiti a riconoscere che non era una ragione proprio ammissibile. Ah, proprio no! Avevo deciso che se il mio timoniere doveva essere mangiato, sarebbero stati solo i pesci ad averlo. Da vivo, era stato un timoniere di second’ordine, ma adesso che era morto poteva diventare una tentazione di primissima qualità, e magari provocare qualche guaio serio. E per di più, ero anche ansioso di riprendere il timone, dato che l’uomo col pigiama rosa era totalmente negato alla bisogna.
«Cosa che mi affrettai a fare non appena concluso quel semplice funerale. Procedavamo a velocità ridotta, tenendoci nel mezzo della corrente, e io ascoltavo i discorsi attorno a me. Davano Kurtz per spacciato e spacciata la stazione: cioè, Kurtz era morto e la stazione bruciata, e via su questo tono. Il pellegrino dal pelo fulvo era fuori di sé al pensiero che quel povero Kurtz per lo meno era stato degnamente vendicato. “Eh sì, dobbiamo aver fatto proprio un bel macello dentro alla boscaglia. Vero? Cosa ne pensate? Eh?” Gongolava, letteralmente, quel rosso malpelo assetato di sangue. Ed era quasi svenuto alla vista del ferito! Non potei trattenermi dal dire: “Quel che è certo è che avete fatto un bel po’ di fumo.” Avevo visto, dal modo in cui si muovevano e volavano le cime dei cespugli, che quasi tutti i colpi erano stati troppo alti. Non si colpisce niente se non si prende la mira e non si imbraccia il fucile; quei tangheri sparavano tenendolo appoggiato all’anca e con gli occhi chiusi. La ritirata, dichiarai, – e avevo ragione – era dovuta unicamente allo stridore del fischio. Al che si dimenticarono di Kurtz e iniziarono a sbraitare, protestando indignati contro di me.
«Mentre il direttore, in piedi vicino al timone, mi mormorava confidenzialmente all’orecchio, qualcosa sulla necessità di ridiscendere la corrente per un bel tratto, prima del calar del sole, come precauzione, scorsi da lontano una radura sulla riva del fiume, e la sagoma di una specie di edificio. “Che cos’è?”, chiesi. Stupitissimo, battè le mani. “La stazione!”, esclamò. Mi spostai immediatamente verso riva, senza aumentare la velocità.
«Col binocolo vidi il pendio di una collina con pochi alberi distanziati fra loro, completamente sgombra dal sottobosco. Un lungo edificio fatiscente appariva sulla cima, mezzo sepolto sotto l’erba incolta; dei grandi buchi nel tetto a punta, si spalancavano da lontano tutti neri; la giungla e la foresta facevano da sfondo. Non c’era né palizzata né steccato di nessuna specie; ma doveva essercene stato uno, perché vicino alla casa, restavano allineati una mezza dozzina di sottili pali, rozzamente squadrati e con le punte ornate di rotondi pomi intagliati. Le traverse, o quello che poteva esserci in mezzo a loro, erano sparite. Naturalmente la foresta circondava tutto, ma la riva era sgombra e sul bordo dell’acqua vidi un bianco, sotto un cappello simile alla ruota di un carro che si sbracciava per richiamare la nostra attenzione. Esaminando il margine della foresta sopra e sotto, ebbi quasi la certezza di vedere dei movimenti: delle forme umane che scivolavano silenziose qua e là. Per prudenza passai oltre quel luogo, e poi fermai le macchine, lasciandoci trasportare dalla corrente. L’uomo sulla riva iniziò a vociare, incitandoci a scendere a terra. “Siamo stati attaccati”, strillò il direttore. “Lo so, lo so. Va tutto bene”, gridò in risposta l’altro, molto gioviale. “Venite. Tutto bene. Son contento.”
«Il suo aspetto mi ricordava qualcosa, qualcosa di stravagante che avevo già visto da qualche parte. Mentre facevo manovra per attraccare, mi domandavo: “Ma a cos’è che assomiglia quello lì?” E improvvisamente mi venne in mente. Assomigliava a un arlecchino. I suoi vestiti erano fatti di quello che senz’altro era stato una volta del lino greggio, ma erano tutti coperti di toppe, dai colori vivaci, blu, rosse e gialle, toppe sul dorso, toppe sul davanti, sui gomiti, sulle ginocchia; una fettuccia colorata orlava la giacca, una bordura rossa il fondo dei pantaloni, e alla luce del sole appariva estremamente gaio e lindo nello stesso tempo, perché si vedeva con quale cura era stata fatta tutta quella rattoppatura. Un volto imberbe, da ragazzo, molto chiaro, privo di tratti caratteristici, il naso spellato, occhietti azzurri, sorrisi e aggrottamenti che si inseguivano su quella fisionomia aperta, come il sole e l’ombra su una pianura spazzata dal vento. “Attento, capitano!”, gridò. “C’è un tronco d’albero insediato qui dalla notte scorsa.” Cosa? Un altro? Confesso di aver bestemmiato senza ritegno. Mancava solo che squarciassi la mia bagnarola per concludere quel magnifico viaggio. L’arlecchino sulla riva sollevò il nasetto camuso verso di me. “Inglese?”, domandò, tutto sorrisi. “E lei?”, urlai dalla ruota. I sorrisi si spensero e scosse la testa come per scusarsi di dovermi deludere. Poi si rilluminò. “Pazienza!”, esclamò, incoraggiante. “Arriviamo in tempo?”, chiesi. “Lui è lassù”, rispose con una scrollata del capo verso la cima della collina, improvvisamente incupito. La sua faccia era simile al cielo d’autunno, ora coperto ora luminoso.
«Quando il direttore, scortato dai pellegrini armati fino ai denti, se ne andò in casa, il giovinotto salì a bordo. “Guardi, non mi piace per niente. Ci sono gli indigeni nella boscaglia”, dissi. Mi assicurò caldamente che andava tutto bene. “È gente semplice”, aggiunse, “ma, son contento che siate venuti. Mi toccava passar tutto il tempo a tenerli a bada.” “Ma non ha detto che andava tutto bene!”, sbottai. “Oh, non avevano cattive intenzioni”, disse, e siccome lo fissai con gli occhi sgranati, si corresse: “Non proprio.” Poi con vivacità: “Perbacco, la sua cabina ha bisogno di una ripulita!” E senza riprendere fiato, mi consigliò di tenere abbastanza vapore nella caldaia per azionare il fischio in caso di allarme.”Una bella fischiata vi sarà più utile di tutti i vostri fucili. È gente semplice”, ripeté. Mi mitragliava di parole fino a stordirmi. Sembrava volersi rifare di silenzi accumulati, e di fatti mi lasciò capire, ridendo, che era proprio così. “Non parla con il signor Kurtz?”, chiesi. “Non si parla con un uomo come lui, lo si ascolta”, esclamò in tono severo e esaltato. “Ma adesso…” Agitò il braccio e in un batter d’occhio si trovò sprofondato nell’abisso dello scoraggiamento. D’un balzo però ne riemerse, si impossessò delle mie mani e senza smettere di stringerle, farfugliò: “Fratello marinaio… che onore… piacere… gioia… mi presento… russo… figlio di un arciprete… patriarcato di Tambov… Cosa! Del tabacco? Del tabacco inglese? L’eccellente tabacco inglese! Ah, questo sì che è da fratello. Se fumo? E qual è il marinaio che non fuma?”
«La pipa lo sedò, e poco a poco colsi che era scappato da scuola, si era imbarcato su una nave russa, era scappato di nuovo, aveva servito per un po’ su delle navi inglesi e poi si era riconciliato con l’arciprete. Attribuiva grande importanza a questo fatto. “Ma quando si è giovani bisogna vedere il mondo, accumulare esperienza, idee, allargare la mente.” “Qui!”, lo interruppi. “Non si può mai dire! Qui ho incontrato il signor Kurtz”, disse con un tono di rimprovero e di giovanile solennità. Al che tenni a freno la lingua. Pare che avesse persuaso una ditta commerciale olandese della costa ad affidargli delle provviste e delle mercanzie ed era partito per l’interno a cuor leggero, e con più incoscienza di un bambino su quello che poteva capitargli. Aveva vagato sul fiume per quasi due anni, da solo, separato da tutto e da tutti. “Non sono così giovane come sembro. Ho venticinque anni”, disse. “All’inizio il vecchio Van Shuyten aveva provato a mandarmi al diavolo”, raccontò, molto divertito, “ma io, incollato alle sue calcagna, parlavo e parlavo, tanto che alla fine, temendo di restare schiacciato sotto la mia ruota libera, mi riempì di paccottiglia e di qualche fucile, dicendomi che sperava di non rivedere mai più la mia faccia. Bravo vecchio, l’olandese, Van Shuyten. Gli ho spedito una piccola partita di avorio un anno fa, così quando torno non potrà dire che sono un lestofante. Spero che l’abbia ricevuto. E del resto me ne infischio. Avevo preparato della legna per lei. Quella era la mia vecchia casa. L’ha vista?”
«Gli porsi il libro di Towson. Stava quasi per buttarmi le braccia al collo, ma si trattenne. “Il solo libro che mi restasse e pensavo di averlo perso”, disse, guardandolo estasiato. “Capitano tanti accidenti, sa, a un uomo che se ne va in giro da solo. Le canoe ogni tanto si capovolgono e qualche volta bisogna anche battersela in fretta quando la gente si arrabbia.” Sfogliava le pagine. “Ci ha fatto delle annotazioni in russo?”, chiesi. Annuì. “Pensavo che fossero scritte in codice”, dissi. Si mise a ridere, poi, serio: “Ho fatto molta fatica a tenere a bada quella gente.” “Volevano uccidervi?”, chiesi. “Oh, no!”, esclamò, interrompendosi subito. “E perché ci hanno attaccati?”, continuai. Esitò, poi con una sorta di pudore disse: “Non vogliono che lui se ne vada.” “Davvero?”, dissi incuriosito. Annuì con un cenno pieno di saggezza e di mistero. “Badi bene”, esclamò, “quell’uomo mi ha allargato la mente.” Spalancò le braccia, guardandomi coi suoi occhietti azzurri, tondi tondi.

