Search

STORIA DEI MONDIALI DI CALCIO – 1930: URUGUAY

Storia dei Campionati del Mondo di Calcio del 1930, pubblicata nell'inserto del Guerin Sportivo "Calciomondo" nel 1978

1930 Montevideo
URUGUAY

LA BANDA ORIENTAL CONFERMA IL SUO DOMINIO

Le prima edizione della Coppa del Mondo colloca già nel ruolo delle protagoniste le squadre sudamericane che dimostrano di essere la scuola calcistica più evoluta del momento. La finale fra argentini e uruguagi non è che l’esatta ripetizione del duello olimpico di Amsterdam 1928

Montevideo, circa 600.000 abitanti all’epoca, aveva preso il nome da una vicina collinetta battezzata così da Magellano nel 1520. La città era nata due secoli più tardi come cittadella fortificata atta, ad evitare le infiltrazioni portoghesi dal Brasile. Capitale di una nazione di quasi due milioni di abitanti, Montevideo raccoglieva quasi un terzo della popolazione ed era centro commerciale di notevole importanza continentale dotata com’era di strutture portuali moderne per le industrie che in essa si trovavano. La situazione politica, Jean Campisteguy presidente, era quella di un paese in crisi, dall’economia in larga parte condizionata dal «martedì nero» della borsa di New York dell’ottobre del ’29 e con il «socialismo di stato» imposto dal «Caudillo» Battle Ordonez nel 1911 che aveva meritato all’Uruguay l’appellativo di «Svizzera del Sudamerica», incamminato verso il tramonto per la reazione della parte conservatrice del partito «Colorado». Il «Campeonato Mundial de Futbol» impose una tregua al procedere della crisi e tutto il popolo della «Banda Oriental» diede mano ai preparativi, per dare la migliore immagine possibile della propria organizzazione civile.

Montevideo disponeva allora di due soli stadi presentabili e livello internazionale, ma certamente non adeguati ad accogliere le decine di migliaia di appassionati che avrebbero voluto assistere alle imprese della «celeste». «Procitos» e «Parque Central» erano le canchas di Penarol e Nacional, due fra le massime esponenti societarie di Montevideo e proprio dalla insufficienza di questi impianti nacque l’idea di quello che divenne poi l’Estadio Centenario costruito in cinque mesi a ritmo serrato, con tre turni nelle 24 ore grazie a potenti riflettori che rendevano possibile il lavoro notturno. Sarà pronto solamente il 18 luglio, giorno dell’inaugurazione e del debutto dell’Uruguay, le ultime rifiniture messe in opera durante la notte precedente, in alcuni punti il cemento ancor fresco era stato graffiato con le più strane scritte: «El Tito ama a la Chonga»… «El Placo es loco» …o interessati vaticini «Uruguay campeon»…

La Coppa viaggia sul «Conte Verde»