III

«Lo guardai, smarrito per lo stupore. Era lì davanti a me, vestito da buffone, come se fosse scappato da una compagnia di saltimbanchi, entusiasta e favoloso. Il solo fatto che esistesse era inverosimile, inspiegabile, assolutamente sconcertante. Era uno di quei problemi che non si risolvono. Impossibile immaginarsi in che modo avesse vissuto, come avesse potuto arrivare tanto lontano, cosa avesse fatto per rimanervi, perché non sparisse sotto ai miei occhi. “Mi sono spinto un po’ più avanti”, disse, “e poi ancora un po’ di più, e un bel giorno mi sono trovato tanto lontano che non so come farò a tornare sui miei passi. Non importa. Ho tutto il tempo. Mi arrangerò. Ma lei porti via Kurtz presto – presto, le dico.” L’incantesimo della giovinezza rivestiva i suoi stracci variopinti, la sua miseria, la sua solitudine, la profonda desolazione di quel suo futile vagabondare. Per dei mesi – per degli anni – la sua vita era stata sospesa a un filo; eppure era là, coraggiosamente, spensieratamente vivo e, secondo ogni apparenza, indistruttibile, grazie ai suoi giovani anni e alla sua audacia irriflessiva. Ero conquistato tanto da provare una specie di ammirazione, di invidia. Un incantesimo lo spingeva avanti, un altro incantesimo lo proteggeva. Lui non si aspettava assolutamente niente dalla landa selvaggia, soltanto uno spazio in cui respirare e in cui addentrarsi sempre più. Il suo unico bisogno era di esistere e di andare oltre, correndo più rischi possibile, con il massimo di privazioni. Se lo spirito d’avventura – allo stato puro, privo di qualsiasi calcolo e di senso pratico – aveva mai dominato un essere umano, era sicuramente quel giovane tutto rattoppato. Quasi gli invidiavo di possedere quella fiamma chiara e modesta. Sembrava aver così ben consumato in lui ogni pensiero personale che anche mentre parlava, ci si dimenticava che era a lui – all’uomo che era sotto i vostri occhi – che erano capitate tutte quelle cose. Non gli invidiavo, però, la sua devozione a Kurtz. Non era deliberata. L’aveva subita e accettata con una specie di ardente fatalismo. Devo dire che ai miei occhi, fra tutte le cose che aveva incontrato, quella era di gran lunga la più pericolosa.
«Erano inevitabilmente venuti a contatto, come due navi sorprese dalla bonaccia che a poco a poco si avvicinano e finiscono per strofinarsi i fianchi l’una contro l’altra. Immagino che Kurtz avesse bisogno di un uditorio, visto che una volta, mentre erano accampati nella foresta, avevano parlato tutta la notte, o più verosimilmente, era Kurtz che aveva parlato. “Abbiamo parlato di tutto”, mi disse, ancora trascinato dal ricordo. “Avevo dimenticato l’esistenza stessa del sonno. Quella notte non mi parve durare più di un’ora. Di tutto, di tutto!… Anche d’amore.” “Ah, le parlava d’amore!”, dissi molto divertito. Ebbe un grido quasi appassionato: “Oh, non è quel che pensa lei, parlava in generale… Mi ha fatto capire delle cose, tante cose.”
«Alzò le braccia. In quel momento eravamo sul ponte e il capo dei miei taglialegna, che oziava poco lontano, volse verso di lui uno sguardo luminoso e penetrante. Mi guardai attorno, e non so perché, ma vi assicuro che mai, mai prima d’allora, quella terra, quel fiume, quella giungla, la volta stessa di quel cielo infuocato, mi erano apparsi più tetri e disperati, più impenetrabili all’intelletto umano e più impietosi verso l’umana debolezza. “E da allora”, dissi, “lei, naturalmente, è rimasto sempre con lui.”
«E invece no. Pare che il loro rapporto fosse molto intermittente, per diverse ragioni. Era riuscito, e me lo disse con orgoglio, a curare Kurtz durante due malattie (vi alludeva come si farebbe per un’impresa piena di rischi), ma, generalmente, Kurtz errava da solo nelle profondità della foresta. “Spesso, quando arrivavo in questa stazione, mi toccava aspettare giorni e giorni prima che lui ritornasse”, disse, “ma valeva la pena di aspettare, qualche volta!” “Ma cosa faceva? Delle esplorazioni?…”, domandai. “Sì, certo.” Aveva scoperto molti villaggi e anche un lago. Lui non sapeva esattamente dove – era pericoloso fare troppe domande – ma la maggior parte delle spedizioni di Kurtz avevano l’avorio come obiettivo. “Ma se non aveva più mercanzie con cui barattarlo?”, obbiettai. Guardando da un’altra parte rispose: “Ancora adesso nella stazione ci sono un mucchio di cartucce avanzate.” “Chiamiamo le cose col loro nome”, dissi, “razziava semplicemente il paese.” Fece di sì con la testa. “Certamente non da solo!” Borbottò qualcosa a proposito dei villaggi attorno a quel lago. “Kurtz si faceva seguire dalla tribù, vero?” suggerii. Era un po’ sulle spine. “Lo adoravano”, disse. Il tono di quelle parole era così straordinario che lo guardai con attenzione. La riluttanza che provava a parlare di Kurtz si mescolava curiosamente in lui al bisogno di raccontare. Quell’uomo riempiva la sua vita, occupava tutti i suoi pensieri, comandava le sue emozioni. “Che cosa pretende?”, disse con impeto, “è arrivato da loro col tuono e col fulmine in mano; questa gente non aveva mai visto niente di simile, né di così terribile. Perché poteva essere terribile. È impossibile giudicare il signor Kurtz alla stregua di un uomo qualunque. No, mille volte no! Ecco – tanto per darle un’idea – un giorno, non mi vergogno a dirlo, voleva uccidermi,… ma io non lo giudico.” “Ucciderla!”, esclamai. “E perché?” “Bah, avevo una piccola quantità d’avorio che mi aveva dato il capo del villaggio vicino alla mia casa. Sa, io uccidevo della selvaggina per loro. Beh, lui lo voleva e non voleva sentir ragioni. Dichiarò che mi avrebbe fatto fuori se non gli davo l’avorio e se non sparivo immediatamente dal paese, visto che aveva il potere e anche la voglia di farlo, e non c’era niente al mondo che potesse impedirgli di ammazzare chiunque gli fosse garbato. Ed era vero… Gli diedi l’avorio. Che cosa me ne importava? Ma non me ne andai. No, non avrei potuto lasciarlo. Dovetti essere prudente, naturalmente, per un po’, finché non ridiventammo amici. Fu allora che si ammalò per la seconda volta. Dopo di che, dovetti star lontano, ma non gliene volevo. Passava la maggior parte del tempo in quei villaggi sul lago. Quando ritornava al fiume, qualche volta ricorreva a me e qualche volta era meglio che io stessi alla larga. Quell’uomo soffriva troppo. Detestava tutto di qui, e però era come se non se ne potesse staccare. Quando ne avevo l’occasione lo pregavo di andarsene, finché era ancora in tempo. Gli proposi di ritornare con lui. Accettava e non si muoveva da qui. Partiva per un’altra caccia all’avorio, spariva per delle settimane, trovava l’oblio fra quella gente, sì, l’oblio di se stesso, capisce.” “Ma è pazzo!”, dissi. Protestò indignato. Il signor Kurtz non poteva essere pazzo. Se lo avessi sentito parlare, anche solo due giorni prima, non avrei osato fare una simile insinuazione… Avevo preso il binocolo mentre parlavamo, e ispezionavo la spiaggia, frugavo il ciglio della foresta da ogni lato e dietro la casa. La sensazione che ci fosse della gente in quella boscaglia così silenziosa, così tranquilla – altrettanto silenziosa e tranquilla della casa in rovina sulla cima del colle – mi metteva a disagio. Sul volto della natura non c’era traccia della straordinaria storia che più che raccontata mi veniva suggerita con esclamazioni desolate, accompagnate da alzate di spalle, frasi interrotte, allusioni chiuse da profondi sospiri. La foresta, impassibile come una maschera, massiccia come la porta sbarrata di una prigione, guardava con un’aria di sapienza segreta, di attesa paziente, di inaccessibile silenzio. Il russo intanto mi spiegava che solo recentemente il signor Kurtz era ritornato giù al fiume, portando con sé tutti i guerrieri della tribù lacustre. Era stato assente molti mesi – per farsi adorare, immagino – ed era rientrato inaspettatamente, con l’intenzione, secondo ogni apparenza, di compiere una razzia dall’altra parte del fiume o a valle. Evidentemente la brama di avere altro avorio aveva trionfato su – come dire? – sulle aspirazioni meno materiali. Però il suo stato di salute era improvvisamente peggiorato. “Venni a sapere che stava male, privo di ogni cura, e così decisi di venire quassù, correndo il rischio”, disse il russo. “Oh, sta male, molto male.” Puntai il binocolo sulla casa. Non c’erano segni di vita: scorgevo solo il tetto che crollava, il lungo muro di fango che faceva capolino sopra l’erba, con tre buchi quadrati a guisa di finestre, non uno della stessa misura dell’altro, tutto a portata della mia mano, per così dire. E poi feci un movimento brusco e uno dei pali superstiti di quello steccato scomparso emerse nel campo del mio binocolo. Vi ricordate che da lontano ero rimasto colpito da certi tentativi di decorazione, che risaltavano ancor di più nello stato disastroso di quel luogo. Adesso li vedevo più da vicino e l’effetto immediato fu che tirai indietro la testa come per evitare un pugno. Poi col binocolo, esaminai attentamente un palo dopo l’altro e capii il mio errore. Quei pomi rotondi non erano ornamentali, ma simbolici; erano espressivi ed enigmatici, sorprendenti e inquietanti, cibo per la mente oltre che per gli avvoltoi, se ce ne fossero stati a guardare dal cielo, cibo in tutti i casi per delle formiche abbastanza industriose da arrampicarsi sul palo. Sarebbero state ancora più impressionanti, quelle teste impalate, se il loro volto non fosse stato girato dalla parte della casa. Solo una, la prima che avevo notato, era rivolta verso di me. Non fui così nauseato come potreste credere. Il mio brusco scatto indietro non era stato che un moto di sorpresa. Mi ero aspettato di vedere un pomo di legno là, capite. Deliberatamente, tornai a guardare la prima che mi era apparsa: nera, rinsecchita e infossata, la testa con le palpebre chiuse era sempre là, come addormentata in cima a quel palo e, con le labbra secche e raggrinzite che lasciavano scoperta la sottile fila bianca dei denti, aveva anche l’aria di sorridere, sorridere in continuazione per qualche sogno ilare e infinito del suo sonno eterno.
«Non sto rivelando nessun segreto commerciale. Fu il direttore poi a dire che i metodi del signor Kurtz avevano rovinato quel distretto. Io non ho alcuna opinione a questo proposito, ma vorrei farvi capire chiaramente che a tenere lì quelle teste non c’era niente di vantaggioso. Stavano solo a testimoniare che il signor Kurtz era privo di qualsiasi ritegno nel soddisfacimento dei suoi vari appetiti; che gli mancava qualcosa, una piccola cosa che, quando il bisogno diventava urgente, si cercava invano sotto la sua magnifica eloquenza. Se lui sapesse di avere questa deficienza, io non lo so. Credo che se ne sia reso conto alla fine, quasi all’ultimo istante. Ma la selva selvaggia lo aveva scovato subito, e si era presa una terribile vendetta su di lui per quella fantastica invasione. Credo che gli avesse sussurrato delle cose sul suo conto che lui stesso ignorava, cose di cui non aveva il minimo sospetto, prima di aver sentito il parere di quella grande solitudine, e quel sussurro si era rivelato irresistibilmente affascinante. L’eco era risuonata tanto profondamente in lui perché dentro era vuoto… Abbassai il binocolo, e la testa che mi era apparsa tanto vicina da poterle quasi parlare, parve subito scomparire lontana da me in una distanza inaccessibile. “L’ammiratore del signor Kurtz si era un po’ ammosciato. Con voce febbrile e indistinta, cominciò ad assicurarmi che non aveva osato togliere quei… quei… diciamo, quei simboli. Non che avesse paura degli indigeni: non si sarebbero mossi a meno che Kurtz non avesse dato loro il segnale. Il suo ascendente era straordinario. Gli accampamenti di quella gente circondavano la stazione e ogni giorno i capi venivano a trovarlo… strisciando. “Non voglio sapere niente delle cerimonie usate per avvicinare il signor Kurtz”, gridai. Curioso, ebbi l’impressione che i dettagli sarebbero stati più insopportabili di quelle teste che rinsecchivano sui pali sotto le finestre del signor Kurtz. Dopo tutto, quello era solo uno spettacolo barbaro, e in quella oscura regione di orrori sottili, in cui ero stato trasportato d’un balzo, la barbarie pura, senza complicazioni, era un sollievo reale, come qualcosa che aveva il diritto di esistere – ovviamente – alla luce del sole. Il giovane mi guardò sorpreso. Immagino che non gli fosse venuto in mente che il signor Kurtz non era un mio idolo. Si era dimenticato che io non avevo sentito neanche uno di quegli splendidi monologhi su – cosa? – l’amore, la giustizia, la condotta nella vita, o che so io. Se si doveva strisciare davanti a Kurtz, lui strisciava come il più selvaggio dei selvaggi. Io non mi rendevo conto delle circostanze, disse. Quelle erano le teste dei ribelli. Lo lasciai di stucco perché mi misi a ridere. Ribelli! Quale sarebbe stata la prossima definizione che avrei sentito? C’erano stati nemici, criminali, lavoratori, e questi erano ribelli. Quelle teste ribelli mi sembravano molto sottomesse sui loro pali. “Lei non sa quanto una vita simile metta alla prova un uomo come Kurtz”, esclamò l’ultimo discepolo di Kurtz. “Beh, e lei?”, dissi. “Io! Io! Io sono un uomo qualunque. Non ho grandi idee. Non voglio niente da nessuno. Come può paragonarmi a…?” L’eccesso di emozione gli impediva di parlare e improvvisamente si lasciò andare. “Non capisco”, gemette. “Io ho fatto del mio meglio per tenerlo in vita e basta. Non ho preso parte a tutto ciò. Io non ho talenti. Erano mesi che qui non c’era una medicina che fosse una o qualcosa da mangiare per un malato. È stato vergognosamente abbandonato. Un uomo come lui, con tali idee. È una vergogna. Una vera vergogna. E io, io sono dieci notti che non dormo…”
«La sua voce si perse nella calma della sera. Mentre parlavamo le lunghe ombre della foresta erano scivolate giù dalla collina, spingendosi molto oltre la baracca in rovina, oltre la simbolica fila di pali. Tutto ciò era immerso nell’oscurità, mentre, in basso, noi eravamo ancora nella luce del sole, e la distesa del fiume di fronte alla radura scintillava di un immoto splendore abbacinante, con una ansa buia e in ombra a monte e a valle. Non c’era anima viva sulla spiaggia. Non un fremito nella boscaglia.
«E tutt’a un tratto, girato l’angolo della casa, apparve un gruppo di uomini, come se fossero sorti dal terreno. Avanzavano sprofondati fino alla vita nell’erba, in corpo compatto, portando in mezzo a loro una barella improvvisata. Istantaneamente, nel vuoto del paesaggio, si alzò un grido acuto che trafisse l’aria immota come una freccia acuminata che volasse dritta al cuore della terra e, come per incanto, un torrente di esseri umani – di esseri umani nudi – muniti di lance, archi e scudi, con sguardi feroci e movimenti selvaggi, si riversò nella radura dalla foresta dal volto scuro e pensoso. La boscaglia fremette, l’erba ondeggiò un momento e poi tutto ripiombò in un’attenta immobilità.
«”E adesso, se non trova la parola giusta da dire, siamo tutti perduti”, disse il russo al mio fianco. Il gruppo di uomini con la barella si era fermato anch’esso, come pietrificato, a mezza strada dal battello. Al di sopra delle spalle dei portatori vidi l’uomo che giaceva nella barella mettersi a sedere, emaciato, con un braccio alzato. “Speriamo che l’uomo che sa parlare così bene dell’amore in generale trovi qualche ragione particolare per risparmiarci questa volta”, dissi. Risentivo amaramente l’assurdo pericolo della nostra situazione, come se essere alla mercé di quell’orrendo fantasma fosse stata una disonorevole necessità. Non udivo suoni, ma attraverso il binocolo vedevo il braccio sottile steso in un gesto imperioso, la mascella inferiore muoversi, gli occhi di quell’apparizione splendere tenebrosi e remoti in quella testa ossuta che oscillava con delle scosse grottesche. Kurtz, Kurtz in tedesco vuol dire “corto”, no? Ebbene, il nome era altrettanto vero di tutto il resto della sua vita, e della sua morte. Sembrava “lungo” almeno due metri. La coperta gli era caduta di dosso e il suo corpo atroce e pietoso ne era emerso come da un sudario. Vedevo la gabbia del torace tutta in movimento, le ossa del braccio che agitava. Era come se un’animata immagine della morte, scolpita in un vecchio avorio, tendesse la sua mano minacciosa a una immobile folla di uomini fatti di un bronzo scuro e lucente. Lo vidi spalancare la bocca – il che gli diede un aspetto straordinariamente vorace – come se avesse voluto ingoiare tutta l’aria, tutta la terra e tutti gli uomini davanti a lui. Una voce cavernosa giunse debolmente fino a me. Doveva aver gridato. Improvvisamente cadde riverso. La barella vacillò mentre i portatori riprendevano ad avanzare barcollando, e quasi nello stesso momento, mi accorsi che la folla dei selvaggi si stava disperdendo senza alcun percettibile movimento di ritirata, come se la foresta che aveva espulso quelle creature così all’improvviso, ora le risucchiasse, come un respiro dopo un lungo sospiro.
«Un paio di pellegrini venivano dietro la barella portando le sue armi – due fucili da caccia, una carabina di grosso calibro, un’altra, leggera, a ripetizione – i fulmini di quel Giove pietoso. Il direttore, piegato su di lui, gli parlava all’orecchio, camminandogli accanto. Lo deposero in una di quelle piccole cabine, dove c’era appena il posto per una cuccetta e uno o due seggiolini da campo, lo sapete. Gli avevamo portato la corrispondenza accumulata in quei mesi e un mucchio di buste strappate e di lettere aperte era sparpagliato sul letto. Con una mano rovistava debolmente in mezzo alle carte. Fui colpito dal fuoco dei suoi occhi e dal languore composto della sua espressione. Non era tanto la spossatezza della malattia: non sembrava soffrire. Quell’ombra pareva sazia e calma, come se per il momento avesse fatto il pieno di tutte le emozioni.
«Stropicciò una delle lettere e guardandomi dritto negli occhi disse: “Molto lieto.” Gli avevano scritto qualcosa di me. Saltavano fuori di nuovo le raccomandazioni speciali. Il volume del suono che emise senza sforzo, senza quasi la pena di muovere le labbra, mi stupì. Una voce! Che voce! Grave, profonda, vibrante, mentre l’uomo sembrava incapace di un sussurro. Eppure gli restava abbastanza forza – fittizia senza dubbio – da farci correre il rischio di finire tutti male, come sentirete fra poco.
«Il direttore apparve silenzioso sulla soglia. Uscii subito ed egli tirò la tenda dietro di me. Il russo, guardato con curiosità da tutti i pellegrini, aveva gli occhi fissi sulla spiaggia. Seguii la direzione del suo sguardo.
«Si distinguevano in lontananza delle scure forme umane muoversi leggere e indistinte contro il tetro limitare della foresta e, vicino al fiume, due figure di bronzo, appoggiate alle loro alte lance, si ergevano al sole, sotto fantastiche acconciature di pelli maculate, marziali e immobili in uno statuario riposo. E lungo la spiaggia luminosa si mosse da destra a sinistra una selvaggia e incantevole apparizione di donna.
«Camminava a passi cadenzati nei drappeggi di una stoffa rigata e frangiata, toccando il suolo con fierezza, facendo leggermente tintinnare e balenare i barbari ornamenti. La testa eretta, i capelli acconciati come un elmo, le gambe fasciate di ottone fino al ginocchio, bracciali di filo d’ottone fino al gomito, una macchia scarlatta sulle guance bronzee, innumerevoli collane di perline colorate al collo. Oggetti bizzarri, amuleti, doni di stregoni, appesi al suo corpo, che luccicavano e dondolavano a ogni passo. Doveva avere addosso il valore di parecchie zanne di elefante. Era selvaggia e maestosa, stralunata e magnifica. C’era qualcosa di minaccioso e di imponente nel suo incedere risoluto. E nell’improvviso silenzio caduto su quella terra afflitta, l’immensa landa selvaggia, quel corpo colossale di vita feconda e misteriosa sembrava pensosamente guardarla, quasi contemplasse in lei l’immagine della propria anima tenebrosa e appassionata.
«Giunse all’altezza del battello, si fermò e incontrò i nostri occhi. La sua ombra s’allungò di traverso nell’acqua. La sua desolazione, il suo muto dolore mescolato alla paura del disegno – formulato a metà – che si dibatteva in lei, prestava al suo viso un aspetto tormentato e tragico. Rimase a guardarci senza un gesto, con l’aria di covare – come la selva selvaggia – qualche insondabile intenzione. Passò un minuto intero e poi fece un passo avanti. Ci fu un lieve tintinnare, un giallo balenio del metallo, un ondeggiare dei drappi frangiati: si fermò, come se le fosse mancato il cuore. Il giovane accanto a me ringhiò. I pellegrini mormorarono alle mie spalle. Ci guardava tutti come se la sua vita fosse dipesa dall’inflessibile fermezza del suo sguardo. D’improvviso aprì le braccia nude e le tese rigidamente in alto sopra la testa, come in un irresistibile desiderio di toccare il cielo e nello stesso istante l’oscurità si slanciò rapida sulla terra e, invadendo il fiume, avvolse il battello in un tenebroso abbraccio. Un formidabile silenzio stava sospeso sulla scena.