Il «Conte Verde», piroscafo di bandiera italiana, era salpato da Genova per le Americhe con a bordo un mondo eterogeneo di cantanti lirici pedatori, emigranti, e borghesi in viaggio di piacere. Il contributo europeo al successo della prima Coppa del Mondo era molto limitato nel numero delle Federazioni partecipanti. Solamente Belgio e Jugoslavia avevano aderito alla manifestazione senza tentennamenti. Lo stesso Jules Rimet aveva impegnato il suo prestigio per costringere la federazione francese a partecipare. Riuscì ad allestire una delegazione decente strappando permessi a destra e a manca per i giocatori che dovevano assentarsi dal lavoro almeno per sessanta giorni. Stesso problema per la nazionale rumena che riuscì a tener fede alla parola data in occasione del congresso di Barcellona, grazie ai buoni uffici di Magda Lupescu, legata da «affettuosa amicizia» a Re Carol di Romania, che riuscì con il suo interessamento a superare tutte le difficoltà del caso. In qualità di giocatore faceva parte della delegazione rumena il fratello di Stefan Kovacs, colui che diverrà poi il famosissimo allenatore dell’Ajax di Amsterdam. Tutto qui l’apporto delle federazioni Europee, Francia e Jugoslavia, Romania e Belgio non rappresentavano certo degnamente il livello del calcio continentale. Le peripezie di Rimet rivolte alla partecipazione della nazionale francese, gli impedirono un «tour» diplomatico nei paesi europei per cercare di forzare l’agnosticismo con il quale avevano accolto la decisione di affidare l’organizzazione all’Uruguay. L’Austria, la Svizzera, la Cecoslovacchia che vantavano fortissime rappresentative negarono la loro adesione accampando il rifiuto da parte delle società a pagare gli stipendi ai giocatori selezionati, l’Italia che aveva appena riportato la Coppa Internazionale vincendo a Budapest per 5-0, non partecipò alla spedizione con ciò innescando una velocissima polemica con i dirigenti uruguaiani che finirà solamente nel secondo dopoguerra. La federazione italiana non chiarì le ragioni della propria defezione e malignamente la stampa latino-americana scriverà che l’accaduto era da imputare al timore di possibili reazioni al saccheggio che le nostre società stavano tramando ai danni di quel calcio con la comoda trappola della «doppia nazionalità». L’Inghilterra era fuori dalla FIFA fin dal congresso di Amsterdam per la solita disputa fra dilettantismo e professionismo, e non prese nemmeno in considerazione l’eventualità della partecipazione. Gli assenti, come sempre succede, ebbero torto, la manifestazione riscontrò un grande successo finanziario e sportivo, ma lasciò l’antipatico strascico della rappresaglia. Alle successive edizioni del ’34 e del ’38 la federazione uruguaiana ripagò gli organizzatori con la stessa moneta. A bordo del «Conte Verde» rumeni, francesi e belgi, (gli slavi navigavano con il «Florida» salpato da Marsiglia) viaggiavano in compagnia di Jules Rimet e dei delegati della FIFA. Il Presidente teneva nella cassaforte di bordo la Coppa opera dell’orafo francese Abel Lafleur. Il trofeo raffigurava una vittoria alata con le braccia alzate che reggevano una tazza. 1800 grammi d’oro massiccio interamente cesellato, una trentina di cm. d’altezza, l’oggetto d’arte era costato una cifra molto vicina ai cinquanta milioni di oggi. A bordo c’era il grande tenore Chaliaplin, che rifiutò di intrattenere i passeggeri per i festeggiamenti del passaggio dell’Equatore: «Se fossi un ciabattino vorreste forse che suolassi le vostre scarpe gratis? E’ la stessa cosa, gratis non canto». I calciatori si allenavano sui ponti di bordo spedendo una infinità di palloni in mare e importunando i passeggeri che imprecavano irati «contro» quei pazzi che giocavano piuttosto di lavorare. Bella gioventù!

13 luglio 1930, ore 14: si comincia

Le federazioni Sudamericane e gli Stati Uniti aderirono con entusiasmo all’iniziativa. Tredici nazioni (Brasile, Argentina, Cile, Messico, Bolivia, Perù, Paraguay, Stati Uniti, Uruguay, Francia, Romania, Jugoslavia, Belgio) dunque suddivise in quattro gironi ognuno comprendente una testa di serie; l’ambita qualifica era stata assegnata ad Argentina, Stati Uniti, Brasile e Uruguay.

L’attesa in Montevideo s’era fatta spasmodica, le rappresentative concentrate negli alberghi avevano completato il training, le scommesse assegnavano agli uruguagi quote bassissime ma anche Argentina e Brasile raccoglievano consensi diffusi circa la conquista del titolo.

Per le partite era stato previsto un solo scenario e precisamente l’Estadio Centenario, ma il ritardo dei lavori ne rese impossibile l’impiego fin dalia prima giornata di campionato. Alle 14 del 13 luglio contemporaneamente in Pocitos e al Parque Central Stati Uniti, Belgio, Francia e Messico aprirono le ostilità del football giocato. La Coppa del Mondo era diventata finalmente una realtà da toccare con mano. In Pocitos, ad assistere a Francia-Messico erano presenti poco più di 500 spettatori ed i tricolori transalpini pur costretti in dieci uomini per l’infortunio al portiere Thepot prevalsero facilmente per 4-1 con due reti di Maschinot ed una di Laurent e Langillier, i messicani salvarono l’onore con Carreno. Al Parque Central erano presenti quattromila persone e gli Stati Uniti, rinforzati da ben sette naturalizzati emigrati di recente dalla Scozia non ebbero problemi a sbattere fuori il Belgio.

I «diavoli rossi» erano accreditati di buone possibilità e la sconfitta ad opera degli «States» suscitò non poco scalpore. Ma i belgi ancora invischiati nella problematica suscitata dal professionismo avevano lasciato in patria un giocatore come Raymond Braine che proprio nell’estate del ’30 fu ingaggiato dallo Sparta di Praga. Non fu certamente decisiva l’assenza di Braine, ma qualcosa di più i belgi avrebbero sicuramente raccolto. Dopo l’inaspettata sconfitta dell’esordio furono nuovamente battuti dal Paraguay, illuminato dalla presenza di Delfìn Benitez Caceres, «El machetero», in seguito centravanti nel Boca di Buenos Aires, al vertice del grande trio Varallo-Caceres-Charro, che conquistò alla società «zeneise» il titolo argentino del ’35, e capace quando il Boca lo licenziò per limiti d’età, di vincere la classifica cannonieri del torneo argentino del ’40, nelle file del Racing.

Jugoslavia-Brasile e Romania-Perù si conclusero con la vittoria degli europei e destò non poca sorpresa l’eliminazione del Brasile che si era presentato a Montevideo non certo al meglio delle possibilità ma che comunque era accreditato di notevoli ambizioni. La nazionale brasiliana era stata formata quasi per intero con elementi «cariocas», cioè impegnati nel campionato di Rio e l’unico rappresentante «paulista» era il centravanti Arakem Patuska, grande figura del Santos e del calcio brasiliano degli anni ’30. Squadra ricca di buone individualità come «Fernando» Giudicelli ed «Italia» Gervasoni che verranno poi al Torino, Moderato Visintainer che era all’epilogo della carriera e il centravanti Leite, che nell’incontro con la Bolivia vinto facilmente per 4-0 aveva rilevato Arakem, la formazione gialloblu denunciò varie pecche difensive e gli slavi furono lesti ad approfittarne. La Jugoslavia contava già allora molti calciatori emigrati e aveva richiamato dalla Francia Beck, Stefanovic e Sekoulic. L’ala destra Tirnanic, che sarà poi per lungo tempo selezionatore della nazionale, Marianovic nel secondo dopoguerra allenatore alla Lazio, erano calciatori di grossa personalità e anche il portiere Jakovic si segnalò fra i migliori del torneo. Morale, gli slavi sovvertirono ogni pronostico e batterono il Brasile per 2-1 con reti di Tirnanic e Beck conquistando così il diritto a disputare la semifinale.

Il 15 debuttò l’Argentina al Parque Central davanti a quasi 6000 spettatori; la febbre del mondiale cresceva, ma i bonaerensi giudicando l’incontro con la Francia poco più di una formalità snobbarono l’avvenimento. Sconfitti di stretta misura nella doppia finale olimpica di Amsterdam, «los blanquicelestes» s’erano abbeverati al calice della vendetta nel Sudamericano-Extra del ’29 organizzato in Buenos Aires. Nelle tre partite vinte a spese di Perù Paraguay e Uruguay i «portenhi» avevano segnato 9 reti ed il portiere Sossio era rimasto imbattuto; «Nolo» Ferreyra «El piloto olimpico» grande figura degli Estudiantes della Plata, passato alla leggenda del calcio argentino per la «delantera» (attacco) dei «profesores» Lauri – Scopelli – Zozaya – Ferreyre – Guaita, fu l’artefice della vittoria con i suoi gol puntuali e decisivi. Il giorno della vendetta, 17 novembre 1929, nella «cancha» del San Lorenzo gli argentini incontrarono una «celeste» orfana di Andrade, ma forte della presenza di gran parte degli Olimpionici come Mazzali, Nasazzi, Scarone, Cea, Campolo ecc. e pur tuttavia avevano vinto per 2-0 con pieno merito grazie alle reti di Ferreyra ed Evaristo. Questa vittoria classica nel punteggio e netta sul piano tecnico, aveva convinto sull’effettiva superiorità del calcio «portenho» nei confronti degli uruguagi e per la Coppa del Mondo di Montevideo si attendevano grandi cose.