«Si voltò lentamente, s’incamminò seguendo la sponda ed entrò nei cespugli sulla sinistra. Una sola volta, prima di sparire, i suoi occhi lampeggiarono verso di noi nell’ombra del folto.
«”Se si fosse azzardata a venire a bordo credo proprio che avrei cercato di ucciderla”, disse nervosamente l’arlecchino. “In questi ultimi quindici giorni, ho rischiato la vita ogni giorno, per impedirle di entrare in casa. Una volta ci è riuscita e ha fatto una scena tremenda per quei quattro stracci che avevo preso nel magazzino per aggiustarmi i vestiti. Ero impresentabile. Credo almeno che fosse quello il motivo, perché è stata un’ora a parlare come una furia a Kurtz, indicando ogni tanto me. Non capisco il dialetto di questa tribù. Per mia fortuna, penso che Kurtz stesse troppo male quel giorno, per badarle, altrimenti avrei passato un brutto guaio. Non capisco… No, è veramente troppo per me. Beh, è acqua passata ormai.”
«In quel momento udii la profonda voce di Kurtz dietro la tenda: “Salvarmi! Lei vuol dire, salvare l’avorio. Non mi venga a raccontare… Salvare me! Ma se sono io che ho dovuto salvarvi, e lei è venuto a intromettersi nei miei progetti. Ammalato! Ammalato! Non così ammalato come le piacerebbe credere. Non importa. Realizzerò lo stesso quello che ho in mente: ritornerò. Le farò vedere io che cosa si può fare qui. Lei, con i suoi sistemi da bottegaio, mi mette il bastone fra le ruote. Ritornerò. Io…”
«Il direttore uscì. Mi fece l’onore di prendermi sottobraccio e di condurmi in disparte. “È molto giù, molto giù”, disse. Ritenne necessario sospirare, ma trascurò di mostrare la conseguente afflizione. “Abbiamo fatto tutto quello che potevamo per lui, non è forse vero? Ma non si può nascondere la realtà: il signor Kurtz ha fatto più male che bene alla Compagnia. Non ha capito che i tempi non erano maturi per un’azione energica. Cautela, cautela ci vuole: è questo il mio principio. Dobbiamo andare ancora cauti. Per un po’ questo distretto ci sarà precluso. Deplorevole! E il commercio ne soffrirà nel suo insieme. Non nego che non ci sia una notevole quantità di avorio, per la maggior parte fossile. Lo dobbiamo salvare a tutti i costi. Ma vede com’è precaria la nostra situazione: e perché? Perché il metodo è inadeguato.” “Lei lo definisce”, dissi io, guardando la spiaggia, “un metodo inadeguato?” “Senza dubbio”, esclamò con calore. “Lei no?” …
«”Non c’è nessun metodo”, mormorai dopo un po’. “Giustissimo”, esultò lui. “Io l’avevo previsto. Testimonia di una completa mancanza di discernimento. Sarà mio dovere segnalarlo a chi di competenza.” “Oh”, dissi io, “quel tale – come si chiama? – sì, l’uomo dei mattoni, potrà redigere per lei un rapporto leggibilissimo.” Restò un attimo interdetto. Mi pareva di non aver mai respirato in un’atmosfera tanto abietta, e per riprendere fiato mi rivolsi mentalmente a Kurtz, sì proprio per riprendere fiato. “Nonostante tutto”, dissi con enfasi, “penso che il signor Kurtz sia un uomo notevole.” Sussultò e lasciando cadere su di me un greve sguardo gelido, disse con molta calma: “Lo era“, e mi voltò le spalle. Non godevo più del suo favore. Avevo fatto comunella col signor Kurtz parteggiando per metodi per cui i tempi non erano maturi: ero anch’io inadeguato! Ah! ma era pur sempre qualcosa avere almeno la scelta dei propri incubi.
«In realtà era alla landa selvaggia che mi ero rivolto, non al signor Kurtz che ormai – non stentavo ad ammetterlo – era come se fosse bell’e sepolto. E per un istante, parve anche a me di essere sepolto dentro a una grande tomba piena di inconfessabili segreti. Sotto un peso intollerabile che mi opprimeva il petto, sentivo l’odore della terra umida, la presenza invisibile della corruzione trionfante, la tenebra di una notte impenetrabile… Il russo mi battè sulla spalla. Balbettando borbottò qualcosa su “fratello marinaio… non si potrebbe nascondere… la conoscenza di cose che nuocerebbero alla reputazione del signor Kurtz.” Aspettai. Per lui, evidentemente, il signor Kurtz non era ancora nella tomba. Ho il sospetto che per lui il signor Kurtz fosse uno degli immortali. “Ebbene!”, dissi infine, “parli. Il caso vuole che io sia amico del signor Kurtz, in un certo qual modo.”
«Molto formalmente, iniziò col dichiarare che se non fossimo stati uniti “dalla stessa professione”, si sarebbe tenuto tutto per sé, senza badare alle conseguenze. “Sospettava di essere molto mal visto da quei bianchi che…” “Sì, ha indovinato”, dissi, ricordandomi una certa conversazione che avevo involontariamente ascoltato. “Il direttore pensa che lei dovrebbe essere impiccato.” Nel sentirselo dire mostrò un turbamento che all’inizio mi divertì. “È meglio che me ne vada alla chetichella”, disse con franchezza. “Non posso far più niente per Kurtz ormai, e quelli farebbero presto a inventarsi qualche pretesto. Che cosa li fermerebbe? C’è un posto militare a cinquecento chilometri da qui.” “Sì”, risposi, “credo anch’io che farebbe meglio ad andarsene se ha degli amici fra i selvaggi qui intorno.” “Molti”, disse. “È gente semplice, e io non ho bisogno di niente, sa.” Tacque un attimo mordendosi il labbro e poi: “Io non voglio che accada nulla di male a questi bianchi”, continuò, “ma naturalmente è alla reputazione del signor Kurtz che pensavo, ma lei è un marinaio, un fratello e…” “D’accordo”, dissi, dopo un po’, “la reputazione del signor Kurtz nelle mie mani è salva.” Non sapevo fino a che punto stessi dicendo la verità.
«Abbassando la voce, mi informò che era stato Kurtz a dare l’ordine di attaccare il battello. “Qualche volta non sopportava l’idea di essere portato via, e poi di nuovo… Sono cose che non capisco. Io sono un uomo semplice. Pensava che vi sareste spaventati tanto da andarvene, che avreste rinunciato, credendolo morto. Non sono riuscito a fermarlo. Oh, ne ho passate di tutti i colori, quest’ultimo mese.” “Non ne dubito”, dissi, “ma adesso sembra tornato in sé.” “Sì sì”, mormorò, senza grande convinzione. “Grazie”, dissi, “terrò gli occhi aperti.” “Ma non una parola, vero?”, riprese con ansiosa insistenza. “Sarebbe terribile per la sua reputazione se qualcuno qui…” Promisi solennemente la discrezione più assoluta. “Ho una piroga con tre neri che mi aspettano qui vicino. Vado. Mi potrebbe dare qualche cartuccia per la Martini-Henry?” Potevo e gliele diedi, con la dovuta segretezza. Strizzandomi l’occhio si prese una manciata di tabacco. “Fra marinai, vero?, questo suo buon tabacco inglese.” Già davanti alla porta della cabina si voltò: “Senta, non avrebbe un paio di scarpe che le avanzano?” Alzò una gamba: “Guardi.” Sotto i piedi nudi aveva legato con delle stringhe delle suole come fossero sandali. Ne scovai un vecchio paio che lui guardò ammirato prima di infilarselo sotto il braccio sinistro. Da una delle tasche (di un rosso brillante) traboccavano le cartucce, dall’altra (blu scuro) occhieggiava l’Indagine, ecc., ecc. di Towson. Sembrava ritenersi eccellentemente equipaggiato per il suo nuovo incontro con la landa selvaggia.”Ah! un uomo simile non lo incontrerò più, mai più. Avrebbe dovuto sentirlo recitare le poesie, sue per di più, me l’ha detto lui. La poesia!” Roteava gli occhi al ricordo di quelle delizie. “Oh, quell’uomo mi ha aperto la mente!” “Arrivederci”, dissi. Ci stringemmo la mano e svanì nella notte. Qualche volta mi chiedo se l’ho visto davvero, se è possibile che io abbia incontrato un fenomeno simile!…
«Quando mi svegliai, poco dopo mezzanotte, mi venne in mente il suo avvertimento e il pericolo che vi era sottinteso, e nella tenebra stellata, mi parve sufficientemente reale da farmi alzare per dare un’occhiata in giro. Sulla collina bruciava un grande fuoco che illuminava a intermittenza un angolo obliquo della casa. Uno degli agenti con un picchetto di qualcuno dei nostri neri, armati per l’occasione, montava la guardia all’avorio, ma dentro alle profondità della foresta, dei rossi baluginii, che sembravano sorgere dalla terra e sprofondarvisi, fra forme indistinte simili a colonne di intensa nerezza, indicavano il punto esatto dell’accampamento in cui gli adoratori del signor Kurtz facevano la loro inquieta veglia. Il monotono rullare di un grosso tamburo riempiva l’aria di colpi soffocati e di una prolungata vibrazione. Il suono ininterrotto di una nenia di chissà quali magici incantesimi, cantata da una moltitudine di uomini, ciascuno per proprio conto, usciva dalla muraglia piatta e oscura della foresta, come un ronzio di api fuori dall’alveare, con uno strano effetto narcotizzante sui miei sensi già mezzo sopiti. Credo di essermi proprio assopito, appoggiato al parapetto, finché uno scoppio improvviso di urla, l’assordante esplosione di una frenesia misteriosa e repressa, non mi svegliò in attonito soprassalto. Si interruppe tutt’a un tratto e la nenia sommessa ricominciò dando quasi l’impressione palpabile e calmante del silenzio. Gettai un’occhiata distratta nella piccola cabina. Brillava una luce all’interno, ma il signor Kurtz non c’era più.
«Penso che se avessi creduto ai miei occhi mi sarei messo a gridare, ma lì per lì non ci credetti: sembrava talmente impossibile! La verità è che ero completamente sopraffatto da una paura senza nome, un terrore puramente astratto, che non si collegava a nessuna forma riconoscibile di pericolo materiale. Ciò che rendeva quell’emozione così sconvolgente era – come posso definirlo? – lo scossone morale che avevo ricevuto, come se inaspettatamente si fosse abbattuto su di me qualcosa di mostruoso, intollerabile per la mente e odioso per l’anima. Questo, naturalmente, non durò che una frazione di secondo, e poi il comune senso del pericolo fisico, mortale, la possibilità di un assalto improvviso, di un massacro, o qualcosa del genere, che vedevo imminente, fu ben accolta e mi restituì la calma. Mi rese infatti così tranquillo che non diedi l’allarme.
«C’era un agente abbottonato fino al naso nel suo pastrano che dormiva su una sedia sul ponte a pochi passi da me. Le urla non l’avevano svegliato; russava appena appena. Lo lasciai ai suoi sogni e saltai a terra. Non tradii il signor Kurtz – era nell’ordine delle cose che non l’avrei mai tradito – era scritto che sarei stato fedele all’incubo che mi ero scelto. Ci tenevo a essere solo a trattare con quell’ombra e ancor oggi non so spiegarmi perché mai fossi così geloso di dividere con qualcuno la particolare tenebrosità di quell’esperienza.
«Non appena raggiunsi la riva vidi una pista, una larga pista nell’erba. Mi ricordo con quale esultanza mi dissi: “Non può camminare, si trascina a quattro zampe, lo prendo subito.” L’erba era bagnata di rugiada. Camminavo svelto con i pugni chiusi. Credo di aver avuto una vaga intenzione di saltargli addosso e picchiarlo. Non lo so. Ero pieno di idee strampalate. La vecchia che sferruzzava con il gatto in grembo si intrufolò nella mia memoria e mi parve la persona più inopportuna per sedere all’altro capo di una storia simile. Vedevo una fila di pellegrini riempire l’aria di piombo con i loro Winchester appoggiati all’anca. Pensavo che non sarei mai tornato sul battello e mi vedevo, solo e disarmato, vivere nei boschi fino a tarda età. Un mucchio di pensieri assurdi, capite. E ricordo che confondevo il battito del tamburo con quello del mio cuore e mi rallegravo della sua calma regolarità.
«Intanto seguivo la pista e mi fermavo di tanto in tanto ad ascoltare. La notte era molto chiara, una distesa blu scuro, luccicante di rugiada e del chiarore delle stelle, in mezzo alla quale delle cose nere si ergevano immobili. Poi mi parve di distinguere una specie di movimento davanti a me. Ero stranamente baldanzoso quella notte. Lasciai deliberatamente la pista e descrissi correndo un largo semicerchio (non senza, credo, ridacchiare tra me e me) in modo da arrivare davanti a quella cosa che avevo visto in movimento, sempre che avessi visto qualcosa. Stavo accerchiando Kurtz come se fosse un gioco da ragazzi.
«Lo raggiunsi e se non mi avesse sentito arrivare, gli sarei addirittura caduto addosso, ma si era alzato in tempo. Si sollevò, malfermo, lungo, pallido, indistinto, simile a un vapore esalato dalla terra, e barcollò leggermente davanti a me, annebbiato e silenzioso, mentre, alle mie spalle, i fuochi si profilavano tra gli alberi e il mormorio di molte voci usciva dalla foresta. Gli avevo abilmente tagliato la strada. Era stata una mossa indovinata, ma quando, mi trovai realmente di fronte a lui, mi sembrò di rinsavire e il pericolo mi apparve nelle sue giuste proporzioni. Non era affatto passato. E se si fosse messo a gridare? Anche se stava a mala pena in piedi, la sua voce era ancora piena di vigore. “Vada via! Si nasconda”, disse col suo tono profondo. Era tremendo. Mi guardai alle spalle. Eravamo a trenta metri dal fuoco più vicino. In quel momento si alzò un’ombra nera e fece qualche passo su delle lunghe gambe nere, muovendo delle lunghe braccia nere, controluce. Aveva delle corna – corna di antilope, penso – sulla testa. Uno stregone, un guaritore, senza dubbio: ne aveva l’aria piuttosto diabolica. “Sa che cosa sta facendo?”, sussurrai. “Perfettamente”, rispose alzando la voce per pronunciare quell’unica parola che mi risuonò lontana eppure chiara, come un richiamo attraverso un megafono. Se si mette a discutere siamo perduti, pensai. Anche a prescindere dalla naturale avversione che provavo all’idea di colpire quell’Ombra, quella cosa errante e tormentata, non era certamente una storia da risolvere a pugni. “Lei sarà un uomo finito”, dissi, “irrimediabilmente finito.” Si hanno talvolta questi lampi di ispirazione, sapete. Avevo trovato la cosa giusta da dire, anche se in verità non avrebbe potuto essere più inesorabilmente finito di quanto lo fosse in quel momento, quando furono gettate le basi della nostra intimità destinata a durare, a durare fino alla fine, e anche oltre.
«”Avevo immensi progetti”, mormorò esitante. “Sì”, dissi io, “ma se prova a gridare le spacco la testa con, con…” Non c’era né un sasso né un bastone a portata di mano. “La strozzo con le mie mani”, mi corressi. “Ero alla vigilia di fare grandi cose”, insistette con voce avida e in un tono di rimpianto che mi raggelò il sangue. “E per colpa di questo piccolo farabutto…” “Il suo successo in Europa”, affermai fermamente, “è in tutti i casi assicurato.” Non ci tenevo a torcergli il collo, capite, senza contare che non sarebbe servito praticamente a nulla. Cercavo di rompere l’incantesimo – il greve, muto incantesimo della selva selvaggia – che sembrava volerlo attrarre nel suo cuore impietoso risvegliando istinti brutali e dimenticati, facendo riaffiorare passioni appagate e mostruose. Solo questo, ne ero persuaso, lo aveva riportato al ciglio della foresta, alla boscaglia, verso il bagliore dei fuochi, il fremito dei tamburi, alla salmodia di magici incantesimi; solo questo aveva trascinato la sua anima sfrenata oltre i limiti delle aspirazioni lecite. E il terribile della situazione, vedete, non era tanto nel rischio che correvo di ricevere un colpo in testa – benché fossi cosciente anche di quel pericolo – ma nel fatto che avevo a che fare con un uomo al quale non mi potevo rivolgere in nome di qualcosa né di nobile né di vile. Dovevo, proprio come i neri, invocarlo, invocare lui, la sua stessa degradazione, esaltata e inverosimile. Non c’era nulla al di sopra o al di sotto di lui, e io lo sapevo. Aveva volontariamente perso ogni contatto col mondo. Maledizione a lui! Aveva fatto a pezzi il mondo stesso. Era solo, e io davanti a lui non sapevo se poggiavo sulla terra o volteggiavo nell’aria. Vi ho riferito quello che ci dicemmo – ripetendo le frasi che pronunciammo – ma a che pro? Erano comuni parole quotidiane, i suoni vaghi e familiari che si scambiano ogni santo giorno della vita. E allora? Per me, era come se celassero la terribile suggestione delle parole udite in sogno, delle frasi pronunciate in un incubo. Un’anima! Se qualcuno ha mai lottato con un’anima, quello sono io. E notate che non stavo discutendo con un pazzo. Che mi crediate o no, la sua mente era perfettamente lucida, concentrata su se stessa, è vero, con spaventosa intensità, ma lucida; ed era proprio lì la mia unica possibilità, salvo, naturalmente, ucciderlo seduta stante, il che non sarebbe stata una gran trovata, per via dell’inevitabile rumore. Era la sua anima che era folle. Nell’isolamento della selva selvaggia si era persa nella contemplazione di se stessa, e, per Dio! ve l’ho detto, era impazzita. Per scontare i miei peccati, suppongo, mi toccò subire quella prova di contemplarla a mia volta. Nessuna eloquenza al mondo saprebbe essere più distruttiva nei confronti della nostra fiducia nel genere umano di quanto lo sia stata la sua ultima esplosione di sincerità. Lottava anche lui contro se stesso. Lo vedevo, lo udivo. Avevo sotto gli occhi l’inconcepibile mistero di un’anima che non conosceva né ritegno, né fede, né paura e che tuttavia lottava ciecamente contro se stessa. Non persi la testa, ma quando finalmente lo distesi sulla cuccetta, mi asciugai il sudore dalla fronte, mentre le gambe mi tremavano, come se avessi portato dieci quintali sulle spalle giù da quella collina. E invece l’avevo solo sorretto, il suo braccio scheletrico stretto attorno al mio collo: non era più pesante di un bambino.
«Il giorno dopo, quando partimmo a mezzogiorno, la folla, di cui avevo sempre avvertito nettamente la presenza dietro la cortina degli alberi, si riversò di nuovo fuori dalla foresta, riempiendo la radura, coprendo il pendio di una massa ansimante, fremente, di nudi corpi bronzei. Risalii contro corrente per un breve tratto, per poi virare e mille paia d’occhi seguirono le evoluzioni di quel temibile demone fluviale che, sciaguattando e borbottando, colpiva l’acqua con la sua terribile coda e soffiava un fumo nero nell’aria. Davanti a tutti gli altri, lungo la sponda, tre uomini ricoperti di terra rossa dalla testa ai piedi, si agitavano in lungo e in largo senza sosta. Quando ripassammo alla loro altezza, fronteggiarono il fiume battendo col piede, scuotendo la testa cornata, contorcendo il corpo scarlatto; brandirono verso il demone temibile un mazzo di piume nere, una pelle tignosa con la coda penzoloni, qualcosa che aveva l’aspetto di una zucca secca e, a intervalli regolari, urlarono tutti assieme delle stringhe di parole stupefacenti che non assomigliavano al suono di alcuna lingua umana, e il mormorio profondo della folla, interrotto all’improvviso, era simile alle risposte di qualche satanica litania.
«Avevamo portato Kurtz nella cabina di pilotaggio: c’era più aria lassù. Disteso sulla cuccetta, guardava a occhi sbarrati fuori del portello aperto. Ci fu un vortice nella massa di corpi umani e la donna dai capelli a elmo e le guance fulve si slanciò in avanti fin quasi a toccare l’acqua. Con le mani tese, gridò qualcosa e tutta quella folla selvaggia si unì al suo grido in un coro ruggente di suoni rapidi, articolati, da restare senza fiato.
«”Lei li capisce?”, chiesi.
«Continuò a guardar fuori di là da me con occhi ardenti e vogliosi, con un’espressione in cui il rimpianto si mescolava all’odio. Non rispose ma sulle sue labbra esangui, che dopo poco si contrassero convulse, vidi passare un sorriso, un indefinibile sorriso. “Se capisco?…”, disse lentamente, ansimando, come se le parole gli fossero state strappate da una potenza soprannaturale.