L’attesa delle «hinchadas» giovò enormemente alla «seleccion». Particolarmente nel settore che presso i calciatori argentini ha conosciuto nel passato scarsa frequentazione: l’allenamento atletico. Le grandi stelle, tranne qualche rarissima eccezione, mal sopportavano la dura disciplina atletica. La definivano come coartazione tramata dall’allenatore ai danni dell’artista; e poiché tali si ritenevano interpretavano il ruolo alla maniera di Kean: genio e sregolatezza. Nei suoi ricordi Carlos Peucelle scrive che si era allenato come non mai: venti giri di campo ogni mattina mentre Luisito Monti raddoppiava la razione allenandosi anche nel pomeriggio. Per il resto addestramento con la «pelota», il vero grande amore di ogni calciatore argentino.

Il 15 di luglio dunque, nel mese più freddo dell’inverno sudamericano, i biancocelesti salirono la scaletta del Parque Central per affrontare i francesi di Thepot e Langillier, Maschinot e Laurent. Si allinearono con: Bossio; Della Torre; Muttis; Suarez, Monti, J. Evaristo; Permetti, Varallo, Ferreyra, Cherro, M. Evaristo. Al solito gli argentini avevano peccato di presunzione snobbando l’impegno, i tricolori opposero una resistenza ordinata fino alla mezz’ora della ripresa e Thepot, ebbe modo di evidenziare le sue qualità che non erano certamente poche. Ancora all’80’ sullo 0-0, ma con i terzini che cominciavano a denunciare stanchezza, i francesi opponevano una strenua resistenza alle bordate offensive di Ferreyra e «canoncito» Varallo, commettendo però un numero sempre crescente di falli. E fu con una punizione battuta con precisione da 25 metri che Luisito Monti riuscì a segnare la rete della vittoria quando mancavano appena 6′ al fischio finale. Costretti in dieci fin dall’inizio per l’incidente di gioco occorso a Laurent, i francesi sospinti dal pubblico, si rovesciarono in avanti con la forza della disperazione. All’86’ Langillier vince un contrasto sulla sinistra e centra per Maschinot che si avventa sulla palla per sbatterla in rete, quando s’ode il triplice fischio di chiusura del-l’arbitro brasiliano Almeida Rego. Alle giuste rimostranze dei guardalinee e dei dirigenti la squadra francese, l’arbitro fece riprendere il gioco, ma la grande occasione era già sfumata e il risultato rimase invariato.

Debutta l’Uruguay
Anche la nazionale uruguagia incontra impreviste difficoltà nel giorno del debutto che avviene il 18 luglio all’Estadio Centenario stracolmo di 80.000 spettatori. Concentrati nel migliore albergo della città, El Prado, da più di un mese i calciatori uruguaiani erano stati costretti ad allenamenti intensi e ad una vita spartana. Il portiere Mazali bi-campione olimpico era incorso nei fulmini del selezionatore Alberto Supicci, che lo aveva sorpreso, scarpe in mano, al rientro da una scappatella notturna ed era stato estromesso dalla «rosa». Ballestrero dunque sostituiva Mazali, un grande «arquero» nella storia della «celeste», il primo ad uscire coraggiosamente dai pali per sventare la minaccia avversaria, ed il «monco» Castro sostituiva il «mago» Scarone leggermente indisposto. Supicci mandò in campo: Ballestrero; Nasazzi Tejera; Andrade Fernandez Gestido; Urdinaran Castro Petrone Cea Iriarte e come Thepot fu grande con gli argentini, così il piccolo Pardon, peruviano, si incaricò di tenere sulle spine tutti gli uruguagi fin quando Castro verso la mezz’ora della ripresa, ricevuta una buona palla da Cea, lo batté con un tiro incrociato scagliato da una quindicina di metri.

Inaugurato finalmente l’Estadio Centenario si giocarono le restanti partite nel nuovo impianto e il Cile che già aveva battuto il Messico per 3-0 riuscì ad infrangere la tenace opposizione dei francesi con una rete della mezz’ala Guillermo Subiabre. Per raggiungere i cileni l’Argentina doveva battere il Messico e vi riuscì grazie al debutto della prima linea formata da Peucelle-Varallo-Stabile-De Maria-Spadaro. Per il Messico fu notte fonda, Stabile «El filtrador» mise a segno una tripletta, Varallo si accontentò di due reti e Zumelzu che sostituiva Monti completò il punteggio.

Parità di punteggio dunque tra cileni ed argentini e diveniva quindi decisivo lo scontro del 22 luglio, con l’arbitro belga Langenus alla scoperta delle eruzioni vulcaniche del tifo sudamericano. Stabile si confermò eccellente goleador e converte le prime due reti battendo il cileno Cortes, miglior portiere del torneo, ma Subiabre che era un peperino svelto e fantasioso mandò gambe all’aria Monti con una finta magistrale e sfruttando un errore di Bossio riuscì a dimezzare le distanze. Pochi minuti più tardi ancora Subiabre palla al piede tenta l’ingresso nei sedici metri fatali, Monti va per le spicce e con un tackle scorretto e plateale scatena le ire degli spettatori. Sul campo e sugli spalti si accende una bagarre generale con pugni, sputi e calci fra i giocatori e sommovimenti paurosi sulle tribune. Con molta fatica la polizia a cavallo riuscì a sedare i disordini, e Langenus che aveva pensato di mettere fine alla contesa mandando tutti a quel paese condusse in porto l’incontro con la vittoria degli argentini per 3-1 ultima rete di Mario Evaristo.

L’Uruguay aveva battuto facilmente i rumeni disputando un primo tempo fantastico e s’era così assicurata l’accesso alle semifinali con Argentina, Jugoslavia netta dominatrice della Bolivia (4-0) e Stati Uniti vincitori del Paraguay di Benitez Caceres. Fortunatamente il sorteggio favorì i desideri degli organizzatori e Argentina ed Uruguay, cresciute di tono nel corso del torneo non incontrarono difficoltà di alcun genere nell’infliggere l’identico punteggio di 6-1 a Stati Uniti e Jugoslavia. Guillermo Stabile ebbe modo di incrementare con una doppietta il suo bottino personale e le due formazioni misero a punto gli ultimi dettagli in vista della finale.

Uruguay campeon

Ripetizione quindi della finale di Amsterdam, prodotto evidente della supremazia del calcio rioplatense e del magistero di quella scuola orientata sulla perfezione tecnica e il rispetto della geometria nella manovra. «Portenhi» e «orientales» si ritrovavano di fronte per la conquista del trono del pallone dopo tante battaglie dall’esito incerto in Coppa America, nelle Tacas Lipton e Newton, alle Olimpiadi per evidenziare una supremazia alla quale le opposte tifoserie ambivano tenacemente. L’incontro fu preparato minuziosamente dalle autorità di polizia di Montevideo. Da Buenos Aires furono richiesti 30.000 biglietti e gli organizzatori ne concessero 20.000. Agli ingressi dell’Estadio Centenario militi della policia civil passarono a sommaria perquisizione migliaia di spettatori. Fu trovato di tutto, petardi, coltelli, revolver e la solerzia giunse a tal punto, che la terna arbitrale fu ammessa all’ingresso solamente dopo una accurata ispezione alle valigette. 20.000 tifosi argentini attraversarono il Rio della Plata su un centinaio di piroscafi che avevano attraccato al porto di Montevideo nelle 48 ore precedenti il match. L’attesa era enorme, la tensione causava incidenti significativi in ogni parte delle scalee ancora prima dell’avvio dell’incontro.