«Tirai la cordicella del fischio, e lo feci perché avevo visto i pellegrini sul ponte estrarre i fucili con l’aria di pregustarsi un bello spasso. A quell’improvviso stridio un movimento di abietto terrore attraversò quella massa stipata di corpi. “No! No! La smetta! Così li spaventa e loro scappano”, gridò una voce sconsolata sul ponte. Io tiravo la cordicella colpo dopo colpo. Disorientati, si misero a correre: saltavano, si acquattavano, fuggivano in tutte le direzioni per sottrarsi al terrore di quel suono volante. I tre dipinti di rosso erano caduti ventre a terra, a faccia in giù sulla spiaggia, come falciati di netto. Solo la magnifica donna barbara non si era mossa, e continuava a tendere tragicamente le braccia nude verso di noi sopra il fiume cupo e scintillante.
«E fu allora che la massa di imbecilli giù sul ponte iniziò la sua piccola farsa e io non vidi più nulla per il fumo.
«La scura corrente si allontanava rapida dal cuore della tenebra, portandoci giù verso il mare a una velocità doppia di quella della nostra risalita. La vita di Kurtz non sfuggiva meno rapida, trascinata dal riflusso che la spingeva verso l’oceano inesorabile del tempo. Il direttore era molto placido, ormai non aveva più preoccupazioni di vitale importanza; il suo sguardo, che comprendeva tutti e due, si era fatto sagace e soddisfatto: la “faccenda” si era risolta nel modo più desiderabile. Vedevo avvicinarsi il momento in cui sarei rimasto l’unico rappresentante del partito del “metodo inadeguato”. I pellegrini mi giudicavano già sfavorevolmente. Facevo, per così dire, il paio con il morto. Strano il modo con cui accettai questa associazione imprevista, questa scelta d’incubo che mi era stata imposta nella terra tenebrosa invasa da quei meschini e rapaci fantasmi.
«Kurtz discorreva. Una voce! Che voce! Risuonò profonda, fino alla fine. Sopravviveva alle sue forze per nascondere nelle magnifiche pieghe dell’eloquenza la sterilità tenebrosa del suo cuore. Oh, lottava! lottava! La desolazione della sua mente affaticata ora era ossessionata da immagini annebbiate, immagini di gloria e di ricchezza che ruotavano ossequiosamente intorno al suo inestinguibile dono di espressione nobile ed elevata. La mia fidanzata, la mia stazione, la mia carriera, le mie idee: erano questi i temi delle occasionali manifestazioni di sentimenti sublimi. L’ombra del Kurtz originario stava al capezzale della sua vuota imitazione, il cui destino era di essere ben presto sepolta nella muffa di quella terra primordiale. L’amore diabolico e l’odio celeste per i misteri che aveva penetrato si contendevano il possesso di quell’anima sazia di emozioni primitive, avida d’ingannevole gloria, di false onorificenze, di tutte le apparenze del successo e del potere.
«Qualche volta era ignobilmente infantile. Desiderava che al suo ritorno da qualche spettrale Nulla, dove egli si proponeva di compiere grandi cose, ad attenderlo alla stazione ci fossero dei sovrani. “Fate loro vedere”, diceva, “che avete in voi qualcosa di realmente vantaggioso, e non ci saranno limiti al riconoscimento che avranno per i vostri meriti. Naturalmente, tocca a voi preoccuparvi dei motivi – motivi giusti – sempre.” Le lunghe distese del fiume, che sembravano una sola e sempre la stessa, le anse monotone, l’una uguale all’altra, scivolavano lungo il battello con la loro moltitudine di alberi secolari che consideravano pazienti quel sudicio frammento di un altro mondo, l’araldo del cambiamento, della conquista, del commercio, dei massacri, delle benedizioni. Io guardavo avanti, pilotando. “Chiuda il portello”, disse un giorno Kurtz all’improvviso, “non sopporto quella vista.” Feci quello che chiedeva. Ci fu silenzio. “Oh, ma te lo strapperò il cuore, vedrai!”, gridò all’invisibile selva selvaggia.
«Ci fu un’avaria – come mi ero aspettato – e dovemmo fermarci sulla punta di un’isola per ripararla. Questo ritardo fu la prima cosa che scosse la sicurezza di Kurtz. Una mattina mi diede un pacco di carte e una fotografia, il tutto legato con un laccio da scarpe. “Lo conservi per me”, disse. “Quel pernicioso imbecille” (intendendo il direttore) “è capace di frugare nelle mie casse se non sto attento.” Nel pomeriggio andai a trovarlo: giaceva supino, con gli occhi chiusi e mi ritirai senza far rumore, ma lo sentii mormorare, “Vivere rettamente, morire, morire…” Tesi l’orecchio, ma non ci fu altro. Stava ripetendo qualche discorso nel sonno, o era il frammento di qualche articolo di giornale? Aveva già scritto per dei giornali e intendeva farlo ancora, “per diffondere le mie idee. È un dovere.”
«La tenebra che lo circondava era impenetrabile. Lo osservavo come si guarderebbe dall’alto un uomo che giace in fondo a un precipizio dove non brilla mai il sole. Ma non avevo tanto tempo da dedicargli, perché dovevo aiutare il macchinista a smontare i cilindri che perdevano, a raddrizzare una biella piegata, e a fare altre riparazioni. Vivevo in un’infernale bolgia di ruggine, limatura di ferro, dadi, bulloni, chiavi inglesi, martelli, trapani a cricco, tutte cose che detesto, perché non mi ci raccapezzo. Badavo alla piccola fucina che fortunatamente avevamo a bordo, e sfacchinavo spossato in quel miserabile mucchio di ferraglia, tranne quando i brividi della febbre mi impedivano di reggermi in piedi.
«Una sera, entrando da lui con una candela accesa, trasalii nel sentirgli dire con voce un po’ tremolante: “Giaccio qui nella tenebra aspettando la morte.” La luce era a due passi dai suoi occhi. Feci uno sforzo per mormorargli: “Non dica sciocchezze!”, e rimasi curvo sopra di lui come inchiodato.
«Non avevo mai visto, e spero di non rivederlo mai, niente di paragonabile al cambiamento che si era operato sui suoi lineamenti. Oh, non ero impietosito. Ero affascinato. Era come se fosse stato strappato un velo. Su quel volto d’avorio vidi l’espressione di un torvo orgoglio, di un potere spietato, di un terrore codardo, e anche di una disperazione immensa e senza rimedio. Stava rivivendo la sua vita in ogni particolare dei suoi desideri, le tentazioni, le capitolazioni, in quel supremo momento di conoscenza completa? Due volte, con voce bassa, lanciò verso non so quale immagine, quale visione, un grido che non era che un soffio:
«”Che orrore! Che orrore!”
«Soffiai sulla candela e uscii dalla cabina. I pellegrini stavano cenando in mensa, e presi il mio posto di fronte al direttore, che alzò gli occhi per lanciarmi un’occhiata interrogativa che riuscii fortunatamente a eludere. Era là, piegato all’indietro, sereno, con quel suo particolare sorriso a sigillare le inespresse profondità della sua bassezza. Una pioggia continua di moscerini si riversava sulla lampada, sulla tovaglia, sulle mani e sui volti. Improvvisamente, il servo del direttore mostrò la sua insolente testa nera sulla soglia, e disse, in un tono di ingiurioso disprezzo:
«”Mistah Kurtz – lui morto.”
«Tutti i pellegrini si precipitarono fuori a vedere. Non mi mossi e continuai la mia cena. La mia insensibilità, immagino, fu considerata rivoltante. Comunque, non mangiai molto. C’era una lampada là dentro – la luce, capite, – e fuori era dannatamente, dannatamente buio. Non mi avvicinai più all’uomo notevole che aveva pronunciato un tale giudizio sulle avventure della sua anima su questa terra. La voce s’era spenta. C’era mai stato altro lì? Ma mi rendo perfettamente conto che il giorno dopo i pellegrini seppellirono qualcosa nella fossa fangosa.
«E per poco non seppellirono anche me.
«Comunque, come potete vedere, non ho raggiunto Kurtz lì per lì. No. Sono rimasto a sognare l’incubo fino alla fine, e a dimostrare la mia fedeltà a Kurtz ancora una volta. Il destino! Il mio destino! Che buffonata la vita: questa misteriosa combinazione di logica impietosa per un futile scopo. Tutto quello che ci si può aspettare, è una qualche conoscenza di se stessi – che viene troppo tardi – e un mucchio di inestinguibili rimpianti. Ho lottato con la morte. È il combattimento meno eccitante che si possa immaginare. Si svolge in un grigiore impalpabile, con niente sotto i piedi, niente intorno, senza testimoni, senza clamore, senza gloria, senza il gran desiderio di vincere, senza il gran timore della sconfitta, in una insalubre atmosfera di tiepido scetticismo, senza una ferma convinzione nel proprio diritto, e meno ancora in quello dell’avversario. Se è questa la forma suprema della saggezza, allora la vita è un enigma più grande di quanto alcuni di noi pensano che sia. Ero a un passo dalla mia ultima occasione di pronunciare una parola, e ho scoperto con umiliazione che probabilmente non avevo niente da dire. Ecco perché affermo che Kurtz era un uomo notevole. Lui aveva qualcosa da dire. E lo disse. Dal momento che ho sbirciato anch’io oltre la soglia, capisco meglio il significato del suo sguardo fisso, che non poteva vedere la fiamma della candela, ma era abbastanza vasto da abbracciare l’universo intero, abbastanza acuto per penetrare in tutti i cuori che battono nella tenebra. Aveva tirato le somme e aveva giudicato. “Che orrore!” Era un uomo notevole. Dopo tutto, questa era l’espressione di una specie di fede; c’era candore, convinzione, una vibrante nota di rivolta nel suo sussurro, era il volto terrificante di una verità intravista, il conturbante miscuglio del desiderio e dell’odio. E non è la mia ora estrema che ricordo meglio – una visione di grigiore senza forma, riempita di sofferenza fisica e di un disprezzo indifferente per l’evanescenza di tutte le cose – anche di quella stessa sofferenza. No! È la sua agonia che mi sembra di aver vissuto. È vero che lui aveva fatto il passo supremo, aveva oltrepassato la soglia, mentre a me era stato consentito di ritirare il mio piede esitante. E forse in questo consiste tutta la differenza; forse tutta la saggezza, e tutta la verità, e tutta la sincerità sono concentrate in quell’imponderabile momento in cui noi oltrepassiamo la soglia dell’invisibile. Forse! Mi piace credere che la mia parola conclusiva non sarebbe stata solo una parola di indifferente disprezzo. Meglio il suo grido, molto meglio. Era una affermazione, una vittoria morale pagata al prezzo di innumerevoli sconfitte, di abominevoli terrori, di soddisfazioni abominevoli. Ma era una vittoria! Ecco perché sono rimasto fedele a Kurtz fino alla fine, e anche oltre, quando, molto tempo dopo, udii una volta ancora, non la sua voce, ma l’eco della sua magnifica eloquenza rimandatami da un’anima pura e trasparente come un cristallo di rocca.
«No, non mi seppellirono, anche se c’è un periodo di tempo che ricordo avvolto nella nebbia, con uno stupore da brividi, come un passaggio attraverso un mondo inconcepibile senza speranze e senza desideri. Mi ritrovai nella città sepolcrale pieno di risentimento alla vista di quella gente che si affrettava per le strade per rubarsi reciprocamente un po’ di soldi, per divorare quel loro cibo infame, per ingoiare quella pessima birra, per sognare i loro stupidi sogni insignificanti. Usurpavano i miei pensieri. Erano intrusi la cui presunta conoscenza della vita era per me un’irritante finzione, perché ero certo che non potevano assolutamente sapere le cose che io sapevo. Il loro comportamento, che non era altro che quello di banali individui che badano ai propri affari nella certezza di essere al sicuro, mi indignava come un’oltraggiosa ostentazione di stupidità di fronte a un pericolo che non si è in grado di discernere. Non avevo alcun desiderio di illuminarli, ma facevo fatica a trattenermi dal ridergli in faccia, a quelle facce piene di stolida supponenza. Devo ammettere che non mi sentivo tanto bene in quel periodo. Mi trascinavo barcollando per le strade – c’erano molte faccende da sbrigare – mostrando i denti in un sorriso amaro a quelle persone tanto rispettabili. Riconosco che la mia condotta era ingiustificabile, ma in quei giorni la mia temperatura non era quasi mai normale. Gli sforzi della mia cara zia di “rimettermi in forze” sembravano completamente fuori posto. Non erano le mie forze che bisognava curare, era la mia immaginazione che bisognava placare. Conservavo il pacco di carte che mi aveva dato Kurtz, senza sapere esattamente cosa farne. Sua madre era morta da poco, accudita, mi dissero, dalla fidanzata di suo figlio. Un uomo sbarbato di fresco, con modi da funzionario e occhiali cerchiati d’oro, mi fece visita un giorno e mi pose diverse domande, circospette all’inizio, e poi sempre più soavemente pressanti, riguardo a quelli che a lui piaceva definire i “documenti”. Non ne fui sorpreso perché laggiù avevo già avuto un paio di battibecchi con il direttore sull’argomento. Mi ero rifiutato di consegnare anche il più piccolo pezzo di carta del pacchetto e non cambiai atteggiamento con l’occhialuto. Alla fine divenne oscuramente minaccioso e, accalorandosi, mi fece osservare che la Compagnia aveva diritto a ogni minimo elemento di informazione sui suoi “territori”. E aggiunse: “La conoscenza del signor Kurtz delle regioni inesplorate doveva essere molto estesa e particolare – grazie alla sua grande abilità e alle deplorevoli circostanze nelle quali si era trovato, perciò…” Gli assicurai che la conoscenza del signor Kurtz, per quanto estesa fosse, non verteva su problemi commerciali o amministrativi. Allora invocò il nome della scienza. “Sarebbe una perdita incalcolabile se”, eccetera eccetera. Gli diedi il rapporto sulla “Soppressione delle Usanze Selvagge”, il cui post-scriptum era stato precedentemente strappato. Se ne appropriò con avidità, ma finì per arricciare il naso con aria di disprezzo. “Non è quello che avevamo il diritto di aspettarci”, osservò. “Non aspettatevi altro”, dissi io. “Il resto sono solo lettere personali.” Se ne andò minacciandomi vagamente di procedere per vie legali e non l’ho più rivisto. Ma un altro tale, che si presentò come un cugino di Kurtz, comparve due giorni dopo, ansiosissimo di sapere tutti i particolari degli ultimi momenti del suo carissimo parente. Per inciso mi lasciò capire che Kurtz era stato essenzialmente un grande musicista. “Aveva tutto quello che ci vuole per un immenso successo”, disse quell’uomo, che era un organista, credo, con lisci capelli grigi che gli scendevano sul colletto unto della giacca. Non avevo motivo di dubitare della sua affermazione, e ancora oggi non sono in grado di dire quale fosse la professione di Kurtz, sempre che ne avesse una, né quale fra i suoi talenti fosse il più grande. Lo avevo preso per un pittore che scriveva per i giornali, o viceversa per un giornalista che era capace di dipingere, ma neanche il cugino (che durante la visita si ficcava il tabacco nel naso) mi seppe dire che cosa fosse stato esattamente Kurtz. Era un genio universale – su questo mi trovai d’accordo col vecchietto – che a quel punto si soffiò rumorosamente il naso in un grande fazzoletto di cotone e si accomiatò, in senile agitazione, portandosi via qualche lettera di famiglia e delle note senza importanza. Infine saltò fuori un giornalista, desideroso di avere qualche notizia sulla sorte del suo “caro collega”. Questo visitatore mi informò che la sfera adatta a Kurtz sarebbe stata la politica “dalla parte del popolo”. Aveva sopracciglia folte e dritte, capelli ispidi tagliati a spazzola, un monocolo legato a un ampio nastro e, divenuto espansivo, mi confidò che secondo lui Kurtz non era capace di scrivere una riga, “ma, caspita! come parlava quell’uomo. Elettrizzava le folle. Era uno convinto, capisce? Aveva la fede, la fede. Poteva credere in qualsiasi cosa. Sarebbe stato un magnifico capo di un partito estremista.” “Di quale partito?”, chiesi. “Uno qualsiasi”, rispose lui. “Era un… un… estremista.” Non ero d’accordo? Ero d’accordo. Lo sapevo, chiese, con un improvviso lampo di curiosità, “cos’è che l’aveva spinto ad andare laggiù?” “Sì”, dissi, mettendogli fra le mani il famoso Rapporto, perché lo pubblicasse, se lo riteneva opportuno. Lo scorse in fretta, borbottando tutto il tempo, decise che “poteva andare” e se la svignò col suo bottino.
«Perciò alla fine mi rimasero un pacchettino di lettere e il ritratto della ragazza. Mi aveva colpito la sua bellezza, voglio dire la bellezza della sua espressione. So che anche la luce del sole può essere resa ingannevole, però si aveva l’impressione che nessun artificio nella posa o nell’illuminazione avesse potuto prestare ai suoi lineamenti una sfumatura così delicata di genuinità. Sembrava pronta ad ascoltare senza riserve mentali, senza sospetti, senza pensare a se stessa. Decisi che sarei andato a trovarla e che le avrei restituito di persona il ritratto e quelle lettere. Curiosità? Sì, e forse qualche altro sentimento. Tutto quello che era stato di Kurtz mi era scivolato fra le mani: la sua anima, il suo corpo, la sua stazione, i suoi progetti, il suo avorio, la sua carriera. Rimanevano solo la sua memoria e la sua fidanzata – e, in un certo senso, volevo cedere anche quello al passato – consegnare di persona tutto quello che restava di lui a quell’oblio che è l’ultima parola del nostro comune destino. Non sto cercando di difendermi. Non avevo la percezione esatta di cos’era che volevo veramente. Forse era un impulso di fedeltà inconscio, o la realizzazione di una di quelle ironiche necessità che si dissimulano dietro gli avvenimenti dell’esistenza umana. Non lo so. Non saprei dire. Ci andai e basta.
«Pensavo che il ricordo di Kurtz fosse uguale a tutti i ricordi degli altri morti che si accumulano nella vita di ogni uomo, una vaga impronta tracciata sulla memoria da ombre che l’hanno lasciata nel loro rapido passaggio estremo; ma davanti all’imponente portone massiccio, fra le alte case di una strada tranquilla e decorosa come il viale ben tenuto di un cimitero, ebbi una visione di lui sulla barella, che apriva voracemente la bocca, quasi volesse divorare la terra e l’umanità tutte intere. Sorse lì davanti a me, vivo come non lo era mai stato, ombra insaziabile di magnifiche apparenze, di spaventose realtà, ombra più tenebrosa dell’ombra della notte, avvolta nelle nobili pieghe di una sfarzosa eloquenza. La visione sembrò entrare in casa con me – la barella, i portatori fantasma, la folla selvaggia dei suoi soggiogati adoratori, l’oscurità della foresta, lo scintillio del fiume fra le anse annebbiate, il rullio del tamburo, regolare e velato come il battito di un cuore – il cuore di una tenebra vittoriosa. Fu un momento di trionfo per la selva selvaggia, un’incursione invadente e vendicativa che a me sembrava di dover respingere da solo per la salvezza di un’altra anima. E il ricordo di quello che gli avevo sentito dire laggiù, mentre le forme cornate si muovevano dietro di me, nel bagliore dei fuochi, dentro ai boschi pazienti, quelle frasi spezzate risuonarono in me, in tutta la loro sinistra e terrificante semplicità. Ricordai la sua abietta insistenza, le abiette minacce, l’ampiezza smisurata dei suoi bassi desideri, la meschinità, il tormento, l’angoscia della sua anima in tempesta. E poi mi parve di vedere la sua aria languida e posata del giorno in cui mi aveva detto: “Tutto questo avorio in realtà appartiene solo a me. La Compagnia non ha pagato per averlo. L’ho raccolto io, con grandissimo rischio personale. Temo però che tenteranno di rivendicarne la proprietà. Uhm. È un caso delicato. Cosa pensa che dovrei fare? Oppormi, eh? Io non chiedo che giustizia.”… Non chiedeva che giustizia, nient’altro che giustizia. Suonai a una porta di mogano, al primo piano, e mentre aspettavo, sembrava che lui mi fissasse dal fondo del vitreo pannello, col suo sguardo dilatato e immenso che avvolgeva, condannava, esecrava tutto l’universo. Mi sembrò di sentire quel grido sussurrato: “Che orrore! Che orrore!”
«Si faceva sera. Dovetti aspettare in un ampio salone con tre finestre alte da terra al soffitto che parevano tre colonne luminose e drappeggiate. Le gambe e gli schienali dorati e torniti dei mobili risplendevano in curve indistinte. Il grande camino di marmo era di una bianchezza fredda e monumentale. Un pianoforte a coda si allungava massiccio in un angolo, con oscuri riflessi sulle superfici lisce come un tetro sarcofago levigato. Si aprì una lunga porta, si richiuse. Mi alzai.