Langenus che era stato prescelto per dirigere la finale aveva accettato la designazione un paio d’ore prima dell’avvio dell’incontro. E accettò quando gli fu stipulata una congrua polizza sulla vita e assicurata l’assistenza garantita di almeno un centinaio di poliziotti. Al Prado la vigilia dell’incontro fu incrinata dalla rinuncia di Peregrino Anselmo, centravanti della «celeste» e grande rivelazione di quei campionati. Chiese di non essere schierato senza precisare i motivi che lo spingevano ad una tale richiesta e ci fu chi malignamente insinuò il sospetto di un irresistibile timore del «terrible» Monti. Con Petrone fuori forma, il compito di sostituire Anselmo fu affidato al «monco» Hector Castro, un giocatore carente sul piano tecnico ma dotato di una carica agonistica inesauribile. Uruguay dunque schierato dal prof. Supicci con: Ballestrero; Nasazzi Mascheroni; Andrade Fernandez Gestido; Dorado Scaron Castro Cea Iriarte. L’ambiente della «celeste» era teso, ma sostanzialmente conscio della propria forza e fiducioso nella vittoria.

In casa argentina al contrario regnava il «caos» più completo. Luisito Monti non voleva giocare, il pubblico gli aveva indirizzato ogni genere di contumelie, era stato oggetto di sarcastici e pesanti commenti sulla stampa locale e come non bastasse aveva ricevuto minacce telefoniche. Con Zumelzù infortunato e Chividini poco indicato per un incontro tanto importante, il responsabile Francisco Olazar fece venire da Buenos Aires due dirigenti del San Lorenzo per convincere Luisito ad accettare la designazione al ruolo. Varallo era infortunato e lo si mandò in campo ugualmente sperando in un miracolo, gli argentini nervosi e preoccupati per la loro incolumità fisica entrarono nel grande scenario alle 14,10 e al fischio di Langenus adottarono il seguente schieramento: Notasso; Della Torre, Paternoster; J. Evaristo, Monti, Suarez; Peucelle, Varallo, Stabile, Ferreyra, M. Evaristo.

Subito all’inizio gli argentini si spinsero in avanti evidenziando quello squilibrio fra reparto avanzato e difesa che è da sempre il tallone d’Achille dei «blanquicelestes». Gli uruguagi stentavano un poco, Andrade sembrava in trance e Nasazzi era costretto ad affannosi recuperi, ma al 12′ Scarone incrocia in velocità Paternoster e Suarez e smista la palla a Castro che la fa proseguire in direzione di Dorado in profondità sulla destra. Due passi in corsa dell’ala e botta secca radente che gonfia la rete dell’incolpevole Botasso. Fra le esplosioni di gioia degli uruguagi monta la furia argentina. Nasazzi e Mascheroni compiono autentici miracoli ma il pareggio è nell’aria. Al 20′ Monti manovra una palla per Stabile che serve Ferreyra, e il mezzo sinistra trattiene la palla richiamando su di sé l’attenzione dei difensori, poi con un «pase corto» serve l’accorrente Peucelle che con tiro incrociato a mezza altezza batte il «mal colocado» Ballestrero. Il gol d’ apertura ha come sgonfiato gli uruguagi; non riescono ad arginare le offensive arrembanti, le invenzioni geniali di Stabile e il controgioco d’attacco non riesce a superare la tre quarti avversaria. Intanto Stabile fa impazzire i difensori e al 37′ Nasazzi si fa sorprendere da un lungo lancio di Monti scoccato da quasi metà campo, «el filtrador» è ben piazzato ad aggira il capitano della «celeste» e non appena Ballestrero accenna l’uscita lo anticipa con un tocco beffardo che termina in rete. Il vantaggio eccita i portenhi, sospinti dal caldo incitamento dei 20.000 supporters gli argentini insistono in avanti alla ricerca del gol della sicurezza, ma Nasazzi, Mascheroni e Ballestrero fan diga moltiplicando le energie e al 57′ su un lungo lancio di Fernandez, Scarone fa da torre per Cea e il tiro del «peon» è imprendibile per Botasso. Il pareggio è come una medicina salutare, Andrade ritrova l’agilità di sempre, Fernandez specialista del controgioco può armare i suoi lanci precisi in avanti Scarone riprende le redini del gioco e per la difesa argentina aperta ed invitante cominciano i dolori.