«Venne avanti, vestita di nero, pallida, fluttuante verso di me nella luce del crepuscolo. Era in lutto. Era passato più di un anno dalla morte di lui, più di un anno dalla notizia della sua morte, ma lei sembrava dovesse ricordarlo e piangerlo per sempre. Prese le mie mani fra le sue e mormorò: “Avevo sentito dire che sarebbe venuto.” Notai che non era tanto giovane, voglio dire che non aveva niente della ragazzina. Dell’età matura aveva la capacità di essere fedele, di credere, di soffrire. Sembrava che la stanza fosse diventata più buia, come se tutta la triste luce di quella sera nuvolosa si fosse rifugiata sulla sua fronte. Quei capelli biondi, quel pallido viso, quella fronte pura, sembravano circondati da un alone cinereo da cui mi guardavano due occhi scuri. Lo sguardo era innocente, profondo, fiducioso e aperto. Portava la sua immagine di dolore come se fosse fiera di quel dolore, quasi volesse dire: io, io sola so piangerlo come lui merita. Ma mentre ci stringevamo ancora le mani, sul suo volto passò un’espressione di una tale desolazione che capii che lei non era una di quelle creature di cui il tempo si fa gioco. Per lei era come se lui fosse morto ieri. E per Giove!, l’impressione fu così forte che anche a me parve che lui fosse morto ieri, cosa dico?, in quel momento stesso. Vidi l’uno e l’altro nello stesso istante – la morte di lui e il dolore di lei – vidi quale era stato il dolore di lei nel momento stesso della morte di lui. Mi capite? Li vidi insieme, li udii insieme. Lei mi aveva detto, con un profondo singhiozzo nella voce: “Sono sopravvissuta”, mentre alle mie orecchie tese sembrava di udire distintamente, mescolato al tono di disperato rimpianto di lei, il sussurro della resa dei conti dell’eterna condanna di lui. Mi chiesi cosa ci stessi a fare là, con un senso di panico nel cuore come se mi fossi smarrito in un luogo pieno di misteri assurdi e crudeli, proibito ai mortali. Mi portò verso una sedia e ci sedemmo. Posai delicatamente il pacchetto sul tavolino e lei ci mise la mano sopra… “Lei lo conosceva bene”, mormorò dopo un attimo di doloroso silenzio.
«”Fa presto a nascere l’intimità laggiù”, dissi. “Lo conoscevo quanto è possibile a un uomo conoscerne un altro.”
«”E lo ammirava”, disse. “Era impossibile conoscerlo senza ammirarlo. Vero?”
«”Era un uomo notevole”, dissi con voce incerta. E davanti alla fissità implorante di quello sguardo che sembrava aspettare altre parole dalle mie labbra, aggiunsi: “Era impossibile non…”
«”Amarlo”, terminò con ardore, lasciandomi muto e sgomento. “Com’è vero! Com’è vero! E pensare che nessuno lo conosceva bene come me. Avevo tutta la sua nobile fiducia. Io lo conoscevo meglio di tutti.”
«”Lei lo conosceva meglio di tutti”, ripetei. E magari era vero. Ma ad ogni parola pronunciata la stanza si faceva più buia e solo la sua fronte, liscia e bianca, rimaneva accesa per l’inestinguibile luce della fede e dell’amore.
«”Lei era suo amico”, proseguì. “Suo amico”, ripeté un po’ più forte. “Bisognava che lei lo fosse se le ha dato questo e l’ha mandata da me! Sento di poter parlare con lei e… oh! ho bisogno di parlare. Voglio che lei sappia – lei che ha udito le sue ultime parole – che io sono stata degna di lui… Non è orgoglio… Ebbene sì! Sono fiera di sapere che ero io quella che lo aveva capito meglio di chiunque altro a questo mondo, me l’ha detto lui stesso. E da quando è morta sua madre non ho avuto nessuno – nessuno – con cui – con cui…”
«Io ascoltavo. L’oscurità diventava più profonda. Non ero neanche sicuro che lui mi avesse dato il carteggio giusto. Ho qualche motivo di credere che quel che mi voleva affidare fosse un altro pacco di carte che, dopo la sua morte, ho visto fra le mani del direttore mentre le esaminava sotto la lampada. E la ragazza parlava, traendo dalla certezza di avere la mia simpatia un conforto alla sua afflizione; parlava come beve un assetato. Avevo sentito dire che il suo fidanzamento con Kurtz non era stato approvato dalla sua famiglia. Non era abbastanza ricco o qualcosa di simile. E infatti non so se sia stato povero tutta la sua vita. Mi aveva dato qualche motivo di arguire che fosse stata l’insofferenza per la sua relativa povertà a spingerlo laggiù.
«”… Chi non era suo amico dopo averlo sentito parlare anche solo una volta?”, stava dicendo. “Attirava gli uomini a sé con quello che c’era di meglio in loro.” Mi fissò intensamente. “È la dote dei grandi”, continuò, e il suono della sua voce bassa sembrava avere l’accompagnamento di tutti gli altri suoni, pieni di mistero, di desolazione e di dolore, che avevo sentiti altrove: il mormorio del fiume, il fremito degli alberi agitati dal vento, il lamento della folla, la debole eco di parole incomprensibili gridate da lontano, il sussurro di una voce che parlava di là dalla soglia di una tenebra eterna. “Ma lei lo ha udito! Lo sa!”, esclamò.
«”Sì, lo so”, dissi con una specie di disperazione nel cuore, ma con la testa china davanti alla fede che c’era in lei, davanti alla grande, salutare illusione che splendeva di una luce non terrena in quella oscurità, nella trionfante tenebra da cui non l’avrei potuta difendere, da cui non potevo difendere neanche me stesso.
«”Che perdita per me – per noi”, si corresse con magnanima generosità; e aggiunse in un sussurro: “per il mondo.” Negli ultimi bagliori del crepuscolo potevo distinguere il luccichio dei suoi occhi, pieni di lacrime, di lacrime che non volevano cadere.
«”Sono stata molto felice – molto fortunata – molto fiera”, continuò. “Troppo fortunata. Troppo felice per una breve parentesi. E ora sono infelice per… per tutta la vita.”
«Si alzò. I suoi capelli biondi sembrarono raccogliere, in uno scintillio dorato, tutta la luce che rimaneva. Mi alzai anch’io.
«”E di tutto questo”, proseguì, con desolazione, “di tutto quello che prometteva, della sua grandezza, della sua mente generosa, del suo nobile cuore, non rimane nulla, nulla se non il ricordo. Lei e io…”
«”Lo ricorderemo sempre”, dissi in fretta.
«”No!”, gridò. “È impossibile che tutto vada perduto – che una vita simile sia stata sacrificata per non lasciare nulla – se non dolore. Lei sa quali grandiosi progetti avesse. Anch’io li conoscevo, – potevo forse non capirli – ma altri ne erano a conoscenza. Qualcosa deve restare. Le sue parole almeno non sono morte.”
«”Le sue parole resteranno”, dissi.
«”E il suo esempio”, mormorò tra sé. “Gli sguardi degli uomini erano puntati su di lui. Ogni sua azione brillava di bontà. Il suo esempio…”
«”È vero”, dissi, “anche il suo esempio. Sì, il suo esempio. Lo dimenticavo.”
«”Ma io no. Non posso – non posso crederci – non ancora. Non posso credere che non lo vedrò mai più, che nessuno lo rivedrà mai, mai, mai più.”
«Come verso un’immagine che si allontana, giunse le mani bianche e tese le braccia che, in controluce nell’angusta e pallida luce della finestra, sembrarono tutte nere. Non rivederlo mai! In quel momento io lo rivedevo abbastanza distintamente. Continuerò a vedere quell’eloquente fantasma per tutta la vita, e vedrò anche lei, ombra tragica e familiare, simile in quel gesto a un’altra, altrettanto tragica, adorna di incantesimi impotenti, che tendeva le sue braccia brune e nude, sopra lo scintillio del fiume infernale, il fiume della tenebra. All’improvviso disse, con voce molto bassa: “È morto com’è vissuto.”
«”La sua morte”, dissi, mentre un’ira funesta montava in me, “è stata in tutto degna della sua vita.”
«”E io non ero con lui”, mormorò. La mia ira lasciò il posto a un sentimento di pietà infinita.
«”Tutto quello che si poteva fare…”, borbottai.
«”Ah, ma io credevo in lui più di chiunque altro al mondo – più di sua madre – più di… lui stesso. Aveva bisogno di me! Di me! Avrei raccolto gelosamente ogni sospiro, ogni parola, ogni movimento, ogni sguardo.”
«Sentii come una stretta gelida al petto. “Non faccia così”, dissi, con voce strozzata.
«”Mi perdoni. Io, io ho pianto così tanto in silenzio, in silenzio… Lei è stato con lui, fino all’ultimo? Penso alla sua solitudine. Nessuno vicino che lo capisse, come l’avrei capito io. Forse nessuno ad ascoltare…”
«”Fino alla fine”, dissi scosso. “Ho udito le sue ultime parole…”, mi interruppi spaventato.
«”Le ripeta”, mormorò con voce spezzata. “Voglio, voglio qualcosa, qualcosa, con cui vivere.”
«Stavo per gridarle: “Ma non le sente?” L’oscurità attorno a noi le stava ripetendo in un sussurro ostinato, in un sussurro che sembrava gonfiarsi minaccioso, come il primo mormorio di un vento che si alza. “Che orrore! Che orrore!”
«”L’ultima parola, per aiutarmi a vivere”, pregò. “Non capisce che io lo amavo, lo amavo, lo amavo!”
«Mi ricomposi e parlai lentamente.
«”L’ultima parola che ha pronunciato è stata… il suo nome.”
«Percepii un leggero sospiro e poi il mio cuore cessò di battere, fermato di colpo da un terribile grido esultante, un grido di inconcepibile trionfo e di dolore inesprimibile. “Lo sapevo, ne ero certa!…” Lo sapeva, ne era certa. La sentii singhiozzare. Aveva nascosto il viso fra le mani. Ebbi l’impressione che sarebbe crollata la casa prima che io potessi fuggire, che il cielo mi sarebbe caduto sulla testa. Ma non accadde nulla. Il cielo non cade per così poco. Sarebbe caduto, mi domando, se avessi reso a Kurtz quella giustizia che gli era dovuta? Non aveva detto che voleva solo giustizia? Ma non ne fui capace. Non potevo dirlo a lei. Sarebbe stato troppo tenebroso, decisamente troppo tenebroso…»
Marlow tacque e rimase seduto in disparte, indistinto e silenzioso, nella posa di un Budda in meditazione. Nessuno si mosse per un po’. “Abbiamo perso l’inizio del riflusso”, disse il Direttore all’improvviso. Sollevai la testa. L’orizzonte era sbarrato da un nero banco di nuvole, e quell’acqua – che come un viale tranquillo porta ai limiti estremi della terra -, scorrendo scura sotto un cielo coperto, sembrava condurre dentro al cuore di un’immensa tenebra.

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