Le incursioni offensive di Scarone e Iriarte mettono in avaria la difesa avversaria e al 68′ Mascheroni scende veloce e indisturbato sul centro e appoggia a Iriarte. L’ala finta il passaggio su Scarone e invece lascia partire un gran fendente che si spegne nell’angolo alto alla destra di Botasso. Pur vulnerabile nei reparti arretrati l’Argentina si getta in avanti portando trambusto e panico nella tifoseria uruguagia, specialmente quando Nasazzi è costretto a strattonare vistosamente Evaristo e Andrade sulla linea di porta con Ballestrero battuto, riesce a cacciar via una palla indirizzata a rete da Varallo. Ma il pareggio non arriva e gli ampi spazi concessi alle incursioni di Dorado e Iriarte portano la quarta segnatura ad opera di Castro, che interviene con la testa su una centrata di Dorado. E’ notte per le ambizioni argentine, la Coppa del Mondo finisce nelle mani di Nasazzi a concludere un decennio di dominio sul football mondiale. Agli uomini di «Nolo» Ferreyra, alla tifoseria e alla stampa argentina non rimane che l’inutile arma della polemica. La Federazione argentina perde addirittura la testa e rompe ogni e qualsiasi rapporto con la consorella uruguayana. Luisito Monti fu oltraggiato lungamente; dopo averlo accusato per lungo tempo di «brutalidad», gli appiopparono ora l’appellativo «conejo» imputandogli un comportamento pauroso nel corso della finale. Giocatori che pur nei limiti tattici del calcio «portenho» offrirono grandi spettacoli di gioco sul terreno del «centenario» vennero definiti «codardes».

Le cause che portarono alla sconfitta non erano imputabili alla valutazione dei singoli, che sul piano della classe pura le due squadre si equivalevano, il divario dei valori scaturiva dalla diversa concezione tattica delle due scuole. Sebbene Carlo Peucelle abbia recentemente scritto nei suoi ricordi che «non si parlava di tattica, ognuno saliva a giocare e sapeva cosa doveva fare» e Carlos Martinez Moreno, giornalista uruguayano confermò scrivendo «la verità è che non si usavano giocate diagrammate sulla lavagna», è pur vero che il gioco argentino era tutto orientato all’offensiva senza particolari attenzioni alla difesa e per contro gli uruguagi di Nasazzi, manovravano più raccolti sulla loro trequarti per colpire in controgioco con incursioni veloci in profondità.

Questa caratteristica gli derivava fino dal 1924 dalle peculiarità di Pedro Petrone che aveva sostituito José Piendibene al comando della prima linea «celeste» e rivoluzionato la figura del centravanti, dotato come era di potenza e capacità di tiro surrogate da una notevole velocità. Per questa caratteristica «Perucho» Petrone che verrà poi in Italia alla Fiorentina, gradiva i lanci negli spazi aperti in cui avventarsi in velocità ed usare al meglio l’arma del tiro. E con il centravanti in condizioni di forma piuttosto precarie il prof. Supicci scelse Hector Castro affidandogli i compiti che nel passato «Perucho» aveva così bene espletato. E il risultato gli diede ampiamente ragione.

Fonte: Mondogol, Supplemento al Guerin Sportivo n.29 del 19 Luglio 1978

Finale Uruguay-Argentina - L'1-0 di Dorado
Finale Uruguay-Argentina – L’1-0 di Dorado

 

SHARE THIS ARTICLE

Leave a Comment

Your email address will not be published. Required fields are marked *

Read More

Weekly Magazine

Get the best articles once a week directly to your inbox!